11.22.2016

Test chiave per Trump

ECONOMIA E FINANZA

L’amministrazione Trump intende davvero copiare le ricette economiche del senatore socialista del Vermont, Bernie Sanders?

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Alla fine, anche se dopo il gran botto, tutti, dagli analisti più blasonati fino al più sprovveduto sondaggista, hanno dovuto riconoscere che Donald Trump ha vinto perché ha affrontato di petto i problemi economici e occupazionali che affliggono la stragrande maggioranza degli americani. Di coloro che lavorano per vivere, di quei cittadini che negli Stati Uniti chiamano la “middle class”. Anche in Italia nessun media aveva capito che questa America non era preoccupata primariamente per l’immigrazione, la politica estera, le guerre o il terrorismo bensì per il proprio livello di vita.

    In tutti i suoi discorsi Trump ha ripetuto che “oggi, 92 milioni di americani sono ai margini, fuori dalla forza lavoro, non sono parte della nostra economia. E’ la nazione silenziosa degli americani disoccupati”. Se molti votanti vi hanno creduto, allora vuol dire che le statistiche ufficiali, che osannavano la grande ripresa con milioni di nuovi posti di lavoro, non riflettevano la verità, la situazione reale.

    E’ quindi proprio sul fronte dell’economia che la polemica di Trump contro l’establishment ha fatto presa e ha coagulato il voto di protesta. Adesso si dovrà vedere quanto delle tante promesse fatte in campagna elettorale egli sarà capace di mantenere.

    Nel suo discorso della vittoria ha ribadito l’intenzione di voler “investire almeno mille miliardi di dollari nelle infrastrutture”. Prevede investimenti addirittura per 50 mila miliardi di dollari nei settori dell’energia. I tassi d'interesse non saranno in futuro così bassi come quelli odierni, ha detto, per cui oggi è il momento migliore anche per fare nuovi debiti per costruire nuovi aeroporti, ponti, autostrade, treni veloci, ecc. E ha aggiunto che intende usare la leva del credito, che lui ama molto, per moltiplicare le disponibilità finanziarie necessarie.

    Al riguardo è però opportuno ricordare che ad agosto alcuni banchieri d’assalto avevano già avanzato la proposta di creare proprio una banca per le infrastrutture per mille miliardi di dollari. Come sempre occorrerà vedere chi sarà alla testa di una simile operazione e sulla base di quali principi economici verrebbe realizzata.

    Questa politica di investimenti dovrebbe essere parte di una serie di iniziative miranti a creare 25 milioni di nuovi posti di lavoro in 10 anni, mantenendo un tasso di crescita annuo del 3,5%. Per sostenere un tale progetto, Trump ha aggiunto di volere ridurre al 15%  la pressione fiscale delle imprese, che attualmente negli Usa è del 35%.

    Per passare dai numeri ai fatti la strada si farà difficile e complicata, soprattutto se il neo-presidente dovesse pensare che si possano ottenere simili risultati lasciando che i mercati operino da soli, senza alcuna guida o correzione. In questo, il nuovo inquilino della Casa Bianca crede, forse per troppa convinzione ideologica liberista, che una diminuzione delle tasse porti automaticamente a più posti di lavoro. Nei passati anni molti desiderati automatismi economici e monetari si sono rivelati delle pure illusioni sia negli Usa che in Europa.

    Trump riconosce che il deficit commerciale annuale americano di 800 miliardi di dollari nei confronti del resto del mondo non è più sostenibile. Vuole rinegoziare gli accordi commerciali con il Messico e il Canada e cancellare quello con i Paesi del Pacifico. Per il neo-presidente la Cina è il principale ‘nemico’ economico che manipola, con le svalutazioni, la propria moneta, per cui essa dovrà essere fatta oggetto di sanzioni e dazi. Per Trump si tratta di politiche che penalizzano l’occupazione negli Usa. Al di là di certi slogan protezionistici, sarà certamente una prova molto complessa quella di bilanciare la ripresa occupazionale interna con la stabilità delle relazioni commerciali internazionali.

    E’ importante che in campagna elettorale, copiando un intervento del democratico Bernie Sanders, Trump abbia posto al centro del dibattito l’idea di reintrodurre la Glass-Steagall Act per la separazione bancaria. Si tratta della legge voluta nel 1933 da Roosevelt per mettere un freno alla speculazione finanziaria fatta dalle banche con i soldi dei risparmiatori. Purtroppo fu proprio Bill Clinton nel 1998 a cancellarla, aprendo così la strada allo tsunami speculativo fatto di derivati finanziari e di altri titoli tossici che hanno portato alla grande crisi bancaria del 2008 e alla susseguente depressione economica mondiale.

