3.21.2013

Un ultimo Messaggio

Nel suo ultimo Messaggio papale, Benedetto XVI ha esortato glioperatori di pace a costruire un "nuovo modello di sviluppo"

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista


In relazione alla sorprendente decisione di Papa Benedetto XVI di dimettersi dall’alta carica di capo della Chiesa cattolica, assume una particolare rilevanza il suo messaggio “Beati i Costruttori di Pace” scritto per la celebrazione della 46.ma Giornata Mondiale della Pace tenutasi il primo gennaio 2013.

    E’ un messaggio assai importante sicuramente elaborato nella consapevolezza della gravità dei problemi mondiali e della difficile missione universale della Chiesa cattolica. Probabilmente le gravi questioni che tormentano il mondo e le vicissitudini del governo della Chiesa hanno pesato non poco sulla "rinuncia".

    Nel messaggio ai "costruttori di pace" il Papa affrontava il tema della crisi economica e del ruolo di “un capitalismo finanziario sregolato” evidenziandone la minaccia per il raggiungimento del bene comune.

    Benedetto XVI afferma autorevolmente che “il prevalere di una mentalità egoistica e individualistica e le ideologie del liberismo radicale erodono la funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali”. A farne le spese - continua - sono la dignità dell’uomo e il diritto al lavoro che “viene considerato una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari”.

    Sostiene quindi che “oggi è necessario un nuovo modello di sviluppo” basato su una corretta scala di beni-valori. E’ una esplicita sollecitazione del Papa agli economisti e ai dirigenti politici che intendono essere dei “costruttori di pace” operando anche nel mondo dell’economia.

    “E’ fondamentale e imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri”, così continua il Pontefice.

   Affinché queste sollecitazioni non restino delle mere aspirazioni etiche e morali è doveroso, riteniamo, che la società civile formuli delle proposte e dei progetti di riforma concreti per dimostrare che un’economia più etica, più giusta e più rispondente ai bisogni della gente è fattibile.

    Del resto la Chiesa non può ignorare che il mondo è profondamente cambiato, non è più unipolare ma è multipolare. La Chiesa, e non solo, sa bene che i paesi del Sud del mondo e i loro popoli sono stati e sono le prime vittime della grande speculazione finanziaria e sulle materie prime, a cominciare dai beni alimentari, e molto spesso anche delle nefaste politiche condotte nei decenni passati dal Fondo Monetario Internazionale.

    Dopo la crisi del sistema di Bretton Woods e la progressiva fine della centralità e unicità del dollaro, lo sviluppo e la pace passano attraverso un sistema più giusto, a partire da quello monetario, che non può essere basato ancora esclusivamente sul dollaro.

    Finora le lobby bancarie e i caimani del mondo finanziario hanno bloccato ogni tentativo di riforma e di cambiamento delle regole e di quei comportamenti nefasti e fallimentari che sono stati e sono le vere cause della crisi.

    Purtroppo le banche definite “too big to fail” ed il loro “sistema bancario ombra” continuano nei loro comportamenti sregolati.

    Perciò anche i “costruttori di pace” dovrebbero, secondo noi, sostenere tra l’altro la reintroduzione del sistema “Glass-Steagall”, già voluto dal presidente Roosevelt per fronteggiare la crisi bancaria del ’29, per separare le banche commerciali da quelle di investimento, proibendo quindi l’utilizzo dei soldi dei risparmiatori nei giochi speculativi.

    Non è più tollerabile ed è davvero sconcertante che la Goldman Sachs, la banca che due commissioni di indagine americane indicano essere al centro delle speculazioni più nefaste, continui ancora a distribuire le pagelle di credibilità agli economisti e agli uomini di governo.

    In sintesi, questo ultimo messaggio di Papa Ratzinger ripropone l’esigenza di una economia sociale di mercato, finalizzata allo sviluppo e non allo sfruttamento dell’uomo e dei popoli, come già evidenziato nell’Enciclica Caritas in Veritate.

    E comunque sullo sfondo di queste posizioni, c’è la “profezia” di Papa Giovanni Paolo II che affermò: "Io ho visto la fine del comunismo, voi vedrete la fine del capitalismo di speculazione finanziaria".

