12.23.2015

Cina e DSP - La moneta cinese entra nei diritti speciali di prelievo del Fmi

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Il renminbi cinese (rmb) entra a far parte dei diritti speciali di prelievo (dsp), la moneta internazionale di riferimento del Fondo Monetario Internazionale composta da un paniere di valute. Sino ad oggi vi partecipano soltanto il dollaro, l’euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica.

    I dsp sono la moneta virtuale di riserva internazionale creata dal Fmi nel 1969, nel contesto del sistema di cambi fissi di Bretton Woods,  per affiancare le riserve monetarie (allora solo dollaro e oro) e per supportare l’espansione del commercio mondiale e i relativi flussi finanziari.

    Il Fmi li ha usati anche per prestiti di emergenza verso i Paesi membri. I dsp possono essere scambiati con le altre valute normalmente usate. A fine novembre di quest’anno erano in circolazione 204 miliardi di dsp, pari a circa 285 miliardi di dollari.

    La ripartizione sarà così: il dollaro avrà il 41,73%, l’euro il 30,93%, il renminbi il 10,92%, lo yen l’8,33% e la sterlina l’8,09%. Questa nuova composizione entrerà in vigore il prossimo 1 ottobre 2016.

    Interessante notare che la suddivisione delle quote del 2011 era: 41,9% per il dollaro, 37,4% per l’euro, 11,33% per la sterlina e 9,44% per lo yen. Balza evidente che, nonostante il ridimensionamento dell’economia americana, il dollaro mantiene la posizione dominante. Chi viene ridimensionato è in particolare l’euro.

    Si noti che, quando il Fmi venne creato nel dopo guerra, il pil americano era equivalente al 50% di quello mondiale, oggi è il 22%. Venti anni fa il pil della Cina rappresentava soltanto il 2% del totale, oggi è il 12%. Si consideri che la Cina detiene circa 1,3 trilioni di dollari in buoni del Tesoro americano. 

    Nonostante queste enormi trasformazioni dell’economia mondiale la quota di partecipazione assegnata alla Cina nel Fmi è simile a quella del Belgio. Del resto non si può ignorare che il Congresso americano nel 2010 votò contro la revisione delle quote e che tale opposizione si è poi ripetuta ad ogni summit del G20. 

    In ogni caso la decisione sui dsp è un importante passo in avanti nella creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere di monete. La nuova composizione dei dsp dovrebbe perciò preparare una grande evoluzione verso un sistema multipolare nella sua dimensione politica, economica, commerciale e, quindi, anche monetaria. 

    La Cina e gli altri Paesi del BRICS sono stati i grandi fautori di una riforma globale in modo crescente a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Già nel marzo del 2009 il governatore della Banca Centrale Zhou Xiao Chuan aveva sollecitato la creazione di una moneta di riserva internazionale non più sottomessa a una singola moneta nazionale, il dollaro. Oggi la Banca centrale cinese saluta la decisione come “un miglioramento dell’attuale sistema monetario internazionale e un risultato vincente sia per la Cina che per il resto del mondo”

    Adesso la Cina sarà certamente sottoposta a crescenti pressioni e la sua economia e il suo sistema finanziario saranno analizzati e valutati con cura.

    Si stima che inizialmente ciò dovrebbe determinare un modesto aumento nella domanda internazionale di valuta cinese, equivalente a circa 30 miliardi di dollari. Comunque chi commercia con la Cina sarà sollecitato a tenere quantità crescenti di rmb.

    La riduzione delle allocazioni di portafoglio in dollari a seguito della decisione di riconoscere al rmb un ruolo di moneta di riserva potrebbe nel tempo essere maggiore di quanto si possa oggi pensare.

    Il processo di internazionalizzazione di una moneta è lento, procede infatti per tre stadi: viene prima usata in operazioni commerciali, poi può diventare oggetto di investimenti da parte di privati e infine può essere accettata come riserva per il mercato regionale e globale.

