10.19.2013

Un’economia malata

Il Senato Usa ha trovato, a poche ore dal baratro, un accordo bipartisan, che ora dovrà però essere votato dalla Camera dei rappresentanti, a guida repubblicana. Speriamo bene. Lo shutdownscattato all'inizio di ottobre con la chiusura di settori importanti della pubblica amministrazione resta comunque un'evidente dimostrazione della crisi sistemica che affligge l'economia e la finanza degli Stati Uniti.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista



Il governo di Washington è senza soldi in quanto ha utilizzato tutte le disponibilità di bilancio approvate dal Congresso. Per continuare con l'attuale ritmo di spesa previsto dovrebbe "sfondare" il tetto del debito pubblico prestabilito. Com'è noto, ogni anno e da tempo si ripete lo sfondamento del limite massimo del debito, un'operazione che richiede però l'approvazione del potere legislativo.

Nel frattempo oltre 800.000 dipendenti federali che lavorano in alcuni settori amministrativi, nella gestione del territorio e dei parchi e perfino nel settore spaziale e dell'intelligence sono da giorni a casa e senza stipendio. Ora si parla di accordo, ma per intanto questo è successo.

Naturalmente la sospensione dal lavoro di centinaia di migliaia di impiegati comporta una perdita di reddito pari a circa 200 milioni di dollari al giorno che inevitabilmente genera una riduzione dei consumi mettendo in crisi anche settori del commercio.

Il blocco da parte dell'amministrazione pubblica dei pagamenti colpisce anche le imprese appaltatrici di opere e servizi pubblici e i relativi fornitori.

Certi effetti sociali cominciano a farsi sentire pesantemente. Per esempio, è bloccato il programma di aiuti alimentari previsto per ben 9 milioni di mamme e bambini bisognosi. Questa situazione mette oggettivamente in discussione anche la scelta più qualificante dell'Amministrazione Obama che è la riforma sanitaria aperta a tutti i cittadini.

Lo shutdown fa giustizia dell'ottimismo diffuso sulla presunta ripresa economica americana tanto sbandierata nei mesi passati, anche per quanto riguarda la nuova occupazione. Infatti secondo uno studio Gallup, dal novembre 2012 a settembre 2013 negli Usa l'occupazione dipendente a tempo pieno è passata dal 46,1% al 43,5%. Sono cresciute, quindi, soltanto le varie forme di sottoccupazione e di lavoro precario.

Adesso la data cruciale è il 17 di ottobre quando lo sfondamento del tetto del debito diventerà inevitabile altrimenti la disponibilità giornaliera di risorse utilizzabili passerà da 60 a 30 miliardi di dollari. Se ciò accadesse gli Usa non sarebbero più capaci di onorare gli interessi sul loro debito pubblico. Sarebbe il default, la bancarotta degli Stati Uniti, che si accompagnerebbe ad un collasso del dollaro, ad una grave crisi occupazionale e ad una impennata dei tassi di interesse con riverberi globali.

I Treasury bond sono considerati come l'ultimo e più sicuro rifugio finanziario da parte dei risparmiatori americani e degli investitori internazionali. Il Tesoro americano ammonisce perciò che il default provocherebbe una crisi finanziaria peggiore di quella del settembre 2008.

Il fatto che la borsa di Wall Street non abbia risentito molto degli effetti dello shutdown dimostra la diffusa convinzione che presto il governo e il Congresso raggiungeranno l'intesa su un significativo sfondamento del tetto del debito pubblico. Attualmente esso è di 16,7 trilioni di dollari. In soli tre anni è aumentato di quasi 3,5 trilioni! Si sottolinea che ben 5,1 trilioni di tale debito sono detenuti da fondi sovrani ed da altre entità finanziarie non americane. La Cina ne possiede 1,315 trilioni di dollari ed il Giappone 1,111 trilioni.

Lo scontro politico negli Usa è quindi tutto giocato sul ricatto o bancarotta o aumento del debito pubblico. E' doveroso sottolineare che non siamo di fronte ad una politica keynesiana da parte di Washington che giustificherebbe la crescita del debito pubblico e il contestuale aumento degli investimenti per uscire dalla recessione.

Purtroppo non è così. La gran parte del debito pubblico è servita per le operazioni di salvataggio e di sostegno del sistema bancario. Altrimenti come si spiega che, mentre lo Stato "chiude" e rischia ildefault, le grandi banche americane festeggino i più alti profitti della loro storia?