 

Donne e straniere, due volte penalizzate

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it


Lo studio - Guadagnano 300 euro in meno rispetto agli uomini e il 31% in meno rispetto alle italiane: questa la condizione delle lavoratrici migranti che emerge in uno studio della Fondazione Leone Moressa. Eppure la loro quota di occupazione è in aumento.


Le donne italiane guadagnano, come è noto, meno degli uomini italiani. Ma le donne straniere, nel nostro Paese, sono messe ancora peggio, dato che prendono circa 300 euro in meno rispetto ai loro connazionali maschi e il 31% in meno delle donne italiane. Se infatti lo stipendio medio di un uomo straniero in Italia (dati 2011) è pari a 1122 euro, le donne percepiscono invece una media di 790 euro. Al contempo, mentre il differenziale retributivo tra stranieri e italiani si aggira intorno al -21% (- 289 euro) per gli uomini, per le donne sale al -31%. I dati, emergono da uno studio sulla condizione occupazionale, retributiva e contributiva delle donne straniere, condotto dai ricercatori della Fondazione Leone Moressa, istituto nato per volontà della Cgia di Mestre.

    Studio che evidenzia appunto una vulnerabilità di questa popolazione e la presenza di disuguaglianze, sia rispetto ai propri connazionali uomini sia rispetto alla popolazione femminile autoctona. Eppure, il lavoro straniero femminile è in aumento (+5,2% tra il 2009 e il 2010, mentre gli uomini sono cresciuti del 3%), e rappresenta ormai il 42,2% del lavoro straniero complessivo in Italia. Mediamente una donna straniera dichiara annualmente 10.247 euro, a fronte dei 14.100 dichiarati dagli uomini stranieri.

    Le nazionalità per cui si registra il più alto numero di contribuenti donne sono l'Ucraina (71,2%), la Polonia (61,8%) e il Brasile (60,3%). Escluse Svizzera, Germania e Francia, i redditi medi annui più alti tra le donne straniere vengono percepiti dalle egiziane (15mila), dalle argentine (12.600), dalle donne provenienti dai paesi dell'ex-Jugoslavia (11.750) e dalle tunisine (11.590).

    Tra il 2009 e il 2010 l'incremento maggiore di contribuenti donne ha interessato le moldave (+21,4%) e a seguire le ucraine (+14,6%), le rumene (+12,9%) e le cinesi (+12,7%). Una tendenza negativa in questo senso è invece sperimentata dalle donne provenienti dall'ex Jugoslavia.

    La percentuale di contribuenti donne sul totale dei contribuenti stranieri non varia considerevolmente da una regione all'altra. La regione in cui tale percentuale è più alta è la Val d'Aosta (49,5%), mentre quella in cui è più bassa è la Lombardia (38,5%). Maggiori differenze regionali si rilevano, invece, se consideriamo il reddito medio: per le donne è più alto in Lombardia (quasi 12 mila) e in Friuli Venezia Giulia (11 mila), mentre è più basso in Calabria (6 mila), Puglia (7.600) e Basilicata (7.800).

    “La condizione delle donne straniere – osservano i ricercatori della Fondazione Moressa - riflette da una parte le criticità della società di arrivo rispetto alle problematiche di genere e dall'altra le difficoltà tipiche del percorso migratorio. D'altra parte, è opportuno notare - affermano ancora i ricercatori - come l'inserimento forzato in alcune nicchie professionali delle donne straniere, quali i lavori di assistenza e di cura, sebbene portino queste lavoratrici a recepire compensi inferiori rispetto ai loro connazionali, dovuti in primis a monte ore ridotti e alle peculiarità di questo tipo di attività, tuttavia le ha preservate dalla contrazione che la crisi economica e finanziaria in corso ha invece causato in altri settori tipicamente più attrattivi per la popolazione maschile, come il comparto delle costruzioni”.


