2.15.2010

L'ECONOMIA E L'EFFETTO DOMINO

Riceviamo e volentieri pubblichiamo
E’ venuto il momento di chiedersi se non sia fallita quell’idea di modernità fondata sulla monetizzazione e mercificazione di tutto, sul mito di un progresso irresistibile che pretende di crescere all’infinito.

di Luciano Neri - Coordinamento PD Italiani all'estero
Nonostante la flebile speranza aperta dall’elezione di Obama negli Stati Uniti, le scelte portate avanti dai governi che comandano nel mondo sembrano ispirate dalla pura follia. Il pianeta ha sempre più fame, di cibo, di giustizia, di decisioni irrimandabili che non vengono assunte, mentre perdura un’ostinata coazione a ripetere, con scelte sbagliate che producono effetti devastanti per l’ambiente e per milioni di persone. Siamo ancora immersi, come dice Jean-Paul Fitussi, nell’epoca immorale. Invece di riflettere sulle motivazioni della crisi internazionale si continua a sostenere, senza modificarne pratiche e finalità, il sistema bancario e finanziario che è all’origine della crisi stessa. Per sostenere le banche i Paesi del G20 hanno speso negli anni post crisi il 18% del loro Pil, senza pretendere alcuna garanzia rispetto al fatto che lo stesso torni a fare il suo mestiere, che dovrebbe essere quello di finanziare l’economia pubblica e privata. Così i germi di riproduzione della crisi prosperano e i cittadini pagheranno due volte, per il salvataggio e per i debiti contratti in seguito alla crisi stessa.

Avviene l’esatto contrario di quello che sarebbe necessario: il sistema bancario e gli organismi finanziari internazionali, già definitivamente tornati alle politiche precedenti, premono sui governi affinché taglino la spesa pubblica e sociale e quella per gli investimenti. I governi obbediscono, la politica segue, il cinismo e la follia dilagano. Va considerato inoltre che una crisi globale di questa dimensione, nata nel cuore dell’Occidente, se da una parte produce effetti molto negativi in quei Paesi dotati di un sistema di protezione sociale più avanzato (nel nord), dall’altra diventa devastante per i Paesi sottosviluppati e del sud del mondo, nei quali la crisi ha ampliato a dismisura le guerre, le devastazioni ambientali, la povertà, la morte per fame. Altro che “governance” , siamo alla ingovernabilità dei processi su scala planetaria, con gli organismi internazionali (Onu, Fondo Monetario, Fao…) che hanno perso qualsiasi funzione regolatrice e la residua credibilità agli occhi della stragrande maggioranza dei Paesi e dei popoli del mondo.

Esempio solare di questa follia, e di questo fallimento, è stato il vertice di Copenaghen. Un vertice sostenuto da un abnorme corollario mediatico, preceduto da solenni dichiarazioni di governi e imprese sulla urgenza di misure drastiche e strutturali da assumere di fronte ai mutamenti climatici e alle conseguenze devastanti per l’ambiente. Un vertice che si è concluso con un documento ridicolo dell’ultima ora, non vincolante, del tutto inefficace e di cui la Conferenza ha solo “preso atto”. Le oligarchie mondiali hanno ancora una volta fatto prevalere i profitti sulle persone, tentando di mistificare il risultato compiacendosi dei “piccoli passi” compiuti dal vertice. E invece si è tornati indietro addirittura rispetto al Protocollo di Kyoto che è stato definitivamente archiviato anche come riferimento giuridico. Le politiche messe in atto destrutturano il già precario sistema del diritto umano, soprattutto con riferimento al diritto al cibo. Ma scordiamoci l’illusione di non pagare, noi stessi nei Paesi “opulenti”, gli effetti che si faranno sentire sul piano dell’insicurezza, della crescita dei conflitti con migrazioni di massa e inarrestabili. Il fallimento del vertice di Copenaghen ha dimostrato, una volta di più, quanto sia urgente porre in agenda il problema del deficit di democrazia a livello internazionale e la costituzione di una nuova architettura politica mondiale.

