12.17.2014

Le padrone delle commodity - Nuova indagine sulle banche USA. Nuovo grande scandalo mondiale.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Le grandi banche sono state pizzicate a speculare alla grande sulle   commodity, sulle materie prime, sui cereali e su altri prodotti alimentari.

    La Commissione d’Indagine del Senato americano, diretta dal democratico Carl Levin e dal repubblicano John McCain, ha pubblicato un dossier di 400 pagine dal titolo “Wall Street bank involvement with physical commodities” per denunciare con dovizia di dettagli come le banche “too big to fail” stiano manipolando, ovviamente a loro vantaggio, i mercati delle commodity. Naturalmente tutto ciò con riverberi sui mercati internazionali.

    Per due anni la Commissione ha indagato sui casi più eclatanti che evidenziano come “il massiccio coinvolgimento di Wall Street nelle commodity mette a rischio la nostra economia, le nostre imprese e l’integrità dei nostri mercati. Bisogna reintrodurre - continua la Commissione - la separazione tra banca e commercio per prevenire che Wall Street utilizzi informazioni non di pubblico dominio a suo profitto e a spese dell’industria e quindi dei cittadini”. Ciò non vale soltanto per gli Stati Uniti ma per il mondo intero.

    La Commissione sta procedendo con delle audizioni pubbliche per dimostrare come alcune banche abbiano fatto aumentare artificialmente i prezzi delle materie prime e speculato in derivati sulle stesse, sfruttando gli “effetti provocati” dalle manipolazioni. Il senatore Levin avverte anche di possibili futuri rischi sistemici per l’economia dovuti al fatto che le banche sono coinvolte in imprese esposte ad alti rischi di catastrofi ambientali.

    Sono state analizzate in particolare le attività delle solite maggiori banche americane, tra cui la Goldman Sachs, la JP Morgan Chase, la Morgan Stanley e la Bank of America.

    La Goldman avrebbe “assunto” il controllo del mercato dell’alluminio. Nel 2010 ha acquistato la Metro International Trade Services di Detroit, che gestisce lo stoccaggio certificato dalla London Metal Exchange, la principale borsa mondiale dei metalli. Nei suoi magazzini ci sarebbe l’85% di tutto l’alluminio contrattato alla borsa di Londra per il mercato americano. Trattasi di 1,6 milioni di metri cubi di alluminio pari al 25% dell’interno consumo annuale in Nord America. La banca ha aumentato la sua proprietà diretta di alluminio passando da una quantità pari a 100 milioni di dollari a 3 miliardi. Possiede, tra l’altro, anche un’impresa che commercia uranio e due grandi miniere di carbone in Colombia!

    Il meccanismo messo in atto sembra piuttosto semplice. Attraverso varie manipolazioni e fittizi spostamenti di ingenti quantità da un magazzino all’altro la Goldman Sachs sarebbe riuscita a determinare ritardi nelle consegne del metallo alle industrie acquirenti. Invece dei 40 giorni necessari nel 2010, lo scorso settembre il tempo di consegna è stato di ben 600 giorni! Ovviamente ciò ha prodotto un aumento sul costo dello stoccaggio, la cui percentuale su quello totale è passata dal 6% del 2010 al 20% di oggi. Naturalmente tutto a beneficio di Metro-Goldman. La conseguenza è stata un’impennata dei prezzi dell’alluminio tanto che molte imprese colpite hanno denunciato la manipolazione, tra cui la Coca Cola. Sembra che al “giochetto degli spostamenti” abbiano partecipato anche altre banche come la Deutsche Bank e l’hedge fund inglese Red Kite,

    I profitti realizzati con l’aumento dei prezzi di stoccaggio per la Goldman sono stati soltanto una piccola parte del guadagno. Il vero business lo hanno fatto con le speculazioni sui future dell’alluminio e con altri derivati costruiti in base alla manipolazione dei prezzi e alla posizione di monopolio dello stoccaggio.

    Da parte sua la JP Morgan Chase ha ammassato grandi quantità di materie prime per un valore di mercato di 17,4 miliardi di dollari pari al 12% del suo capitale di base, il cosiddetto Tier 1. Poiché sono stati superati abbondantemente i limiti permessi, la banca furbescamente ha sottostimato di quasi due terzi tale valore prima di rendicontarlo alla Federal Reserve. E’ arrivata anche a possedere fino al 60% di tutto il rame negoziato sui mercati mondiali. Nel campo energetico possiede 25 milioni di barili di petrolio e controlla 19 centri di immagazzinamento di gas.