 

 

 

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it


Sanità fatta in casa


Più badanti che dipendenti Asl. Il rapporto della Federazione Asl e ospedali: nel 2012 in Italia ci sono 774mila badanti contro 646mila dipendenti Asl. Si punta sempre più sul "welfare fai da te" per assistere anziani e malati. Cresce la sfiducia nella sanità pubblica, colpita dai tagli


(Adnkronos Salute) - In Italia più badanti che dipendenti Asl. Le donne e gli uomini che assistono i nostri anziani e i nostri malati, infatti, sono 774 mila, contro 646 mila persone che lavorano nelle aziende sanitarie locali. Insomma, si conta sempre di più sul welfare 'fai da te', e i nostri connazionali giudicano sempre più inadeguati i servizi offerti dal Servizio sanitario nazionale (Ssn). A scattare la fotografia gli esperti dell'università Bocconi, con il 'Rapporto Oasi 2012', presentato oggi a Roma dalla Federazione di Asl e ospedali (Fiaso).

    La tanto sbandierata politica di "razionalizzazione della spesa" - spiegano gli esperti - più che ridurre gli sprechi avrebbe finito per tartassare ancor più i contribuenti. Che indossati i panni di assistiti hanno scoperto di dover pagare anche sempre più servizi sanitari, tant'è che la spesa privata ha oramai superato il tetto dei 30 miliardi, anche se con la crisi è calata di un modesto 1%.

    Certo, se andiamo a vedere la classifica degli anni di vita attesa in buona salute l'Italia, almeno fino al 2010, si classifica al secondo posto con oltre 67 anni sia per gli uomini che per le donne, dietro solo alla Svezia, dove le donne vivono in forma fino a 67 anni e mezzo, gli uomini fino quasi a 72. Ma che qualcosa da noi cominci a non andare per il verso giusto sono per primi proprio gli assistiti a segnalarlo.

    I dati elaborati dal Rapporto Oasi rivelano che nel Centro-Sud oramai la maggioranza dei cittadini giudica inadeguati i servizi offerti dal nostro Ssn: 53,5% al Centro e 62,2% al Sud contro una media Italia del 43,9%. E il trend è del tutto negativo, come mostra quel 31,7% di assistiti che giudica peggiorati i servizi sanitari della propria regione.

    Un'altra discriminante nel livello di qualità percepito dagli assistiti è poi la più massiccia politica di tagli che giocoforza hanno dovuto mettere in atto le 8 Regioni in piano di rientro dai deficit: il 57,8% di chi vive in Campania, Lazio, Abruzzo, Molise, Piemonte, Calabria, Puglia e Sicilia si è dichiarato "insoddisfatto" contro un più modesto 23,3% di "scontenti" delle altre Regioni. Una riprova dell'impatto tutt'altro che indolore delle politiche di austerity in sanità.

 

(Adnkronos Salute / Rassegna it / ADL)

 

LA CRISI DI VIA SOLFERINO

Corriere in sciopero

Oggi e domani giovedì il quotidiano di Via Solferino non sarà in edicola. Di seguito due testi del Comitato di redazione (Cdr)

Mercoledì e giovedì il Corriere della Sera non sarà in edicola, il sito online non sarà aggiornato, e non usciranno tutti gli inserti settimanali. I giornalisti del Corriere con questi scioperi respingono nettamente il piano di ristrutturazione presentato ieri dalla direzione aziendale che prevede una riduzione dell’organico di 110 giornalisti su un totale di 355, il taglio di parti rilevanti delle retribuzioni effettive, la possibile vendita di sedi e riduzioni di pagine. Meno giornalisti, meno risorse significano semplicemente un Corriere meno autorevole e meno autonomo.

    Il piano dell’azienda di fatto sfigura il primo quotidiano italiano (stando agli ultimi dati di diffusione) e appare addirittura suicida, visto che il Corriere tuttora presenta i conti in attivo e solo qualche giorno fa ha assunto due giornalisti. Il Comitato di redazione ha sempre accettato di discutere con l’azienda su come razionalizzare i costi e, soprattutto, su come aumentare i ricavi. Quello presentato ieri non è un piano di ristrutturazione, ma semplicemente un grossolano e inaccettabile intervento che mira alla distruzione del Corriere della Sera.

    Il Cdr continuerà a denunciare come alcune politiche aziendali (ad esempio l’acquisto del gruppo editoriale spagnolo Recoletos, che ha causato centinaia di milioni di debiti) abbiano portato all’attuale situazione della Rcs MediaGroup. Senza quelle scelte il gruppo avrebbe le risorse necessarie per affrontare la crisi. Il difficile momento che attraversa il settore dell’editoria richiede azionisti e manager all’altezza di un giornale come il Corriere della Sera.