    Al riguardo Trump, sempre imitando Sanders, ha denunciato la cosiddetta riforma Dodd-Frank del sistema finanziario americano come “un disastro che penalizza i piccoli imprenditori e i loro tentativi di accedere al credito”. Secondo lui un principio di giustizia più equa vuole che anche Wall Street sia sottoposta a regole stringenti.

    Nel campo economico e finanziario di carne al fuoco ne ha messa tantissima. Occorrerà aspettare per vedere. Ma nemmeno troppo a lungo. Si potranno già capire le reali politiche dell’amministrazione Trump quando nominerà i ministri chiave. Se, per esempio, al Tesoro dovesse andare un banchiere, sia esso della Goldman Sachs o della JP Morgan di cui tanto si parla, allora sarà chiaro che alle tante parole e alle tante promesse, difficilmente seguiranno fatti nuovi.

    Comunque è troppo presto per avere certezze. Le incognite non sono poche. Abbiamo il dovere di verificare prima di dare giudizi definitivi. Per il momento vi sono le parole. A noi corre l’obbligo di ricordare che tra il dire e il fare molto spesso c’è di mezzo il mare.

ECONOMIA CIRCOLARE

Il nuovo termine “economia circolare” che si affaccia nelle agende politiche è preciso, ma non dà conto del cambiamento di civiltà che esso implica. Perché, nell’era del consumismo terminale, l’antico precetto della cura e della conserva­zione della natura e dei manufatti diventerebbe sovversione del “disordine costituito”.

di Marco Morosini

In questa era di consumismo terminale ormai si ricorre ai robot non solo per produrre un paio di blue-jeans, ma anche per consumarli, già prima di venderli.

    Ecco, una “economia circolare” è il contrario di tutto questo. Essa mira infatti a prolungare la vita dei manufatti e dei materiali, a farli “circolare” più a lungo nell’economia, e a ridurne così la produzione e l’impatto ambientale.

    Secondo l’architetto Walter Stahel, uno dei padri dell’economia circolare, si tratta di sostituire l’attuale “paradigma del fiume” con un “paradigma del lago”: il sistema economico continua a essere concepito come un fiume, del quale dovremmo continuare a raddoppiare la portata (pro capite) ogni dieci o vent’anni, a prescindere dalle quantità di nutrienti o di veleni che esso contiene. Il PIL fu concepito proprio per misurare la portata del “fiume dell’economia”.  I fautori di un’economia circolare invece concepiscono il sistema economico come un lago. Per loro il compito della politica e dei cittadini è di preservare e migliorare la qualità e l’accessibilità per tutti di questo lago, ma senza aumentare la portata del fiume affluente ed effluente più dello strettamente necessario. Per misurare il successo sociale secondo questo nuovo paradigma l’OCSE ha concepito il Better Life Index (BLI) e l’ISTAT, in Italia, l’indice di Benessere Equo e Sostenibile (BES).

    In un’economia circolare il prelievo di materiali dalla natura è ridot­to al minimo indispensabile. Ciò avviene grazie all’aumento della du­ra­ta, del riuso, dell’ammodernamento, della riparabilità, e del riciclo dei manufatti e dei materiali. Essi 'circolano' così nell’economia molto più a lungo, invece di attraversarla come merci effimere per uscirne presto come spazzatura e inquinamento. Secondo molti studiosi le tec­nologie attuali potrebbero già darci sufficiente benessere pur usando un decimo delle materie prime e un terzo dell’energia rispetto ad oggi. Ri­duzioni così rilevanti dei consumi materiali sono perseguite per esem­pio dalla strategia energetica elvetica per una “società da 2000 watt” (2000 watt pro capite, invece degli attuali 6000) dall’Institut de la du­rée di Ginevra, dal  Factor 10 club, dal think-tank francese  Negawatt.

    Allora, perché questa 'economia del buon senso' non prende piede? Le vie dell’oro ci aiutano a capirlo. Una parte dell’oro mondiale lavo­rato circola da millenni, fuso e rifuso in innumerevoli manufatti: poco materiale genera nel tempo molto valore d’uso. Un’altra parte dell’oro mondiale invece è estratta da sottoterra con molti danni ambientali e con molta energia, per poi tornare subito sottoterra nei caveau delle banche: molti materiali ed energia non producono alcun valore d’uso. Un’altra parte dell’oro estratto torna presto sottoterra nelle discariche in cui si buttano i telefonini, o i loro resti, e altri dispositivi che ne con­tengono piccole quantità: molti materiali ed energia generano un breve e modesto valore d’uso. La prima via dell’oro è il prototipo dell’economia circolare, la seconda lo è dell’economia lineare.