    La Morgan Stanley invece controlla 58 milioni di barili di petrolio. Possiede 100 petroliere e circa 8.000 km di oleodotti. E’ padrona di 18 centri di immagazzinamento di gas. Contemporaneamente sta costruendo la propria centrale di compressione del gas ed è la fornitrice privilegiata di carburante per alcune grandi compagnie aeree.

    La Bank of America ha 35 centri di stoccaggio di petrolio e 54 di gas.

    In altre parole, all’ombra di una troppo abusata “globalizzazione” che tutto giustifica, le banche fanno sempre meno gli istituti di credito e, forti anche dei capitali ottenuti a tassi di favore dal governo, si mettono in diretta competizione con le imprese che operano nei settori dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, della lavorazione e dello sfruttamento delle materie prime fino a determinarne i comportamenti e la stessa sopravvivenza.

    Appare chiaro l’intreccio perverso tra banche e organismi di controllo che evidentemente non hanno fatto il loro dovere.

    Avviata l’indagine senatoriale, la Goldman Sachs si è affrettata a licenziare due suoi importanti operatori coinvolti nelle manipolazione. Si è scoperto però che prima essi avevano lavorato per la Federal Reserve di New York. Del resto è noto che l’attuale capo della Fed di New York, William Dudley, è stato un alto dirigente della Goldman fino al 2005

    E’ certamente importante che la Commissione d’Indagine del Senato lavori su questi casi specifici. In passato la stessa Commissione in verità aveva denunciato le responsabilità delle grandi banche americane nella crisi finanziaria globale dei mutui subprime, dei derivati Otc e dei titoli tossici. Il fatto che, a distanza di anni, si debba ancora denunciare simili gravi comportamenti, dovrebbe suonare come un vero allarme sui rischi sistemici di una finanza che purtroppo continua a ritenersi l’agnello d’oro da adorare sempre.

    Ci saremmo aspettati che a Brisbane si fosse parlato anche di ciò.

 

12.09.2014

Un’iniziativa globale per le infrastrutture?

Alcuni interessanti aspetti del G20 di Brisbane

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Abbiamo imparato a non aspettarci dai summit del G20 cambiamenti significativi e di importanza sistemica per l'economia soprattutto per  la finanza. Anche da Brisbane in Australia, purtroppo, è arrivato lo stesso messaggio. Si ammette però che "l'economia globale è vulnerabile a futuri choc, resta la fragilità finanziaria e i rischi esistenti sono esacerbati da tensioni geopolitiche".

   Tuttavia dal comunicato finale del meeting di novembre emergono alcuni passaggi interessanti.

    In un mondo dove i Paesi del Brics risultano essere le uniche locomotive della ripresa è intollerabile che dal 2010 gli Stati Uniti continuino a bloccare la riforma delle quote di controllo del Fondo Monetario Internazionale e quindi quella della governance mondiale.

    Per questa ragione Brisbane ha dato tempo fino alla fine del 2014 per ratificare quanto concordato, dopo di che si dovrebbe procedere alla realizzazione dei nuovi assetti.

    In una economia globale ancora dominata dai paradisi fiscali e da "sistemi bancari ombra", che permettono a tutte le grandi multinazionali private di scegliersi i posti fiscalmente più convenienti per la domiciliazione delle proprie attività, il G20 afferma di voler lavorare unitariamente per una riforma del sistema fiscale internazionale. In futuro "i profitti dovrebbero essere tassati  dove operano le attività economiche che li producono e dove il valore viene creato". Si tratta di una dichiarazione di buona volontà, come una delle tante registrate in passato, attesa però alla prova dei fatti.

    Il passo avanti più significativo ci sembra sia il riconoscimento della mancanza di investimenti globali nelle infrastrutture che riteniamo sia il vero freno per la ripresa.

    Perciò il G20 promuove la "Global Infrastructure Initiative" (GII), un programma pluriennale di grandi lavori per migliorare la qualità degli investimenti infrastrutturali pubblici e privati. Si consideri che la necessità mondiale di infrastrutture è stimata in 57 trilioni di dollari e gli investimenti richiesti potrebbero essere di 3 trilioni di dollari all'anno.

    A Brisbane si è deciso di aggiornare i canali di informazione sui vari programmi e progetti e di creare nuovi meccanismi di finanziamento di lungo termine per coinvolgere sia gli investitori istituzionali che le reti di PMI. Secondo noi è la strada maestra per indirizzare i flussi finanziari verso l'economia reale, a partire dalle infrastrutture di base, e toglierli alla speculazione finanziaria che, come è noto, opera nel breve periodo.

