di Nunziante Mastrolia
Il presidente del Consiglio Enrico Letta ha pronunciato parole sacrosante in risposta alle critiche del commissario Olli Rhen circa la legge di stabilità: “di solo rigore si muore”. C’è da sperare che al prossimo consiglio Ecofin le parole ragionevolissime del nostro presidente del Consiglio vengano prese in seria considerazione. Eppure ho qualche dubbio.
Perché? Perché mentre la risposta di Enrico Letta cade appunto nel campo della ragionevolezza, della più consolidata teoria economica e soprattutto del buon senso (non puoi mettere uno a pane ed acqua per giorni e poi pretendere che vinca i cento metri), le critiche europee alla nostra manovra finanziaria ricadono invece nel campo della fede: conforma la tua vita alle virtù teologali del liberismo e, dopo aver attraversato questa lacrimosa crisi economica prodotta dai tuoi stessi peccati, per te si apriranno le porte del paradiso della crescita miracolosa. E ancora: sta attento a non cedere alla tentazione della spesa pubblica, liberati dalle tue partecipazioni statali, liberati del fardello dello stato sociale e soprattutto non varcare mai la soglia del 3%, altrimenti forze oscure, dopo essersi accorte che hai abbandonato la via della virtù, riprenderanno ad attaccarti; tutti allora ti scacceranno, nessuno finanzierà più il tuo debito e niente potrà allora salvarti dall’inferno greco. Fede e ragione, dunque. E, per quanto ne so, la fede non sente ragioni.
Ovviamente qui, la fede non c’entra nulla. Allora, come stanno le cose? Vediamo: assodato che il rigore non produce crescita economia sana, quindi per tutti (a contrario: a ripartire sono i paesi che se ne sono infischiati della politiche del rigore). Se non c’è crescita, non si può neanche sperare di mettere in ordine i conti pubblici, a meno di non ingaggiare una corsa devastante con la depressione: più cala il PIL più crescono le tasse, ma il fondo del barile è lì che aspetta, ansioso di farsi raschiare. Almeno si può dire che tutto ciò ci serve a tenere lontano l’attacco della speculazione? No, neanche quello.
Perché? Il Giappone ha un debito che è del 236% rispetto al PIL ed un rapporto deficit/PIL del 10%, per non parlare del debito americano che è del 120% (e parliamo del solo debito federale). Per inciso, la massima parte del debito giapponese è nella mani dei propri cittadini. Era così anche in Italia fino a qualche anno fa, poi forse qualcuno ha pensato che faceva troppo provinciale. E ancora: “i tassi di interesse sul debito britannico sono molto più bassi di quelli sul debito spagnolo (…) anche se la Gran Bretagna ha un debito e dei disavanzi più elevati, e presumibilmente una prospettiva fiscale peggiore rispetto alla Spagna, pur tenendo conto della deflazione spagnola” (Krugman, 2012).
Ci sono forse attacchi speculativi contro Tokyo, Washington o Londra? Per quanto ne so, no. Ed il motivo è che agli investitori interessa sapere una cosa molto semplice: “se le cose vanno male, chi paga?”. Il Giappone, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna (ed altri) hanno la risposta a questa domanda: “state tranquilli! Se le cose vanno male chiediamo alle nostre banche centrali di stampare un po’ di soldi e possiamo così ripagare i nostri debiti”.
In Europa questo non poteva succedere, perché alla BCE questa manovra non era concessa. Poi, per fortuna, è arrivato Mario Draghi e quando ha affermato che la BCE avrebbe fatto di tutto per difendere l’euro (ed ha iniziato a comprare il debito dei paesi in difficoltà), gli attacchi della speculazione si sono fermati e lo spread è crollato, passando da un picco di 538 a un minimo a 236.
Questo cosa significa? Significa che, se a Draghi viene consentito di fare ciò che ha promesso, se la BCE continua a fare da creditore di ultima istanza, non ha nessun senso continuare ad insistere sulle politiche di austerity, quanto meno durante una recessione, che aspira a diventare una depressione. Il che vuol dire che i vari accordi – dal Fiscal Compact, al Six Pack – non solo sono dannosi, ma anche, ironia della sorte, inutili.