    Si ricordi che nel 2014 il rmb era incluso nelle riserve monetarie di 38 Paesi soltanto. E rappresentava circa 1,1% di tutte le riserve monetarie. L’euro contava per il 21%.

    Negli anni recenti la Cina ha sottoscritto accordi di swap monetari con più di 40 banche centrali, in Asia, in Europa e in America Latina. Ciò ha facilitato l’uso dello rmb e ha favorito la concessione di quote di partecipazione nei programmi cinesi di investimenti esteri.

    Si stima che nei prossimi 10 anni questa evoluzione potrebbe portare ad un flusso di circa 2-3 trilioni di dollari verso la Cina. Soprattutto le economie emergenti avranno un immediato interesse verso il rmb e il suo nuovo ruolo internazionale.

    Ci si augura che l’Europa abbia piena consapevolezza delle oggettive implicazioni strategiche che il cambiamento in questione avrà. Non vorremmo che ancora una volta essa subisca certi processi rinunciando al protagonismo che la sua realtà economica e politica richiede.

 

12.20.2015

La moneta cinese entra nei diritti speciali di prelievo del Fmi

Cina e DSP
 
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
Paolo RaimondiEconomista
 
Il renminbi cinese (rmb) entra a far parte dei diritti speciali di prelievo (dsp), la moneta internazionale di riferimento del Fondo Monetario Internazionale composta da un paniere di valute. Sino ad oggi vi partecipano soltanto il dollaro, l'euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica. 
    I dsp sono la moneta virtuale di riserva internazionale creata dal Fmi nel 1969, nel contesto del sistema di cambi fissi di Bretton Woods,  per affiancare le riserve monetarie (allora solo dollaro e oro) e per supportare l'espansione del commercio mondiale e i relativi flussi finanziari. 
    Il Fmi li ha usati anche per prestiti di emergenza verso i Paesi membri. I dsp possono essere scambiati con le altre valute normalmente usate. A fine novembre di quest'anno erano in circolazione 204 miliardi di dsp, pari a circa 285 miliardi di dollari. 
    La ripartizione sarà così: il dollaro avrà il 41,73%, l'euro il 30,93%, il renminbi il 10,92%, lo yen l'8,33% e la sterlina l'8,09%. Questa nuova composizione entrerà in vigore il prossimo 1 ottobre 2016. 
    Interessante notare che la suddivisione delle quote del 2011 era: 41,9% per il dollaro, 37,4% per l'euro, 11,33% per la sterlina e 9,44% per lo yen. Balza evidente che, nonostante il ridimensionamento dell'economia americana, il dollaro mantiene la posizione dominante. Chi viene ridimensionato è in particolare l'euro. 
    Si noti che, quando il Fmi venne creato nel dopo guerra, il pil americano era equivalente al 50% di quello mondiale, oggi è il 22%. Venti anni fa il pil della Cina rappresentava soltanto il 2% del totale, oggi è il 12%. Si consideri che la Cina detiene circa 1,3 trilioni di dollari in buoni del Tesoro americano.  
    Nonostante queste enormi trasformazioni dell'economia mondiale la quota di partecipazione assegnata alla Cina nel Fmi è simile a quella del Belgio. Del resto non si può ignorare che il Congresso americano nel 2010 votò contro la revisione delle quote e che tale opposizione si è poi ripetuta ad ogni summit del G20.  
    In ogni caso la decisione sui dsp è un importante passo in avanti nella creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere di monete. La nuova composizione dei dsp dovrebbe perciò preparare una grande evoluzione verso un sistema multipolare nella sua dimensione politica, economica, commerciale e, quindi, anche monetaria.  
    La Cina e gli altri Paesi del BRICS sono stati i grandi fautori di una riforma globale in modo crescente a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Già nel marzo del 2009 il governatore della Banca Centrale Zhou Xiao Chuan aveva sollecitato la creazione di una moneta di riserva internazionale non più sottomessa a una singola moneta nazionale, il dollaro. Oggi la Banca centrale cinese saluta la decisione come "un miglioramento dell'attuale sistema monetario internazionale e un risultato vincente sia per la Cina che per il resto del mondo"
    Adesso la Cina sarà certamente sottoposta a crescenti pressioni e la sua economia e il suo sistema finanziario saranno analizzati e valutati con cura. 
    Si stima che inizialmente ciò dovrebbe determinare un modesto aumento nella domanda internazionale di valuta cinese, equivalente a circa 30 miliardi di dollari. Comunque chi commercia con la Cina sarà sollecitato a tenere quantità crescenti di rmb. 
    La riduzione delle allocazioni di portafoglio in dollari a seguito della decisione di riconoscere al rmb un ruolo di moneta di riserva potrebbe nel tempo essere maggiore di quanto si possa oggi pensare. 
    Il processo di internazionalizzazione di una moneta è lento, procede infatti per tre stadi: viene prima usata in operazioni commerciali, poi può diventare oggetto di investimenti da parte di privati e infine può essere accettata come riserva per il mercato regionale e globale. 
    Si ricordi che nel 2014 il rmb era incluso nelle riserve monetarie di 38 Paesi soltanto. E rappresentava circa 1,1% di tutte le riserve monetarie. L'euro contava per il 21%.
    Negli anni recenti la Cina ha sottoscritto accordi di swap monetari con più di 40 banche centrali, in Asia, in Europa e in America Latina. Ciò ha facilitato l'uso dello rmb e ha favorito la concessione di quote di partecipazione nei programmi cinesi di investimenti esteri.
    Si stima che nei prossimi 10 anni questa evoluzione potrebbe portare ad un flusso di circa 2-3 trilioni di dollari verso la Cina. Soprattutto le economie emergenti avranno un immediato interesse verso il rmb e il suo nuovo ruolo internazionale. 
    Ci si augura che l'Europa abbia piena consapevolezza delle oggettive implicazioni strategiche che il cambiamento in questione avrà. Non vorremmo che ancora una volta essa subisca certi processi rinunciando al protagonismo che la sua realtà economica e politica richiede.