10.14.2013

Progetti per la ripresa

Mobilitare il nostro sistema-paese
sul territorio e a livello internazionale

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

Riteniamo che le prospettive economiche del nostro Paese non si possano misurare con meri dati statistici o peggio con qualche altro indicatore basato magari sulle aspettative degli intervistati.
Non si tratta di iniziare una diatriba tra ottimisti e pessimisti sul futuro dell'economia nazionale. In passato questi "psicologismi spiccioli" hanno infatti dato spazio solo alla frustrazione e alla rabbia.
Siamo consapevoli che spesso certe valutazioni negative sulla nostra economia, come quelle delle agenzie di rating, si sono tradotte, purtroppo, in tagli e spesso in cieca politica di bilancio.
Allo stato non esistono però concreti e solidi elementi per poter salutare l'uscita dalla crisi né a livello globale né a livello europeo e tanto meno a livello nazionale.
Basti pensare che l'Ocse prevede un alto livello di disoccupazione. Per l'Italia il tasso relativo dovrebbe salire al 12,5% alla fine del 2014!
E' davvero difficile quindi immaginare una ripresa economica mentre l'occupazione scende così vistosamente, determinando ovviamente un conseguente generalizzato aumento della povertà.
In Italia, purtroppo, da tempo manca una seria programmazione con una conseguente puntuale verifica di quanto realizzato. E' indispensabile indicare percorsi di sviluppo ma anche progetti sul medio e lungo termine e scadenze precise.
Il Piano Industriale 2013-2015 della Cassa Depositi e Prestiti ci sembra un percorso positivo per avviare interventi di vero sviluppo. Per il triennio si prevedono 95 miliardi di euro a supporto degli investimenti delle Pubbliche amministrazioni e delle imprese nonché per la realizzazione delle infrastrutture.
Nello specifico, 23 miliardi sarebbero destinati a investimenti pubblici produttivi, in particolare edilizia sociale e scolastica, e anche per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Altri 9 miliardi sarebbero stanziati per le infrastrutture e le grandi opere, mentre si ipotizza uno specifico fondo per le piccole infrastrutture.
Importante è lo stanziamento di 48 miliardi non solo per la crescita ma anche per l'internazionalizzazione delle imprese. Dovrebbero poi essere definiti percorsi speciali per il sostegno delle Pmi e delle Reti di impresa.
Al Mezzogiorno verrebbe destinata per investimenti una quota superiore ai 20 miliardi del passato triennio.
Ci sembra positivo che la Cdp stia sempre più assumendo un ruolo di attore dello sviluppo. Si penserebbe anche all'emissioni di mini-bond per le Pmi per un accesso facilitato al credito ed eventuali operazioni di project finance con l'estero.
Complessivamente il contributo previsto del Gruppo Cdp al rilancio dell'economia italiana dovrebbe essere del 6% nel triennio, pari quindi al 2% annuo del Pil.
Tutto ciò sembra in un certo senso ricalcare l'operatività dellaKreditanstalt fuer Wiederaufbau, la banca per la ricostruzione tedesca, che è uno dei veri motori "segreti" del successo economico e industriale della Germania.
Tuttavia pensiamo che altre sfide per il sistema-paese Italia siano ineludibili.
Occorre un grande Fondo, almeno di parecchie decine di miliardi di euro, per lo sviluppo delle nuove tecnologie e delle infrastrutture strategiche del futuro capitalizzando il patrimonio immobiliare pubblico.
In merito ci preme affermare la contrarietà ad una privatizzazione selvaggia giustificata dall'enormità del nostro debito pubblico. Il tasso annuale del debito può calare se, a una politica di contenimento delle spese correnti, si associano scelte efficaci per la crescita della ricchezza prodotta.
L'innovazione tecnologica delle nostre imprese potrà loro consentire in modo più incisivo di partecipare a grandi progetti anche a livello continentale. Si pensi all'Eurasia, all'America del Sud e all'Africa: Ciò non solo incrementerebbe l'export ed il ruolo delle singole industrie italiane impegnate nelle joint venture ma ridarebbe al "sistema Italia" un ruolo da protagonista nello scenario geopolitico internazionale.

10.07.2013

Organize!

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

Organize!

 

7 ottobre, Giornata mondiale del Lavoro dignitoso promossa dal sindacato internazionale, alla sua settima edizione. Torna ad essere celebrata unitariamente in Italia. Al centro della mobilitazione il diritto alla sindacalizzazione, messo sotto attacco dalle politiche neoliberiste.

di Silvana Cappuccio e Leopoldo Tartaglia

Promossa dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (ITUC-CSI), la Giornata Mondiale del Lavoro Dignitoso, il 7 ottobre, è giunta alla sua 7^ edizione e vede il movimento sindacale internazionale impegnato in centinaia di iniziative, in quasi tutti i paesi del mondo.

Lo slogan scelto per quest'anno, "Organize" ("Sindacalizziamo"), sottolinea allo stesso tempo la necessità per il movimento sindacale internazionale di rispondere alla crisi economica e sociale globale aumentando la sua influenza, attraverso la sua forza organizzata e la rappresentanza di un numero sempre maggiore di lavoratrici e lavoratori, e quella di difendere uno dei diritti fondamentali – la libertà di associazione – sancito dalla Convenzione OIL n. 87 e uno dei pilastri del Lavoro Dignitoso, ma messo sotto pesante attacco da governi e padronato, e dal persistere delle politiche neoliberiste.