Un anno fa, con la elezione di Barak Obama negli Stati Uniti, sembrava aprirsi una fase nuova e più responsabile, fondata sul rilancio del multilateralismo, su un possibile superamento dei conflitti, compreso quello israelo-palestinese, su un nuovo rapporto con i paesi islamici, su politiche più attente all’ambiente. Ma la “speranza Obama” sta purtroppo perdendo la sua spinta propulsiva. Per ora, in attesa della “green Economy” gli Stati Uniti hanno imposto le ragioni della forza e della “non negoziabilità” dei livelli di vita e di consumo dell’American Way of Life. Una crisi destinata ad acuirsi se gli Stati Uniti non riusciranno a trovare una nuova strada per rapportarsi alle criticità e ai conflitti internazionali. In Iraq, tra un anno, con un referendum già previsto gli iracheni decreteranno in forma plebiscitaria l’uscita degli americani dal Paese.

In Afghanistan ormai i talebani colpiscono nel cuore della stessa zona di sicurezza a Kabul, si rafforzano grazie ai proventi dell’oppio e alle scelte di un presidente corrotto come Karzai che ha reintrodotto la shaaria, ha portato al governo i criminali signori della guerra e tratta ormai direttamente con i talebani e con il mullah Omar per portarli al governo.

Il problema principale resta quello della mancanza di una strategia diversa da quella esclusivamente militare, che miete vittime tra la popolazione civile, che amplia l’ostilità della società afghana nei confronti delle truppe straniere e aumenta il sostegno ai gruppi jihadisti. Il rischio è che ognuno di questi conflitti frani sull’altro, con un effetto domino che trascina dietro tutto determinando situazioni sempre più ingovernabili. La stessa apertura fatta da Obama al mondo mussulmano dopo l’intervento del Cairo rischia di essere vanificata dagli avvenimenti sul campo. E soprattutto dal permanere della ferita palestinese e della progressiva occupazione israeliana dei territori.

I conflitti continuano, le aree di crisi si estendono, dal Pakistan al corno d’Africa, dallo Yemen all’Iran, e non c’è alcuna possibilità per gli Stati Uniti, dopo i fallimenti militari e politici dell’era Bush, di aprire altri fronti. Men che meno in Iran.

Il terrorismo, tutt’altro che sconfitto, resta un fenomeno presente, diffuso, in Afghanistan, in Pakistan, in Africa, nel Maghreb, nei Paesi del golfo. Il noto analista internazionale Gilles Kepel afferma che il terrorismo, in quanto resistenza alla modernità, sarà inevitabilmente spazzato via dalla affermazione della modernità stessa nei diversi Paesi. Mi pare una illusione che non trova riscontro nella realtà. Forse, più che innamorarci dei nostri autismi, è venuto il momento di chiederci se quell’idea di modernità fondata sulla monetarizzazione e sulla mercificazione di ogni cosa, sul mito di un progresso irresistibile che consuma tutto per accrescersi all’infinito, che ignora la cultura, gli esseri umani e l’ambiente, che impedisce qualsiasi sviluppo antroposociale, non sia già fallita e alle nostre spalle.



2.13.2010

Vertice Ue, accordo sulla Grecia; L'ECONOMIA E L’EFFETTO DOMINO

Van Rompuy non ha fornito dettagli, ma il testo prevede il sostegno comunitario e stabilisce che gli stati hanno “una responsabilità condivisa” per quanto riguarda la stabilità dell'area. I partner europei: “Ora tocca ad Atene raggiungere gli obiettivi”

I leader europei hanno trovato un accordo sulle misure contro la crisi finanziaria greca. L’annuncio è stato dato a Bruxelles dal presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy, al termine di un incontro a quattro con la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy, il premier greco George Papandreou e il presidente della Banca centrale Jean Claude Trichet.

Van Rompuy non ha fornito dettagli ma, secondo il testo della dichiarazione letta in conferenza stampa, al centro dell'accordo c'è la decisione, da parte di tutti e 27 gli stati membri e della Commissione, di monitorare strettamente l'attuazione delle misure greche, con l'assistenza solo tecnica del Fondo monetario internazionale. L'intesa prevede il sostegno comunitario ad Atene e stabilisce che gli Stati dell'area euro hanno “una responsabilità condivisa” per quanto riguarda la stabilità economica e finanziaria dell'area.