    E quindi i Paesi del G20 hanno deciso anche di creare un "Global Infrastructure Hub", una piattaforma di coordinamento tra i governi, il settore privato, le banche di sviluppo e le altre organizzazioni internazionali per realizzare i grandi lavori e le grandi infrastrutture nel mondo, nonché gli investimenti nei settori delle PMI.

    Il succitato Hub opererà da Sidney con un mandato di 4 anni ed un budget di 10-15 milioni di dollari all'anno che saranno sottoscritti volontariamente da tutti i Paesi, anche non del G20, da organizzazioni internazionali e da privati. Sarà una "centrale" privata ed indipendente, controllata da un consiglio direttivo di fatto in mano ai rappresentanti del cosiddetto mondo avanzato. In ogni caso, se dovesse funzionare in modo corretto, le sue potenzialità non sarebbero irrilevanti.

    Nel contesto il G20 di Brisbane ha anche avallato la recente iniziativa della Banca Mondiale per un "Global Infrastructure Facility", di fatto un progetto molto simile, se non un doppione dell'Hub menzionato.

    Sarebbe opportuno prima di tutto chiarire se la GII del G20, visto che avrà una strutturazione molto privata, sia la stessa "Global Infrastructure Initiative" lanciata due anni fa dalla McKinsey & Company insieme ad altre entità private americane e internazionali.

    In merito quindi sorgono legittimi dubbi sulle vere intenzioni operative e degli Stati Uniti e dell'Ue.

    Mentre si ricordi che finora sono stati i Paesi del Brics ad avviare a realizzazione in modo concreto e indipendente una serie di importanti infrastrutture. Si tratta dei grandi corridoi di sviluppo terrestre, ma anche marittimo, avviati dalla Cina, dalla Russia, dall'India. Il Brasile per altro verso sta lavorando per una moderna infrastrutturazione dell'interno continente latino americano. Purtroppo la grande sfida rimane ancora l'Africa.

    Per finanziare i vari progetti i Brics hanno creato una Banca di Sviluppo con 100 miliardi di dollari di capitale. Inoltre stanno sorgendo anche delle banche di sviluppo regionale come la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB).

    Non vorremmo che la Facility della Banca Mondiale ed in particolare la GII fossero, più che promotrici di iniziative, solo strumenti per  "incapsulare" le attività dei Brics in un controllo più stringente da parte del cosiddetto mondo occidentale. Sarebbe di fatto un sabotaggio e un atto assai grave. Occorre grande consapevolezza delle necessità globali e occorre il coraggio di governanti "visionari" per battere le logiche egoistiche del passato e guardare all'universo mondo nell'ottica di un vero sviluppo diffuso e pacifico.

 

La svolta di Salvini e la crisi della democrazia

Da CRITICA LIBERALE

 

 

di Paolo Bonetti

 

La crisi economica non sembra avere soluzioni, se non in tempi lunghi o lunghissimi, mentre aumenta il disagio sociale non solo di operai e pensionati, ma anche di quella vasta classe media (che è poi, in realtà, un coagulo di ceti diversi) che costituisce la vera spina dorsale dell’economia e della società italiana. Artigiani, piccoli e medi imprenditori, commercianti, liberi professionisti, partite Iva e lavoratori autonomi dei più diversi settori professionali, tutti costoro cominciano a disperare del proprio avvenire, a perdere il gusto del rischio e dell’innovazione, a ripiegare su scelte di prudenza e di rinuncia, convinti ormai che la ripresa non ci sarà o sarà lenta e debolissima. Tutti costoro costituiscono la grande maggioranza del paese, assai più di una classe operaia che si è venuta progressivamente riducendo, man mano che avanzavano i processi di terziarizzazione del tessuto economico e si veniva imponendo, anche in Italia come in tutti i paesi avanzati, un’economia dei servizi. Per di più anche il nostro capitalismo abbandonava anno dopo anno gli investimenti produttivi per rifugiarsi nel più lucroso campo della speculazione finanziaria.