Cgil, Cisl e Uil, nell'organizzare – dopo diversi anni – un'iniziativa unitaria in occasione della Giornata Mondiale, hanno scelto il tema immediatamente correlato alla libertà di associazione, quello della libertà di contrattazione collettiva (Convenzione OIL n. 98), messa pesantemente sotto attacco in Europa dalle politiche della Troika.

"Si puo' uscire dalla crisi senza contrattazione collettiva? Un confronto sull'attacco alla contrattazione a livello europeo e globale" è, infatti, il titolo dell'incontro che si terrà a Roma,dalle 9.30 alle 13.30 presso la sede dell'OIL, in via Panisperna 28. Interverranno, tra gli altri: Luigi Cal (Direttore Ufficio OIL di Roma), Anna Biondi (Vice Direttore ACTRAV OIL), Ramon Gorriz Vitalla (Segretario Nazionale CC.OO Spagna), Xavier Verboven, (Presidenza Gruppo Lavoratori CESE), Pierangelo Albini, (Confindustria).

 

 

 

 

Da MondOperaio

http://www.mondoperaio.net/

 

Ademar de Barros

Ebbe a definire sé stesso uno che "ruba ma realizza" (rouba ma faz)

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di Alberto Benzoni

Non stiamo parlando di un calciatore, ma di un politico brasiliano di oltre mezzo secolo fa. Di un signore che, nel corso di un'accesa campagna elettorale, ebbe a definire sé stesso uno che "ruba ma realizza" (rouba ma faz). Attenzione: con si trattava di una dichiarazione spontanea fatta in sede giudiziaria; e nemmeno di una sorta di confessione pubblica, con annesso tentativo di giustificazione. Quello che il Nostro intendeva dire, rivolgendosi agli elettori, era semplicemente questo: "Ammesso e non concesso che io abbia rubato ( cosa che non mi è stata contestata in sede penale e che, nel caso, può essere considerata pratica corrente), voi non mi dovete giudicare, in sede politica, per la mia moralità ma per la mia efficienza; insomma non per le mie, eventuali, deficienze individuali ma per la mia capacità di venire incontro ai vostri bisogni collettivi".

Un'asserzione veridica? Non lo sappiamo. Come non sappiamo nulla dell'uomo, dei suoi trascorsi e dei suoi percorsi successivi. Pensiamo, comunque, che il suo nome debba essere ricordato per quella semplice battuta destinata a illuminare il dibattito politico allora e nei decenni a venire.

Adhemar non posa a immoralista. Né rivendica, preventivamente, franchigie o immunità. Se incapperà in un processo, si difenderà con tutti i mezzi a disposizione: sempre però considerando l'evento come un rischio connesso al mestiere, e senza scandalizzarsene. A lui interessa rivendicare, nel mondo della politica, un principio base: che chi la pratica va giudicato dalla gente non in base alla sua moralità privata e/o pubblica – o, più esattamente, non solo in base a questa – ma anche, e soprattutto, in base alla qualità e ai risultati delle sue azioni.

Impostazione, in linea generale, corretta. I notabili della destra piemontese erano, in tutti i sensi, più probi e meno spregiudicati di Cavour; Catone Uticense più virtuoso dell'affarista Giulio Cesare; gli spartani migliori degli ateniesi; e, per venire ai giorni nostri, Ahmadinejad meno corrotto di Rafsanjani, e Bush padre e figlio più morigerati di Kennedy e di Clinton. Ma con il senno di allora e del poi nessuno potrebbe considerarli, per questo, più adatti alla gestione della cosa pubblica. Così come, con il definitivo affermarsi della democrazia come orizzonte naturale dell'agire politico, è per nostra fortuna totalmente scomparso il tossico mito di Sparta.

Naturalmente, il nostro Adhemar non era per nulla qualificato a porre il problema (e per la verità non era nemmeno cosciente di porlo). In giro non c'erano né Cesare né Catone, ma un politicante locale in lizza con altri nel medesimo eterno esercizio del voto di scambio: opere pubbliche da appaltare, amici e poveri cristi da sistemare. Pure, con l'andare del tempo, il suo quesito ha acquistato sempre maggiore importanza, sino a portare a risposte sempre più radicalmente divergenti. Così stiamo assistendo, proprio nel nostro paese, ad una magistratura che sequestra la politica in nome di una supposta titolarità nella preservazione della virtù. E per converso a politici che rivendicano l'impunità in nome del consenso ricevuto.