12.09.2015

Quanto vale la giustizia Vaticana?

Da CRITICA LIBERALE - riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Sul processo ai giornalisti Fittipaldi e Nuzzi.

 

di Francesca Palazzi Arduini

 

In questi giorni chiunque legga sui media la notizia della decisione del Promotore di Giustizia Vaticano di incriminare i due giornalisti italiani, noterà la scarsa attenzione alle regole definite dai Patti Lateranensi (1929) circa i rapporti tra Italia e Vaticano per il perseguimento dei reati.

    Pare quasi di vedere il Fittipaldi e il Nuzzi già ai ceppi nelle segrete Vaticane, ogni tanto visitati dalla mano benevole di Francesco (ormai l’appellativo ‘Papa’ è in disuso per  motivi di immagine) fornita di pane e acqua, e l’espressione stralunata dei due segnala già l’esposizione al giudizio “divino”.

    Se infatti per il Vaticano è importante perseguire i due giornalisti in quanto ritenuti responsabili di “fuga di notizie” e sospettati di collaborazione coi trafugatori di documenti privati…ciò è anche legittimo per il suo Codice,  che all’ art.116 punisce chi divulga documenti “riservati” (non è ben specificato in che modo questi documenti debbano essere definiti tali)  non è certo così per il nostro Codice, che semmai persegue chi divulga notizie coperte dal segreto di indagine, che viene usato per coprire solo precisa documentazione (art.329 c.p.p).

    E’ inoltre noto anche ai non addetti ai lavori che il Codice italiano, attraverso le leggi penali sulla stampa, persegue semmai e solamente la ricettazione di materiale privato che un giornalista possa attuare, punibile solo però se tale giornalista era a conoscenza del furto del materiale.