E’ dunque in questo quadro che l'Unione “sostiene pienamente gli sforzi del governo greco e il loro impegno a fare tutta quanto è necessario, compresa l'adozione di misure addizionali per assicurare che gli ambiziosi obiettivi fissati dal piano di stabilità per il 2010 e gli anni successivi siano raggiunti”. I partner europei invitano inoltre il governo greco a mettere in pratica “tutte le misure in modo rigoroso e determinato per ridurre effettivamente il deficit dei conti del 4% nel 2010”. L’accordo, però, dovra' ora essere attuato “nei giorni e nelle settimane a venire'.

Il controllo sull'attuazione delle raccomandazioni spetta in ogni caso alla Commissione, “in collegamento con la Bce”; la stessa Commissione proporrà le misure aggiuntive necessarie, avvalendosi della consulenza tecnica del Fondo monetario internazionale. Una prima valutazione sarà fatta a marzo.

Dagli Stati Uniti il consigliere economico della Casa Bianca Christina Romer ha detto che l'America darà il suo sostegno a qualsiasi iniziativa per rendere più stabile e sicura la situazione di Atene. "L'accordo di oggi - ha concluso Van Rompuy- traduce una volonta' politica forte, in cui c'e' una parte sulla responsabilità della Grecia, e uno politico di solidarietà se necessario".

Secondo, Jean-Claude Juncker, la Grecia non e' comunque a rischio fallimento. L'ipotesi di un fallimento di Atene 'non e' da prendere in considerazione', ha detto oggi il presidente dell'eurogruppo. Il presidente della Commissione, Jose' Manuel Barroso, ha confermato. Al momento la Grecia “non ha chiesto aiuti finanziari” – ha detto - e non e', dunque, sull'orlo della bancarotta. 'Non e' il momento di pensare a scenari molto remoti o poco realistici', ha concluso.

Francia e Germania si propongono inoltre come 'il motore' del processo che portera' a un governo economico europeo. E’ questo il segnale forte lanciato dal presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, e dalla canceliera tedesca Angela Merkel, nella conferenza stampa congiunta al termine del vertice. Merkel e Sarkozy hanno spiegato di aver 'raccolto il consenso' degli altri leader europei sull'esigenza di rafforzare il coordinamento delle politiche economiche nazionali attraverso l'indicazione di 'obiettivi selezionati e condivisi”.







2.08.2010

Fiat, lo sciopero blocca tutte le fabbriche

Economia e lavoro 
 
Braccia incrociate per 4 ore contro la chiusura di Termini Imerese, ma anche per il futuro degli altri impianti. Adesioni tra il 50 e l'80%. Protesta a Mirafiori e Pomigliano. Scajola: c'è spazio per salvare Termini

In tutta Italia ieri (mercoledì 3 febbraio) si sono fermati per 4 ore gli stabilimenti del gruppo Fiat. E’ pienamente riuscito lo sciopero nazionale, proclamato unitariamente da Fim, Fiom, Uilm e Fismic contro la chiusura di Termini Imerese ma anche per il futuro degli altri impianti. Lo dimostrano i dati di adesione alla mobilitazione, mentre la Cgil esprime grande soddisfazione per l’iniziativa. Braccia incrociate dalle 10 alle 14 e dalle 18 alle 22 per i lavoratori delle fabbriche principali: produzione ferma da Termini a Mirafiori passando per Pomigliano.

    Secondo il Coordinamento nazionale auto della Fiom-Cgil, lo sciopero ha avuto adesioni che si collocano, nei vari stabilimenti, tra il 50% e l’80%, con punte anche superiori in alcune fabbriche.

    A Termini Imerese, l’impianto che chiuderà entro fine 2011 - nelle intenzioni del Lingotto -, gli addetti si sono fermati alle 10: davanti ai cancelli è partito un sit-in, alla presenza dei dirigenti sindacali e del leader della Fiom, Gianni Rinaldini. “Lo stabilimento non può chiudere – ha dichiarato proprio Rinaldini -, in Italia non esiste una sovracapacità, anzi il nostro paese, in Europa, è l'unico tra quelli industrializzati, ad importare auto perchè se ne producono poche rispetto alla richiesta di mercato. Fino a qualche mese fa - a suo avviso - Marchionne prevedeva investimenti e nuova occupazione a Termini Imerese poi, dopo l'accordo con Chrysler, ha deciso che la fabbrica deve chiudere, ma non esiste un motivo reale se non quello che l'azienda sta spostando il suo business agli Stati Uniti”.