    Le nostre tecnologie già ci permetterebbero di por fine all’abuso e alla dissipazione dell’oro e di ridurne di molto i relativi danni ambien­tali. Sono però le nostre idee e ideologie che ci impediscono di farlo: da una parte ci ostiniamo in convenzioni finanziarie che danno all’oro un valore di scambio svincolato dal suo valore d’uso; dall’altra parte, oggi in certi casi  “conviene” più buttar via l’oro che non conservarlo a causa di un sistema fiscale che punisce i “beni” e che premia i “mali”: la manodopera (di cui abbondiamo e in parte non sappiamo cosa fare) è resa più costosa da alti prelievi fiscali e previdenziali, che inducono a sostituirla con sempre più macchine, più materiali, più energia. Invece i materiali e l’energia (relativamente scarsi, quindi da risparmiare) sono poco tassati, o addirittura sono sovvenzionati, il che ne stimola l’uso e lo spreco. Per esempio, le sovvenzioni mondiali di denaro pubblico per favorire l’uso dei combustibili fossili, sono stimate a più di 500 milia­rdi di dollari l’anno. Secondo molti studiosi urge quindi una riforma fiscale ecologica che inverta il peso delle tassazioni: meno tasse sul lavoro, più tasse su energia e materiali. «Disoccupati diventerebbero così i chilowatt e le tonnellate, non le persone», dice Ernst Ulrich von Weiszaecker, fondatore del Wuppertal Institut.

    Nel 1976 Walter Stahel e Genevieve Reday pubblicarono un rapporto per la Commissione Europea il cui titolo può sembrare un errore di stampa: Il potenziale per sostituire l’energia con la manodopera. Ma come? Da millenni 'progresso' non vuol dire far lavorare le macchine invece degli uomini?

    E’ vero. Ma due secoli di fulminante successo della civiltà delle macchine hanno creato un problema di scala: la popolazione umana e le sue attività materiali hanno raggiunto tali dimensioni da trasformare in boomerang quello che per miliardi d’individui fu reale progresso. Oggi troppo uso e troppo spreco di troppi materiali e di troppa energia compromettono equilibri planetari millenari, e connotano ormai una nuova era che gli scienziati della Terra chiamano “Antropocene”.

    «Sostituire l’energia con la manodopera» (Walter Stahel) non vuol dire «rinunciare alla lavatrice», né al progresso tecnico. Vuol dire invece dare una direzione al progresso, usando il genio e la manodopera per prolungare la vita delle cose, non per abbreviarla.

    “Institut de la durée” e “Product-life Institute” si chiama, con pertinenza, l’organismo creato nel 1982 a Ginevra da Walter Stahel e da Orio Giarini, professori universitari e consulenti di aziende, governi e istituzioni internazionali su come ridisegnare per una maggior durata i manufatti, le infrastrutture, i servizi e i cicli di materiali. 

    Forse però il contributo di Giarini e Stahel nell’economia politica è ancora più importante di quello nell’eco-progettazione. In libri come Dialogue on wealth and welfare e The performance economy, essi ridefiniscono infatti il concetto di valore economico: il valore è nella prestazione realmente resa dalle cose, non nella loro produzione e nel loro commercio.

    Questa idea semplice, fu formulata chiaramente da Aristotele, nella sua distinzione tra oiconomia (cura della casa) e crematistica (cura del denaro), ma fu abbandonata da tanti economisti moderni quando l’economia politica sembrò ridursi a econometria: siccome è difficile o impossibile misurare direttamente l’utilità d’uso delle cose, misuriamo, al suo posto, la frequenza e la quantità della loro produzione, della loro compravendita, della loro distruzione.

Socrates Plato Aristotle (da una T-Shirt studentesca USA)

    Ne è così scaturita un’economia (e una politica, al suo servizio) che mira al continuo raddoppio della produzione e della distruzione delle cose, invece che al loro uso e alla loro cura. Abbandonare questa concezione dell’economia sarebbe una vera contro-rivoluzione: nell’era del consumismo terminale, l’antico precetto della cura e della conservazione della natura e dei manufatti diventerebbe sovversione del disordine costituito.