    Per sottolineare quindi la pochezza del gesto del Vaticano, impegnato a perseguire Fittipaldi e Nuzzi forse più per spaventare futuri emuli che altro, è interessante notare come questa severità e fretta nel perseguire i danni collaterali piuttosto che l’evidente malaffare protagonista (come il dito che indica la luna…), occorre rammentare l’applicabilità dell’articolo 22 dei Patti, che specifica con chiarezza non solo che:

     “A richiesta della Santa Sede e per delegazione che potrà essere data dalla medesima o nei singoli casi o in modo permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane“… e le leggi vaticane non sono proprio tutte valide in Italia, per fortuna… Ma specifica anche che “La Santa Sede consegnerà allo Stato italiano le persone, che si fossero rifugiate nella Città del Vaticano, imputate di atti, commessi nel territorio italiano, che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli Stati. Analogamente si provvederà per le persone imputate di delitti, che si fossero rifugiate negli immobili dichiarati immuni …, a meno che i preposti ai detti immobili preferiscano invitare gli agenti italiani ad entrarvi per arrestarle.”

    Ricordiamo quindi, per chi se ne fosse dimenticato (e la stampa italiana di recente sembra avere poca memoria) che nel 1987 il cardinale Paul Marcinkus sfuggì all’arresto nonostante il mandato di cattura grazie al suo passaporto vaticano, e così sfuggirono all’arresto i due contabili (Luigi Mennini e Pellegrino De Strobel), incriminati di bancarotta fraudolenta per il crack dell’Ambrosiano, rifugiatisi in Vaticano e da lì usciti solo quando la nostra Corte di Cassazione rifiutò il giudizio di inammissibilità costituzionale dell’art.11 dei Patti Lateranensi presentato dai giudici del Tribunale di Milano.

    Tali Patti, in gran parte confermati anche dal nuovo Concordato (1984), conferiscono ai rappresentanti vaticani (leggi: il clero ma anche i funzionari, vedi art.10) ovvero a tutti coloro che, cita la sentenza della Corte, sono fuori dal Vaticano agendo” in qualità di organi o di rappresentanti di un -ente centrale- della Chiesa cattolica”, la protezione con l’ immunità penale.

    Certo, difficile trattare con uno Stato che si permetteva e può permettersi, anche con l’aiuto di alcuni giudici e tanta stampa, di considerare “peccato” alcune azioni e “grave reato” altre, uno Stato che beneficia di ampia immunità per la maggior parte dei suoi cittadini . Per i privilegiati tutto si chiude, anche con il papato di Bergoglio, con la contrizione e la punizione comminata in segreto, e forse scontata con obbedienza, in ossequio al “sigillum confessionis”.

    Questa riflessione va fatta in un momento focale, la partenza del nuovo Giubileo, così importante per la Chiesa e soprattutto, come accennava Marcinkus, per la sua economia.

 

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Se otto ore vi sembran poche

Da MondOperaio - http://www.mondoperaio.net/

  

A margine di un’estemporanea battuta del ministro del Lavoro Poletti sull’individuazione di nuovi parametri, diversi dall’orario di lavoro, per remunerare i lavoratori

 

di Maurizio Ballistreri

 

Ha ragione Michele Tiraboschi quando dice che “avremo una vera rivoluzione copernicana (anche) delle regole del lavoro solo quando riscriveremo la nozione di impresa: vale per orario di lavoro, vale per alternanza e apprendistato, vale per produttività del lavoro e partecipazione dei lavoratori, vale per tutto”.

    Rispetto a questa necessaria prospettiva di ridefinizione sistemica dei rapporti tra impresa e lavoro, appare sin troppo estemporanea la battuta del ministro del Lavoro Poletti sull’individuazione di nuovi parametri, diversi dall’orario di lavoro, per remunerare i lavoratori. Il tema è da tempo oggetto di dibattito tra gli studiosi, e non si può affrontare con affermazioni da talk-show (come del resto quella sui laureati!), slegate dallo scenario socio-economico e da riflessioni finalizzate a trovare soluzioni condivise.