    Un corteo di qualche centinaia di lavoratori è partito dallo stabilimento di Mirafiori. L’adesione media, secondo le tute blu, è stata pari al 50 % con punte del 70% tra gli operai. “I lavoratori non sono convinti del piano presentato – secondo il segretario provinciale della Fiom, Giorgio Airaudo -. C'è preoccupazione non solo per Termini ma anche per il futuro di Mirafiori, dove se non arrivano nuovi prodotti c'è il rischio che le 180mila vetture prodotte lo scorso anno diventino 95mila tra due anni”.

    Una data certa per discutere del futuro di Pomigliano d’Arco. Lo hanno chiesto i rappresentanti regionali dei sindacati di categoria, che hanno incontrato la stampa nella sede del Comune. Anche il sindaco della città, Andrea Della Ratta, ha ribadito la necessità di fare chiarezza in tempi brevi sul sito napoletano. Il Municipio è ancora presidiato da 36 lavoratori dello stabilimento, con contratto scaduto il 31 dicembre e non ancora rinnovato.

    Epifani, lo sciopero va benissimo - “Sta andando benissimo”. Così il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, ha commentato la mobilitazione a sciopero ancora in corso. Ora, ha aggiunto, “bisogna accelerare la verifica delle ipotesi in campo per Termini Imerese”, dove si attende una proposta che consenta di continuare la produzione di auto, e anche “risolvere il problema dei precari sul tetto a Pomigliano d’Arco”. Il sindacato chiede inoltre di presentare al più presto il piano complessivo “perché il problema è anche in altre parti del gruppo”.

    “L’incantesimo si è rotto. La buona adesione che ha avuto oggi lo sciopero dei lavoratori del gruppo Fiat e, in particolare, la forte partecipazione che ad esso hanno dato i lavoratori più giovani negli stabilimenti in cui sono presenti in misura significativa, ci dice che i dipendenti del Gruppo hanno compreso che all’immagine positiva che circonda oggi il management Fiat non corrisponde necessariamente una realtà altrettanto positiva per il futuro industriale del Gruppo in Italia”. Questo il commento ai risultati dello sciopero di Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom-Cgil.

    Scajola, c’è spazio per salvare Termini - Nel piano industriale Fiat per l’Italia “per il governo c’è spazio anche per Termini Imerese”. Lo ha detto il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Se l’azienda dovesse invece confermare la chiusura, allora verrà aperto “un tavolo per lavorare a una diversa indicazione industriale che eviti la chiusura di questo polo importante”. In ogni caso, a suo giudizio, “l’obiettivo deve essere quello di un aumento della produzione in Italia”.

    Questi sono i dati pervenuti al centro nazionale della Fiom entro le ore 17:00 di ieri.
    Torino. Adesioni medie del 50% nei vari stabilimenti, con punte del 70% in alcune aree di Mirafiori e del 100% alla lastratura ex Itca di Grugliasco.

    Milano. Vigorosa manifestazione sotto la sede della Regione Lombardia. Ad essa hanno partecipato i lavoratori provenienti da Arese e da altri stabilimenti della provincia.

    Corbetta (Milano). Buona adesione allo sciopero del locale stabilimento della Magneti Marelli. Al presidio realizzato fuori dalla fabbrica dagli scioperanti, hanno partecipato alcune decide di lavoratori tedeschi in lotta contro l’annunciata delocalizzazione della fabbrica in cui essi sono occupati a Reutlingen.

    Modena. Massiccia adesione allo sciopero (oltre l’80%) alla Ferrari, alla Maserati e nei due stabilimenti Cnh nella provincia emiliana.

    Crevalcore (Bologna). Nel locale stabilimento della Magneti Marelli, è stata registrata una delle adesioni più alte della giornata: oltre il 90%.

    Cassino (Frosinone). Nel grande stabilimento auto della cittadina laziale, l’adesione allo sciopero si colloca al 55%. Molto buona la partecipazione dei giovani.