    Dovrebbe essere noto che gli scioperi funzionano e migliorano le condizioni economiche delle classi subalterne, quando l’economia è in crescita e ci sono utili da redistribuire. Ma oggi, in Italia, siamo in piena recessione e gli investimenti non decollano. Bisognerebbe incrementare la domanda interna, ma c’è da dubitare che, nell’attuale condizione di depressione psicologica oltre che economica, essa servirebbe davvero a far ripartire il ciclo produttivo per creare nuova occupazione. Il capitalismo italiano, abituato da sempre a vivere e prosperare con le protezioni e i sussidi statali e con la periodica svalutazione della moneta, sembra aver alzato bandiera bianca di fronte alle difficoltà e ai rischi del mercato globale. S’invoca (lo ha fatto recentemente D’Alema) un nuovo massiccio intervento dello Stato, ma questo Stato (inteso come l’insieme delle pubbliche amministrazioni) ha ampiamente dimostrato di non saper spendere neppure quei denari che la Comunità europea gli ha messo a disposizione. Scioperare potrà anche essere una riaffermazione di identità e di ruolo del sindacato, ma alla fine sarà soltanto un’ulteriore perdita della ricchezza nazionale e, in molti casi, un maggiore disagio per i cittadini-utenti.

    In questa situazione di crescente disgregazione sociale, non esiste alcuna alternativa di sinistra all’attuale governo e questo va detto anche a costo di urtare le convinzioni e la suscettibilità di molti. Non è un’alternativa la sinistra ondivaga e inconcludente del partito democratico, come non lo sono la demagogia di Sel o le astrattezze ideologiche dei partitini che ancora si richiamano al comunismo. In quanto al M5S, il guaio di questa ancora numericamente consistente forza politica è che essa non sa letteralmente che cosa fare e in che direzione muoversi: la confusione è totale e il rischio di una diaspora, che si tradurrebbe poi nella subordinazione ad altre forze politiche, è più che mai incombente.

    E veniamo allora a Salvini e alla sua nuova Lega di cui si parla nel titolo di questo articolo. Nello sfaldamento sociale e anche culturale in atto, Salvini, come il Front National in Francia e l’Ukip in Gran Bretagna, sta trovando il terreno più favorevole per una crescita che si sta gonfiando mese dopo mese. Messa da parte la fisima del federalismo, il capo leghista ha furbescamente capito che nell’intera società italiana, da Nord a Sud, ci sono una sofferenza economica e uno sbandamento morale che possono permettere lo sfondamento elettorale di una forza politica nazionalpopulista capace di far leva sulla rabbia e sulla vera e propria disperazione di ceti sociali che non riescono più a individuare per se stessi motivi credibili di rassicurazione e di speranza. Se i metalmeccanici di Landini si agitano nei cortei, la variegata e sempre più sofferente piccola borghesia italiana resta più silenziosa, ma comincia ancora una volta a pensare che della democrazia si può fare a meno, se la democrazia è soltanto tasse, corruzione politica e inefficienza burocratica.

 

11.24.2014

La lezione di Federico Caffè per la Bce

Economia

  

Draghi a Roma per il centenario della nascita di Federico Caffè.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Recentemente, anche nel mezzo di una crescente contestazione giovanile e studentesca, Mario Draghi è venuto a Roma per celebrare il centenario della nascita dello scomparso economista Federico Caffè. Draghi era stato suo allievo all’Università La Sapienza di Roma.

    Parlando della “eredità di pensiero” di Caffè, il governatore della Bce ha ricordato come per il professore “fare politica economica significasse: analisi della realtà, rifiuto delle sue deformazioni, impiego delle nostre conoscenze per sanarle”.

    Non conosciamo tutte le intenzioni e i progetti di Draghi per poter dare un giudizio definitivo. Possiamo però dire con certezza che la Bce, e certamente per responsabilità non solo di Mario Draghi, non sta facendo molto per sanare le riconosciute deformazioni del sistema.

    Non si pretende che la banca centrale copra il vuoto politico lasciato dalla mancanza di capacità e volontà di governo a livello europeo.

    Quando la Bce si è mossa con decisione e in modo corretto ha prodotto dei risultati importanti. Si ricordi soltanto come la famosa frase di Draghi “difenderemo l’euro con ogni mezzo” mise fine ad una destabilizzante speculazione internazionale contro il debito pubblico di alcuni Paesi più deboli che minava la stessa esistenza dell’Unione europea.

    Oggi si vorrebbe che la Bce con coraggio riconoscesse che certe politiche monetarie di sua competenza non hanno funzionato e non funzionano. Perciò occorre mettere in cantiere azioni nuove e più efficaci.

    Il fatto che, come Draghi ha ribadito nel discorso di Roma, le banche ancora intermedino quasi l’80% del credito nell’eurozona, non può significare che bisogna accettare di essere sottomessi a questo meccanismo inefficace.