La crisi Rizzoli e gli stipendi dei manager


Contemporaneamente alla presentazione del nuovo piano di ristrutturazione della Rizzoli Corriere della Sera (Rcs), che prevede il taglio di 800 dipendenti e un netto ridimensionamento del perimetro industriale, l'amministratore delegato Pietro Scott Jovane ha annunciato l'autoriduzione del 10 per cento della sua retribuzione.

    Il Cdr del Corriere vorrebbe tuttavia che questo gesto fosse accompagnato dall'applicazione di un criterio per la corresponsione dei vari bonus e della parte variabile dello stipendio, nonché dell'eventuale buonuscita di tutti i manager del gruppo, adeguato alla gravità del momento: stabilire quelle somme in rapporto non al numero dei posti di lavoro tagliati, ma di quelli salvati.

    Da troppi anni ormai la Rcs, dove i piani di ristrutturazione si susseguono ai piani di ristrutturazione senza che assurdi sprechi vengano sfiorati, dimostra nei confronti dei propri manager una grande generosità, indipendente dai risultati.

    Nel 2007 su un importante quotidiano si leggeva: «Via Solferino ha speso negli ultimi quattro anni quasi 30 milioni fra buonuscite e buonentrate per oliare il frenetico turnover dei suoi manager». Proprio così: buonentrate. Perché, sempre secondo lo stesso articolo, il predecessore di Scott Jovane, Antonello Perricone, arrivato al timone della Rcs dopo che era saltata la sua nomina a direttore generale della Rai, avrebbe intascato un «bonus d'ingresso» di un milione. Un bonus d'ingresso: avrebbe cioè percepito un superincentivo soltanto per mettere piede in azienda. Più 3,4 milioni di euro quando ne è uscito, e la Rcs non nuotava certamente nell'oro, reduce com'era dallo stato di crisi.

    Quella di Perricone è una misera liquidazione se la confrontiamo con la somma incassata al momento dell'uscita da Vittorio Colao: 7,8 milioni, metà dei quali, a onor del vero, versati da lui in beneficenza. Oppure con quella dell'ex direttore generale Gaetano Mele: 9,6 milioni. Cifre che impallidiscono di fronte alla buonuscita di Maurizio Romiti: 17 milioni di euro, dopo un paio d'anni al timone della Rcs. Ottocentocinquantamila euro al mese. Per inciso, con quei 17 milioni si sarebbero pagati per un anno 400 dipendenti della Rcs Quotidiani, molti dei quali venivano invece mandati in prepensionamento.

    Quando quella liquidazione monstre venne pagata, lo stesso presidente della Rcs, Guido Roberto Vitale (anch'egli allora in uscita), ammise: «Certi tipi di remunerazione sono giustificabili solo in presenza di risultati estremamente positivi». Facendo capire che non era quello il caso.

    Non è ammissibile che continui questa giostra milionaria che arricchisce manager e dirigenti, indipendentemente dalla qualità professionale.

    In un momento come questo dovrebbe essere il primo solenne impegno dell'azienda.

Il Cdr del Corriere della Sera

 

3.10.2013

Una banca per lo sviluppo e bond per la crescita

Per il nuovo governo le priorità sono chiare e non eludibili: crescita economica e occupazione. Del resto questo è stato un mantra da tutti ripetuto nella campagna elettorale.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

La sfida vera però è nei modi e nei tempi delle scelte. Le ricette non mancano. Comunque, se necessario, si può trarre ispirazione da qualche recente iniziativa internazionale.

Dopo un lungo periodo di paralisi politica, l'inizio del secondo mandato del presidente Barack Obama sembra dare qualche esempio di "good practice". La Casa Bianca ha appena reso pubblico un programma in tre punti per investimenti nelle infrastrutture.

Il primo prevede un piano finanziario di 50 miliardi di dollari per riparare, rinnovare o ammodernare le infrastrutture nei settori dei trasporti. Sull'intero territorio statunitense ci sarebbero infatti circa 70.000 ponti che richiedono urgenti interventi di riparazione.