11.08.2016

Algoritmi: parola magica per meglio speculare

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Recentemente i mercati internazionali, sia delle valute che dei titoli, hanno registrato dei capovolgimenti così grandi da suscitare grandi preoccupazioni sulla tenuta dell’intero sistema bancario e finanziario mondiale. Eppure i governi e le autorità preposte, nonostante le loro indubbie preoccupazioni, hanno cercato di far passare tali eventi come ‘fisiologici per il mercato’.

    Invece, così non è.

    Venerdì 7 ottobre, nel giro di meno di 3 minuti, la lira sterlina è crollata del 6% per poi recuperare il 5 % in meno di un ora. Dopo aver raggiunto il minimo assoluto degli ultimi 31 anni, a fine giornata la sterlina registrava una perdita dell’1,6%.

    Il crollo è avvenuto alle 7 di mattina sul mercato di Singapore, mentre a Londra ancora si dormiva profondamente e la borsa di Wall Street aveva già chiuso le sue operazioni.

    E’ stata una pura speculazione, di inaudita pericolosità per l’intero sistema, per niente giustificabile con i possibili effetti della Brexit sull’economia inglese. L’unica spiegazione possibile, ci sembra, è legata al cosiddetto ‘electronic trading’, che avviene quando i computer sono programmati con un algoritmo specifico a fare in automatico operazioni di compravendita ad una velocità straordinaria, oltre ogni immaginabile umana capacità.

    Algoritmi e computer basati su istruzioni relative all’andamento di certi scenari, come quello della Brexit.

    Si arriva finanche ad impostare tali algoritmi in rapporto al numero e al tipo di informazioni riportate dai media, a volte addirittura dai social media! L’algoritmo succitato avrebbe ‘letto’ i reportage negativi sulla Brexit come un segnale di vendita della sterlina. Poi, quando la moneta inglese ha cominciato a scendere, altri algoritmi si sono ‘attivati’ nelle stessa direzione. 

    Purtroppo i mercati internazionali dei cambi sono ancora grandemente non regolati. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali gli scambi della coppia dollaro-sterlina rappresentano il 9,2% di tutte le contrattazioni nei mercati dei cambi, che mediamente sono di 5,1 trilioni di dollari al giorno.

    Negli ultimi tre anni l’‘algorithm trading’ sarebbe aumentato enormemente.  

    Si rammenti che qualche giorno prima, il 30 settembre, le azioni della Deutsche Bank  avevano perso il 9% in mattinata e avevano guadagnato il 5,7% a fine giornata. Una cosa inaudita, fuori dal normale andamento.

    Le nostre critiche alla DB sono note. Qui però si è di fronte ad un colossale attacco speculativo, non facilmente spiegabile. L’anomalo andamento non  può essere attribuibile semplicemente alla stratosferica multa comminata dalle autorità americane alla banca tedesca per le sue passate speculazioni con i derivati sui mutui subprime americani. Né la successiva risalita delle sue quotazioni può essere giustificabile con le notizie relative ad una eventuale riduzione della multa in questione. 

    Chi ha comprato le azioni per salvare la banca dal tracollo? E’ una domanda che sorge spontanea.

    Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, nel suo recente discorso ai parlamentari tedeschi del Bundestag, ha detto che la sua politica del tasso di interesse zero, nel 2015 ha fatto risparmiare alla Germania ben 28 miliardi di euro. Sulla base di questo dato si può ipotizzare che negli ultimi anni Berlino abbia pagato meno interessi sul suo debito pubblico per almeno 100 miliardi.

    La Germania non sembra aver usato tanta ricchezza per sostenere consumi e investimenti in casa propria o nelle regioni europee più deboli e bisognose di un sostegno concreto per il loro rilancio economico.

    Molto probabilmente il ‘tesoretto’ tedesco è stato accantonato proprio per il salvataggio delle banche che non sono in buona salute!

    I due recenti avvenimenti finanziari menzionati assumono una gravità eccezionale per le dimensioni e i velocissimi tempi delle operazioni. Essi ci dicono che l’intero sistema economico è esposto più di prima a terremoti di altissima magnitudo. 

    Non sono vicende da lasciare ai mercati o solo alle banche centrali e alle autorità di controllo. Sono questioni squisitamente politiche che, secondo noi, richiedono interventi e decisioni da parte dei governi. Senza indugi, prima che una nuova crisi sistemica bussi alla porta.