Ma non c'è da stupirsene. Il nostro è un paese di confine. Lo era una volta tra Est e Ovest. Lo è oggi tra Nord e Sud. O più esattamente tra regimi di antica democrazia in cui il fattore decisivo nel giudizio sui politici è il "non rubare"; e paesi emergenti in cui pesa in modo determinante il "fare". Così in Germania si è squalificati per avere copiato in parte una tesi di laurea, mentre i Parlamenti, centrali e locali, dell'Unione indiana sono popolati da pregiudicati (anche per reati di sangue). Così, nel nostro vecchio mondo, variamente egemonizzato dai ceti medi "sensibili", la gente non si attende poi tanto dalla politica, ed è quindi molto attenta ai comportamenti privati e pubblici di chi la pratica. Mentre, nelle democrazie dominate dalle attese dei poveri, alla politica si chiede tutto, sino a chiudere un occhio di fronte ai comportamenti di coloro che sono chiamati a soddisfare queste attese.

Oggi, però, in India come in Brasile, in Thailandia come in Messico, il clima sta cambiando. Nel senso di una attenzione assai maggiore al "come" rispetto al "che cosa"; o, più esattamente, al corretto esercizio della politica come premessa necessaria per il raggiungimento delle sue finalità.

C'è solo da sperare, allora, che l'oscillazione si fermi al punto giusto; così da consacrare all'oblio lo slogan del nostro Adhemar; ma non la natura dei problemi che poneva.

 

“Capitani” coraggiosi

di Alfonso Isinelli

Le vicende Telecom, Alitalia, Ansaldo che in questi giorni occupano le prime pagine dei giornali, sono la punta dell'iceberg del processo delle privatizzazioni in Italia negli ultimi anni. Posto che alcune delle aziende che sono state messe sul mercato in condizioni disastrose, vedi Alitalia, altre che erano, sia pur nelle difficoltà finanziarie (Telecom), dei fiori all'occhiello, sono state ridotte ai minimi termini sia a livello di valorizzazione patrimoniale, che di qualità di servizi. E altre ancora, vedi Ansaldo, che ancora oggi sono dei gioielli sia a livello economico che industriale, sono appetiti da cinesi e giapponesi, per la disastrosa gestione della casa madre, Finmeccanica travolta dalla corruzione di matrice politica. Ed è proprio questo il punto: l'incredibile incapacità politica nella conduzione di questi processi; incapacità in cui si sono distinti, paritariamente sia il centro-destra che il centro-sinistra.

E' storia che la consegna di Telecom ai "capitani" coraggiosi guidati da Colannino, avvenne per diretto volere di Massimo D'Alema (che coniò l'ardita definizione) con il solo risultato di farli arricchire quando, quattro anni dopo vendettero con enorme plusvalenza, a Tronchetti Provera, che l'ha usata come cassaforte personale, con l'appoggio del gotha bancario e finanziario italiano, per poi venderla, lasciando il cerino in mano al suddetto gotha, che oggi la cede (all'insaputa del suo presidente Bernabè!), a prezzi di saldo agli spagnoli di Telefonica, consegnandogli il vero asset strategico, la rete e il mercato brasiliano, che è l'unico con TIM Brasil, che crea utili.

Al centro-destra (e ai sindacati) va invece attribuita la vicenda Alitalia: nel 2008 Air France era pronta a mettere sul piatto tre miliardi di euro ed accollarsene altrettanti rilevando i debiti della nostra compagnia di bandiera. Ma al grido dell'interesse nazionale, Berlusconi, poco prima delle elezioni, impedì a Prodi di chiudere l'operazione, con la complicità dei sindacati, che vedevano con preoccupazione i processi di ristrutturazione previsti dei francesi. Risultato: dopo le elezioni, il governo Berlusconi, cede la compagnia ad un nuovo gruppo di "capitani" coraggiosi (fra i quali spiccano i nomi di Riva, Ligresti, Caltagirone Bellavista, oggi tutti ospiti delle patrie galere) ad un miliardo di euro, mentre i debiti vengono caricati allo Stato, così come le spese per cassa integrazione, esodati, pensionamenti anticipati, visto che una notevole fetta di lavoratori viene mandata a casa. Fanno circa 6 miliardi di euro a carico del bilancio statale (quelli che oggi si cercano per IMU, IVA ecc.) con in sovrappiù la beffa che oggi Air France, acquisirà il controllo di Alitalia con appena 250 milioni.

Che fare? Esclusa la nazionalizzazione, sia per i vincoli europei, sia, soprattutto, perché sarebbe questa classe politica a gestirla, il primo passo da fare sarebbe quella di ripristinare la golden share (che il governo Monti non aveva previsto per le telecomunicazioni!), almeno per quello che riguarda la rete telefonica, imponendo il suo scorporo e poi che si ricominciasse a programmare una politica industriale.