   Non vi è dubbio che la retribuzione legata all’orario di lavoro era connessa ad un sistema produttivo, quello taylorista-fordista, ormai abbondantemente superato dai processi di innovazione tecnologica hig-tech: ma è pensabile che la soluzione possa essere un ritorno al passato? Infatti dietro la proposta dell’ex presidente (di antica militanza comunista) di uno dei colossi del business italiano, la Lega delle Cooperative, si nasconde la riproposizione di un vecchio e obsoleto istituto retributivo: il cottimo, strumento di sfruttamento dei lavoratori finalizzato ad ottenere alti livelli di produttività e salari collegati, senza alcuna valorizzazione delle professionalità, né della sicurezza sul lavoro, accoppiato alla cancellazione del contratto collettivo nazionale (sostituito da minimi salariali bassi definiti annualmente per legge), e contratti aziendali espressivi di poteri regolamentari unilaterali dei datori di lavoro per stabilire i ritmi produttivi con sindacati deboli e subalterni. Insomma, al di là delle rivendicazioni di modernità espresse dal governo Renzi, una regressione all’Ottocento: a quella visione lavoristica in cui “il lavoratore deduce nel contratto il proprio corpo”, il contratto di lavoro come contratto di compravendita delle energie di cui il lavoratore è proprietario, tipica riconduzione nello schema civilistico del lavoro subordinato e dell’economia liberista.

    Ma nel Novecento si sono affermati i diritti del lavoro come diritti sociali. “Il lavoro non è una merce”, è il motto scritto nel il Trattato di Versailles nel 1919 e profferito dall’economista irlandese John Kells Ingram durante il congresso delle Trade Unions inglesi del 1880, che condensa le trasformazioni sociali e culturali che stanno alla base del diritto del lavoro nel nostro tempo: e cioè che il lavoro non può essere considerato un’entità indipendente dalla persona del lavoratore, e che deve fondarsi anche su un fondamento etico e non può essere perciò regolato solo dal mercato.

    La conseguenza è che il salario del lavoratore non può essere determinato esclusivamente dal suo valore di scambio, perché deve garantirgli il mantenimento in condizioni di salute e sicurezza fisica e mentale, secondo una concezione non mercantile più volte ribadita in tempi recenti nel nostro paese dal sociologo del lavoro Luciano Gallino, recentemente scomparso.

    Considerato che si parla di modernità, non è il vecchio cottimo che deve essere riesumato, ma le idee più avanzate in tema di partecipazione dei lavoratori nelle aziende. Già sul finire degli anni ’80 del Novecento il premio Nobel per l’Economia James Meade propose di definire un sistema retributivo che nelle imprese legasse l’andamento aziendale, i salari e il potere di intervento dei lavoratori nelle scelte strategiche.

    Se si vuole collegare effettivamente la prestazione alla competitività delle aziende senza ripescare anacronistici istituti di sfruttamento, è alla partecipazione che bisogna guardare. Si pensi all’Europa, in cui l’Italia è uno dei pochi paesi che non ha norme su questa tematica: a parte la Germania (con una ormai antica legislazione sulla cogestione) e gli Stati scandinavi, di recente (nel 2013), con la legge sulla “securizzazione dell’impiego”, anche la Francia ha rafforzato le regole sui diritti di informazione e consultazione di lavoratori e sindacati nell’imprese. Insomma, serve davvero una rivoluzione copernicana per il lavoro in Italia.