    Atessa (Chieti). Alla Sevel, che con i suoi 5.500 addetti costituisce uno dei più grandi stabilimenti industriali del Mezzogiorno, è stata registrata un’adesione allo sciopero del 70%.

    San Nicola di Melfi (Potenza). Nel più grande stabilimento auto del Mezzogiorno lo sciopero è cominciato nel corso della notte tra il 2 e il 3 febbraio. I primi a scendere in lotta, infatti, sono stati infatti i lavoratori del turno notturno, quello che andava dalle 22:00 di martedì alle 06:00 del mattino di mercoledì.

    Termini Imerese (Palermo). L’adesione allo sciopero ha superato qui l’80%. Alla manifestazione tenuta in mattinata fuori dalla fabbrica, ha partecipato il Segretario generale della Fiom, Gianni Rinaldini.

    Alla Fma di Pratola Serra (Avellino), uno sciopero di 8 ore è stato indetto per la giornata di venerdì 5 febbraio. Infatti, dopo tre mesi di Cassa integrazione straordinaria, i dipendenti della Fma sono tornati oggi in fabbrica, con la prospettiva di essere rimessi in Cassa integrazione dopo una sola settimana di lavoro. Nella giornata di giovedì 4, i sindacati dei metalmeccanici terranno assemblee per illustrare ai lavoratori i motivi dell’iniziativa di lotta.

    Negli altri stabilimenti del gruppo Fiat, tra cui l’Iveco di Brescia, l’Iveco di Suzzara (Mantova) e la Fiat auto di Pomigliano d’Arco, in cui lo sciopero non è stato effettuato oggi a causa delle turnazioni nel ricorso alla Cassa integrazione, lo sciopero sarà effettuato nei prossimi giorni.      
       

2.02.2010

Per la Fiat è solo una questione di soldi

Dopo l’annuncio della cig per 30mila operai Marchionne spiega: “Senza incentivi, conseguenze sulle fabbriche”.

Epifani: “Benzina sul fuoco”.

Camusso: “Incentivi drogano la domanda”.

Da Bonanni ok ai soldi pubblici. Termini Imerese è già chiusa

di D. O.

La Fiat chiude le sue fabbriche per due settimane, mette 30 mila operai in cassa integrazione dopo aver distribuito lauti dividendi ai proprio azionisti, insiste nella chiusura definitiva dello stabilimento siciliano di Termini Imerese (e anzi la anticipa, secondo quanto denuncia la Fiom) e in vista dell’incontro con governo e sindacati del 29 gennaio rimette sul tavolo il buon vecchio aut-aut degli incentivi. Ossia: volete le fabbriche a pieno regime? Non è possibile senza i soldi dello stato. In un’intervista a Repubblica l’amministratore delegato Sergio Marchionne (che il 29 non ci sarà, perchè si trova a Detroit) la spiega senza giri di parole: “Non c’è niente che non sia stato già annunciato con largo anticipo, quando abbiamo ripetuto che senza gli incentivi ci sarebbero state conseguenze sulle fabbriche”. “In assenza degli incentivi – sostiene Marchionne - in Italia si perderanno 300mila auto: il mercato da due milioni scenderà a 1,7 milioni e poiché a soffrirne saranno le vetture piccole, l'impatto sarà più pesante per Fiat”. In quanto a Termini Imerese, incentivi o no per Marchionne il suo destino è già segnato: la Fiat “in futuro non pensa di utilizzare lo stabilimento per nessuno dei suoi business”.

    Marchionne assicura che l’azienda non vuole lo scontro con governo e sindacati. Anche il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo, cerca di placare gli animi sostenendo che “tutti i nodi vanno affrontati in un clima di dialogo e confronto con le parti sociali e con il governo, che ha dimostrato in questi mesi una grande attenzione alla filiera dell'auto. In questo senso dalla Fiat, lo abbiamo già detto più volte, c'è la massima disponibilità”.