Il secondo punto prevede la creazione in tempi brevi di una Banca Nazionale per le Infrastrutture al fine di raccogliere e mobilitare capitali pubblici e privati e sulla base dei quali emettere obbligazioni per la ricostruzione dell'economia reale.

Il terzo aspetto mira ad una immediata semplificazione delle procedure burocratiche per far sì che i progetti possano realmente partire in tempi brevissimi e così avviare il motore della ripresa e dell'occupazione.

Sono politiche che anche noi, modestamente, abbiamo più volte proposto e sostenuto.

D'altra parte è arcinoto, e anche empiricamente provato, che la semplice e più facile politica di rigore e di austerità provoca un avvitamento del sistema economico ed industriale abbattendo produzioni, posti di lavoro, livelli di vita, consumi e disponibilità di bilancio. Alla fine ci si ritrova con un debito pubblico accresciuto ed in un processo recessivo che porta alla depressione economica.

Cambiare marcia è una necessità. Se per le banche si sono mobilitate risorse pubbliche perché ritenute troppo grandi per essere lasciate fallire, oggi occorre capire che l'economia reale è troppo importante per le popolazioni per essere lasciata fallire.

Per noi l'economia reale deve venire prima della finanza. Almeno le sia dato lo stesso trattamento riservato alle banche piene di titoli tossici, perché l'economia reale è la struttura vitale di ogni paese e di ogni società.

Negli ultimi anni la mancanza, per esempio, di un adeguato sistema di protezione ambientale e di tutela e di controllo dei nostri territori ha più volte causato, a seguito di piogge e inondazioni, danni enormi alle infrastrutture, nelle campagne e nelle città. Tali danni rappresentano anche un abbattimento del cosiddetto Pil. Però esso non viene correttamente calcolato in quanto per il Pil si calcola soltanto ciò che si produce e non si considerano i valori materiali e umani eventualmente distrutti.

L'esempio americano in linea di massima potrebbe essere seguito anche da noi. Gli interventi più urgenti, necessari per riparare le infrastrutture e mettere in sicurezza il territorio, sono conosciuti e tanti.

Se per salvare il Monte dei Paschi di Siena si sono messi in campo in tempi straordinariamente veloci ben 4 miliardi di euro, perché la stessa tempestività non potrebbe esserci in altri settori decisivi per l'economia e l'occupazione?

Da decenni purtroppo abbiamo perso l'idea giusta di sviluppo, che non è semplicemente incremento di produzione di beni ma è anche e soprattutto innovazione, modernizzazione, ricerca ed infrastrutture efficienti. Tutti settori che richiedono mano d'opera qualificata. Abbiamo liquidato tutte le istituzioni atte a promuovere lo sviluppo, come lo erano stati, con tutte le loro manchevolezze, la Cassa per il Mezzogiorno e l'IRI.

Se non si vuole creare una specifica "Banca di sviluppo", si potrebbe affidare questa mission alla Cassa Depositi e Prestiti. Sarebbe necessario prendere alcune significative proprietà dello Stato già individuate, ed eventualmente una parte delle riserve auree nazionali, non per venderle, ma per metterle a capitale di base al fine di emettere "obbligazioni per lo sviluppo".

Se tale decisione fosse adottata con la dovuta celerità e trasparenza, secondo noi, non sarebbe difficile motivare e coinvolgere il capitale privato, delle assicurazioni o dei fondi pensione, e anche il risparmio dei semplici cittadini.

Naturalmente anche lo snellimento burocratico e la rivisitazione delle procedure amministrative e fallimentari sono indispensabili per rendere effettiva l'accelerazione degli investimenti da parte degli operatori privati e degli enti pubblici.

Qualora tale politica fosse praticata sia a livello nazionale che europeo si potrebbero attuare anche i tanto discussi eurobond da finalizzare al finanziamento di opere e progetti relativi alla ripresa e allo sviluppo.

Purtroppo la decisione dell'ultimo Consiglio europeo va in altra direzione. Per la prima volta nella storia dell'Europa si riduce il bilancio comunitario di 34 miliardi di euro nel periodo 2014-2020, dando un messaggio politico estremamente negativo ai cittadini europei che vivono in gran parte in condizioni di difficoltà e di incertezza per il loro futuro e per quello della stessa Unione europea.