11.03.2016

Goa: Un’alleanza più stretta

Se vi sentite stufi per i troppi servizi giornalistici e televisivi sul summit dei Paesi BRICS, tenutosi in India il 16 ottobre scorso, saltate pure le righe che seguono. Altrimenti potrebbe interessarvi apprendere che…

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

Il summit dei Paesi BRICS a Goa, India, tenutosi il 16 ottobre scorso segna un ulteriore passo avanti verso la creazione di una più stretta alleanza istituzionale tra i suoi membri. È indubbiamente una dimostrazione concreta che gli indebolimenti interni ai singoli Paesi e i tentativi esterni di destabilizzazione non hanno avuto gli effetti paralizzanti che certi interessi geopolitici si auguravano.

    La "Dichiarazione finale" del summit afferma che i BRICS rappresentano "una voce influente sullo scenario internazionale capace anche di generare effetti positivi tangibili per i propri popoli". Essi "contribuiscono grandemente all'economia mondiale e al rafforzamento dell'architettura finanziaria internazionale" anche attraverso i nuovi organismi come la Nuova Banca per lo Sviluppo (NDB) e l'Accordo per la Riserva di Contingenza (CRA). Ciò dovrebbe agevolare la "transizione verso un ordine internazionale multipolare".

    Tale prospettiva si affianca alla denuncia dei "conflitti geopolitici che hanno contribuito al clima d'incertezza dell'economia globale", in quanto lo sviluppo e la sicurezza sono strettamente collegati, direttamente proporzionali e determinanti per sostenere una pace duratura.

    Al riguardo si ribadisce il sostegno al ruolo centrale dell'ONU come unica organizzazione multilaterale universale capace di lavorare per la pace, la sicurezza, lo sviluppo, la solidarietà e la tutela dei diritti umani. Tale sostegno è una scelta importante, per certi versi stridente con il silenzio dell'ONU stessa rispetto a situazioni di crisi, come quelle in atto in Siria e in Nord Africa.

    Nel documento si afferma con forza che "le politiche monetarie da sole non possono condurre ad una crescita bilanciata e sostenibile". Si sottolinea perciò "l'importanza dell'industrializzazione e di efficaci misure finalizzate allo sviluppo industriale, che sono le fondamenta di una trasformazione strutturale". In questo contesto l'innovazione tecnologica, si evidenzia, è centrale.

    Il giorno prima del summit, durante la riunione del "BRICS Business Council", formato da venticinque importanti industriali, i capi di governo dei BRICS hanno parlato con un linguaggio ancora più chiaro. Il presidente cinese Xi Jinping ha detto che l'economia mondiale langue nel mezzo di una "ripresa incerta e volatile". È perciò necessario, ha aggiunto, che, dopo i successi dei passati dieci anni, i BRICS rafforzino la loro partnership.

    A sua volta il primo ministro indiano Narendra Modi ha aggiunto che tale crescente e positivo rapporto tra i Paesi BRICS deve rafforzarsi con la creazione di nuove istituzioni e organizzazioni comuni, tra cui una propria Agenzia di rating, un Centro di ricerche agricole e quello per le infrastrutture e i trasporti ferroviari.

    Il presidente russo Vladimir Putin, da parte sua, ha indicato una strategia comune per una nuova linea di cooperazione e di investimenti che colleghi le attività del "Business Council" con quelle della Nuova Banca di Sviluppo. L'intento è quello di rendere più operativi gli imprenditori privati. Molti dei quali, con l'occasione, hanno partecipato alla grande Fiera Commerciale di New Delhi dove sono stati presentati i nuovi prodotti tecnologici e industriali realizzati nei rispettivi Paesi

    Noi pensiamo che nel prossimo futuro il mondo occidentale potrebbe essere sorpreso dai molti nuovi progetti realizzati congiuntamente dai BRICS in vari campi tecnologici.

    I capi di governo dei BRICS hanno ribadito gli accordi e gli impegni presi al summit del G20 di Hangzhou in Cina all'inizio di settembre. In particolare hanno rinnovato l'impegno a lavorare con più decisione nel G20 per progetti di importanza globale, come l'Iniziativa per lo sviluppo dell'Africa e la definizione dei una più giusta ed equa governance del Fondo Monetario Internazionale.

    Ci sembra che, anche in relazione al ruolo, sempre più incisivo, dei BRICS, l'Unione europea dovrebbe avviare con maggiore convinzione rapporti più stringenti con detti Paesi. Sarebbe il modo più concreto ed efficace di contribuire ad accelerare la ripresa economica globale, la crescita delle regioni in ritardo di sviluppo e, ovviamente, la realizzazione dell'indispensabile stabilità politica internazionale quale presupposto per una pace mondiale duratura.