 

La frenata

Da Avanti! online - www.avantionline.it/

 

Gli ultimi dati economici italiani non sono per nulla buoni. È vero, resta un segno più nell’andamento dell’economia, sia pur con una revisione al ribasso. La previsione era dello 0,9 e il presidente del Consiglio aveva arrotondato all’1, ma adesso siamo scesi allo 0,8, la metà dello sviluppo dei paesi dell’Unione, che è pari all’1,6. Nell’eurozona ci sono poi paesi che volano. La Gran Bretagna raggiunge un più 2,5 e la stessa Germania, che si pensava avesse frenato la sua crescita, è stimata all’1,7, mentre la Francia, ancora in preda al dopo 13 novembre, è all’1,2.

 

di Mauro Del Bue

 

Secondo i dati Istat l’occupazione italiana, dopo il 13 novembre, ha avuto un leggerissimo decremento, meno 0,2, mentre l’aumento della occupazione stabile, ottenuto grazie agli sgravi fiscali e al Jobs act, si deve agli over 50, saliti dal gennaio 2013 di circa 900mila unità, dovuti in gran parte all’aumento dell’età pensionabile, mentre gli occupati under 50 sono diminuiti di quasi 800mila. È evidente che gli sgravi fiscali, piuttosto consistenti e pari a circa 15 miliardi e l’abolizione dell’articolo 18 hanno contribuito a stabilizzare l’occupazione e a diminuire quella precaria, ma un vero aumento dell’occupazione avviene solo attraverso un forte incremento della domanda. Per adesso siamo lontani da un obiettivo accettabile.

Alesina e Giavazzi, nel loro solito fondo sul Corriere, paragonano gli sforzi fatti dai governi britannici in materia di diminuzione della spesa pubblica a quelli intrapresi in Italia. E qui il paragone diventa amaro per noi. La nostra spending review è purtroppo sotto i nostri occhi, con quattro commissari ritirati o dimessi (Enrico Bondi, Pietro Giarda, Carlo Cottarelli e Roberto Perotti) e con tagli rivisti e poi decimati. Il progetto Osborne, cancelliere dello Scacchiere, che si estende fino al 2020, punta a diminuire ancora (di ben nove punti) la spesa pubblica (dal 45 al 36 per cento), ma aumentando, oltre all’occupazione, anche le pensioni e la spesa sanitaria. Si possono obiettare molte cose sulle scelte del governo conservatore britannico (ad esempio che non si pensi all’incremento degli investimenti sulla scuola, come aveva fatto il governo laburista di Blair), ma il risultato si comincia a vedere.

Renzi assuma l’atteggiamento di chi sta affrontando una sfida difficile. Sia sul piano internazionale sia sul versante economico l’Italia sta attraversando un momento assai complicato. L’insoddisfazione è assai facile si riversi sull’orientamento elettorale e lo verificheremo alle consultazionicomunali di Primavera. Renzi guidi coi toni adeguati un paese in una fase di crisi e di guerra. I suoi oppositori sappiano, però, che in questa fase l’unico comportamento accettabile è quello di chi sa assumersi la responsabilità di non giocare al “tanto peggio tanto meglio”, con la stessa logica che tutti i partiti politici dimostrarono a fronte della crisi e del terrorismo degli anni settanta, quello spirito di unità nazionale che ci consentì di battere terrorismo e inflazione e di riprendere la crescita.

 

Vai al sito dell’avantionline

 

Riformare il capitalismo? Ruolo strategico dello Stato

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

 

Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali l’intervento dello Stato è decisivo, non solo “facilitatore”, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. – Pubblichiamo qui un estratto dall’Introduzione di Laura Pennacchi al volume Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo (a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna), Ediesse 2015. Il volume – redatto con il coordinamento della “Area Politiche di sviluppo” della Cgil – è stato presentato in Cgil il 2 dicembre.