    Ma lo scontro già c’è e la decisione di mettere in cassa gli operai è stata letta sia dal governo che dai sindacati come una pressione che le parole di Marchionne sembrano in effetti confermare. Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha parlato di “scelta inopportuna” e “dialogo difficile”. Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, vede “benzina sul fuoco” e spiega: “La scelta dell'azienda di forzare in maniera così netta la chiusura di uno stabilimento, non dare risposte ai precari di Pomigliano, mettere in cassa integrazione 30 mila lavoratori per due settimane proprio quando si deve affrontare con il governo la questione della chiusura dello stabilimento di Termini Imerese, dimostra che l'azienda sta mettendo benzina sul fuoco”.

    Sempre in casa Cgil la segretaria confederale Susanna Camusso legge nell’operato della Fiat “una volontà di pressione per mantenere politiche di incentivi senza vincoli e senza una relazione con quanto avviene negli altri paesi”. Camusso ricorda pure che “politiche di incentivi ‘drogano’ la domanda, ma non determinano un’effettiva ripresa. Il tema vero sulla produzione delle auto deve, invece, riguardare: l’innovazione, le nuove alimentazioni e la sostenibilità; la distribuzione dei volumi produttivi di Fiat e l’aumento della produzione in Italia; garanzie per il futuro degli stabilimenti e dell’occupazione. Questi rimangono per noi i vincoli per un’eventuale politica di incentivi oltre che il centro della discussione sul piano industriale”. “Resta evidente – conclude Camusso - che il futuro industriale nei due stabilimenti del Sud rimane per noi centrale, a partire da una soluzione industriale vera per Termini Imerese in grado di mantenere l’occupazione diretta e indiretta. Fiat non può pensare che una volta annunciato il problema, le sue responsabilità passino in capo ad altri”.

    Assai più propenso agli incentivi il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che durante la trasmissione 'Mattino 5' spiega; “Gli incentivi sono in ballo e noi siamo per darli ma, visto che sono soldi pubblici, a condizione che i cittadini possano riconoscere una loro utilità, vale a dire che non si perdano posti di lavoro”. In quanto a Termini Imerese, “noi sosteniamo che tutti gli altri siti vanno fortificati – dice Bonanni -. Su Termini diciamo che si può pure produrre altro, anche in ausilio a Fiat ma bisogna non chiudere il sito. Se lo Stato dà soldi qualcosa deve anche ottenere”.

    Nel frattempo Termini è chiusa. E’ ancora sospeso l'assemblaggio della Lancia Ypsilon nella fabbrica siciliana, dove lavorano complessivamente 1.350 persone e altre 600 sono occupate nelle aziende dell'indotto. “Noi siamo qui davanti i cancelli pronti a lavorare, lo stop alla produzione non dipende da noi”, dice Roberto Mastrosimone della Fiom Cgil. La decisione di fermare la consegna delle auto è arrivata ieri da Torino. Con un telegramma inviato ai sindacati e a diverse autorità istituzionali, la Fiat ha spiegato le ragioni della scelta: “Da alcuni giorni - scrive la direzione aziendale della fabbrica siciliana - lo stabilimento è teatro di manifestazioni e proteste che in varie forme ne hanno disturbato l'attività lavorativa”. Il riferimento è anche alla protesta, ancora in corso, dei 13 dipendenti della Delivery Email (18 occupati in tutto) che da martedì scorso manifestano su uno dei capannoni dello stabilimento in difesa del loro posto di lavoro, dopo avere ricevuto una lettera di licenziamento a partire dal primo febbraio. “Motivi di sicurezza e blocco delle merci sono solo un pretesto, la verità è che la Fiat sta anticipando la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese: è molto grave”. Questa la replica di Mastrosimone. “I lavoratori di Fiat sia ieri sia stamattina - dice Mastrosimone - si sono presentanti sul posto di lavoro, è la Fiat che ne ha impedito l'ingresso. Per noi sono in cassaintegrazione”.

    “Abbiamo gia' 16 lavoratori sui tetti a Termini (i dipendenti dell’azienda di servizi Delivery Email, ndr), altrettanti a Pomigliano, ora arriva l'annuncio del blocco degli stabilimenti proprio alla vigilia dell'incontro al Ministero dello sviluppo economico. Direi che la situazione non è solo preoccupante, ma che l'atteggiamento di Fiat è assolutamente arrogante e inaccettabile”. Aggiunge Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom, ai microfoni di CnrMedia.

a cura di rassegna.it