 

di Laura Pennacchi

 

Abbiamo vitale bisogno non solo di uno Stato, ma di uno Stato strategico il quale, oltre che indirettamente – mediante incentivi, disincentivi e regolazione –, interviene direttamente, cioè guidando e indirizzando intenzionalmente ed esplicitamente con strumenti appositi. Qui c’è una rottura da operare non soltanto con l’antistatism del neoliberismo, ma anche con la più o meno larvata diffidenza verso l’intervento pubblico – motivata con il rischio di «cattura» da parte di interessi politici e partitici e con le inefficienti degenerazioni burocratiche e clientelari che ne possono derivare – coltivata pure tra varie forze di centrosinistra, incapaci di ragionare e di parlare in termini di «teoria» dello Stato e delle istituzioni pubbliche.

    Del resto, tale stato delle cose – in cui registriamo una singolare coincidenza tra impostazioni liberali tradizionaliste e impostazioni di sinistra meccanicistiche – ha origini remote, se si pensa alla polemica che Polanyi condusse con il pensiero marxista ortodosso che vedeva nello Stato il «comitato esecutivo della borghesia», mentre egli coglieva la consustanzialità di economia capitalistica e Stato, interprete degli interessi generali della società, e denunziava la finzione ipostatizzante l’autosufficienza del mercato alla base dell’economia neoclassica.

    Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non solo «facilitatore» e alimentatore di condizioni permissive, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. Come sottolinea Mariana Mazzucato (Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Roma-Bari 2014), lo Stato ha giocato un ruolo chiave nell’evoluzione del settore informatico, di Internet, dell’industria farmaceutica e biotech, delle nanotecnologie e delle emergenti tecnologie verdi. Proprio l’estensione del cambiamento tecnologico (Antonelli, Technological Congruence and Productivity Growth, in M. Andersson, B. Johansson, C. Karlsson, H. Lööf (eds.), Innovation and Growth – From R&D Strategies of Innovating Firms to Economy-wide Technological Change, Oxford University Press, Oxford, 2012) e l’emergenza di nuovi settori mostrano che lo Stato non interviene solo per contrastare le market failures o per farsi carico della generazione di esternalità, ma rispondendo a motivazioni e obiettivi strategici. Infatti, l’operatore pubblico è l’unico in grado di porsi la domanda: «che tipo di economia vogliamo?». A partire dal porsi tale domanda lo Stato è in grado di catalizzare una miriade di attività e di mobilitare più settori congiuntamente generando il «coinvestimento» necessario, per esempio per andare sulla Luna (per cui fu necessario interrelare le attività di più di 14 diversi settori). L’emergenza di simili complessi di attività si deve a un intervento pubblico che non si limita a neutralizzare le market failures, ma che inventa, idea, crea lungo tutta la catena dell’innovazione.

    Secondo la visione standard le imperfezioni, e relative esternalità, del mercato possono insorgere per varie ragioni, come l’indisponibilità delle imprese private a investire in «beni pubblici» – quali la ricerca di base, dai rendimenti inappropriabili e dai benefici accessibili a tutti –, la riluttanza delle aziende private a includere nei prezzi dei loro prodotti il costo dell’inquinamento il che dà luogo a esternalità negative, il profilo di rischio troppo elevato di determinati investimenti.

    Se ne deduce che lo Stato dovrebbe fare cose importanti ma limitate, come finanziare la ricerca di base, imporre tasse contro l’inquinamento, sostenere gli investimenti infrastrutturali. Collegate a questa teoria sono le tesi che il ruolo dello Stato dovrebbe essere prevalentemente di fornire «spinte gentili» (nudges) (Sunstein, Thaler, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, Milano 2009) o di regolare cercando le regole più semplici possibili, assumendo che semplice sia equivalente a duttile, intelligente, libero, efficace, creativo. Ma uno dei difetti maggiori di tali teorie – che hanno tuttavia loro campi di validità – è che da una parte immaginano interventi pubblici «circoscritti» e «occasionali» (come circoscritti e occasionali sono i fallimenti del mercato) mentre essi nella realtà sono «pervasivi» e «strutturali», dall’altra parte ignorano un elemento fondamentale della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltanto dato «spintarelle» o fornito «regolazione», ha funzionato come «motore primo» delle innovazioni più radicali e rivoluzionarie. «In questi casi lo Stato non si è limitato a correggere i mercati ma si è impegnato per crearli» (Mazzucato, 2013, p. 98).

    Ovviamente sostenere tutto ciò non significa non vedere i limiti e le carenze dello Stato, quanto le pubbliche amministrazioni siano oggi spesso burocratizzate, inefficienti, dequalificate. Al contrario, significa prendere incisivamente atto di tale situazione per tentare di rovesciarla. Innanzitutto occorre denunziare il depotenziamento e il depauperamento dello Stato indotti dalle lunghe pratiche neoliberiste... >>> Continua la lettura sul sito

 

12.01.2015

Matera 2019: laboratorio di buona occupazione

LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it

 

Si è tenuto il primo tavolo di confronto tra amministrazioni e associazioni di categoria sui temi legati alla creazione di nuovi posti di lavoro, che dal progetto di candidatura (e successiva assegnazione del titolo) sembrano essere del tutto assenti

 

Le opportunità offerte da Matera capitale europea della cultura 2019 devono andare oltre gli aspetti infrastrutturali e di programmazione culturale, volgendo lo sguardo alla possibilità concreta di creare nuovi posti di lavoro, occupazione stabile, rispettosa della dignità dei lavoratori. Un obiettivo chiaro, quello fissato dalla Cgil di Matera e della Basilicata, nel promuovere ieri (25 novembre) “Diritti verso il 2019”, il primo tavolo di confronto tra amministrazioni e associazioni di categoria sui temi legati proprio al lavoro, che dal progetto di candidatura (e successiva assegnazione del titolo) sembra essere il grande assente.

    “Non è vero che la cultura non produce occupazione – ha detto Maria Grazia Gabrielli, segretaria generale della Filcams nazionale, partecipando al dibattito –: anzi, è proprio da cultura e turismo che si può dare un impulso deciso allo sviluppo anche di altri settori, come la conservazione del patrimonio e la sua manutenzione, con interventi innovativi frutto di ricerca. Non solo turismo e strutture ricettive, quindi, ma una vero e proprio ‘sistema’ economico della cultura”.

    Alla tavola rotonda hanno partecipato, oltre ai segretari di Cgil e Filcams di Matera e Basilicata, anche i rappresentanti di Confindustria, Confapi, Fondazione Matera 2019. Per tutti, obiettivo comune è quello di darsi un coordinamento, per non arrivare in ritardo all’appuntamento del 2019, programmando e pianificando con attenzione gli interventi infrastrutturali (rete stradale e ferroviaria su tutti), le iniziative da legare all’evento, il coinvolgimento della fitta rete di associazioni cittadine.

     “Non prendiamo a modello la recente Expo – ha osservato Angelo Summa, segretario generale Cgil Basilicata –, perché andremmo nella direzione di creare interventi spot, non strutturali e inutili a un reale sviluppo del territorio. Creiamo invece una rete stabile di relazioni per poter fare di Matera il laboratorio di un nuovo modello economico, basato su un’idea di città nuova, moderna, sostenibile”.

    A collegare ogni aspetto di sviluppo e promozione, emerge la volontà comune di governare il processo con attenzione, anche per non lasciare spazio ad attività illegali. “Puntiamo a rendere trasparente ogni nostra azione – ha spiegato Paolo Verri, direttore della Fondazione Matera 2019 – e per ogni attività stiamo elaborando dei bandi che diano a chiunque abbia idee valide la possibilità di accedere al progetto”.

    Cgil e Filcams hanno proposto per questo motivo alle associazioni di categoria di concordare e sottoscrivere protocolli a tutela della legalità e alle istituzioni di farsi garanti che queste regole condivise vengano rispettate fino in fondo.