    Si noti che la situazione del sistema bancario internazionale, anche quello europeo, è peggiorata grandemente negli ultimi anni. Secondo il rapporto dell’European Systemic Risk Board i bilanci delle banche europee sono cresciuti a dismisura. Nel 2013 il totale delle loro attività era già di oltre tre volte il Pil dell’Ue.

    Anche il loro processo di concentrazione è cresciuto enormemente. Dal 2000 gli attivi delle tre maggiori banche di ciascun Paese europeo sono aumentati e di molto. Ad eccezione dell’Italia. Un dato che merita maggior attenzione e valutazione visto che tutti gli organismi internazionali di controllo indicano proprio nel gigantismo delle banche “too big to fail” una delle maggiori cause della persistente crisi finanziaria globale.

    Queste anomalie delle banche europee si manifestano di conseguenza nel grave peggioramento del tasso di leverage, nel rapporto cioè tra il capitale proprio e i loro attivi (asset) che in media è sceso dal 6% degli anni novanta al 3% del 2008.

    Tali squilibri diventano ancora più pericolosi se si raffrontano gli attivi con le “montagne” dei derivati Otc tenuti fuori bilancio. E’ una disfunzione speculativa di tutte le grandi banche mondiali. In Europa è ancora più grande. Mentre per le 5 grandi banche americane, ciascuna con più di 40 trilioni di dollari di derivati, il rapporto Otc/attivi è di 25-50 volte, per la Deutsche Bank, la più grande banche europea, con i suoi 75 trilioni di dollari di Otc, esso è di ben 100 volte!

    Davvero non si comprende perché la Bce non inviti con forza il governo tedesco a “fare bene questo suo compito a casa” e a prendere le necessarie misure per correggere l’evidente gravissimo rischio finanziario sistemico.

    Nella sua analisi Mario Draghi ha anche ricordato che nell’eurozona gli investimenti privati dal 2007 sono calati del 15% e quelli pubblici del 12%. Ha aggiunto che per usciere dalla recessione occorre operare non solo sul fronte dell’offerta ma anche della domanda di credito per investimenti.

    A nostro modesto avviso sul fronte dell’offerta occorre individuare strade alternative a quelle bancarie per portare credito di lungo periodo e a bassi tassi di interesse direttamente alle imprese che vogliono lavorare. Si pensi, per esempio, ai project bond, ai minibond, a nuovi fondi di investimento, a nuovi sportelli di credito fuori dal circuito bancario.

    Sul fronte della domanda non si può contare soltanto sulla “magia del mercato” e sulla spontanea volontà del mondo imprenditoriale e del lavoro. Occorre che l’Unione europea e i singoli Paesi promuovano grandi e piccoli progetti di modernizzazione delle infrastrutture, della messa in sicurezza dei territori, di nuove tecnologie sul territorio europeo e anche di partecipazione attiva nei grandi lavori programmati dai Paesi del Brics, a cominciare dalla Cina e dalla Russia, per dare più spazi alle imprese.

    E’ forse opportuno citare alcune idee di Federico Caffè che furono profetiche e ancora valide oggi.

     “Da tempo sono convinto – scriveva - che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori.”

    Aggiungeva che “poiché il mercato è una creazione umana, l'intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio.”

    E ammoniva che “al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l'assillo dei riequilibri contabili.”

    Parole sante più che mai calzanti per la situazione odierna.

 

11.17.2014

Basilicata Oil - La geopolitica del petrolio colpisce anche in Italia

 

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

La questione petrolio è di indubbia portata globale anche se i riverberi locali incidono non poco sui territori,  nelle economie e sulla stessa salute dei cittadini residenti nelle regioni interessate alle estrazioni. Di conseguenza anche le ricerche e le estrazioni in Basilicata dipenderanno dal mercato globale, le cui oscillazioni tendono al ribasso.

    Mentre la domanda ristagna a causa della perdurante crisi industriale ed economica in Europa e del rallentamento delle economie del Far East, in primis quella cinese, l'offerta è cresciuta molto. A ciò si aggiunga che gli USA, con la produzione di shale gas, hanno notevolmente aumentato l'estrazione di greggio (+80%). Anche i significativi risultati dovuti alla cresciuta efficienza energetica, all’aumento delle energie rinnovabili, ai risparmi nei consumi e alla migliore produttività dei settori incidono notevolmente.

    Bisogna ricordare che il petrolio è sempre stata un'arma formidabile per mutare e condizionare le vicende e gli assetti geopolitici globali. Perciò la storia mondiale del petrolio è tristemente segnata, oltre che dai danni all'ambiente e alla salute, da guerre, colpi di stato, corruzione e assassinii.

    Anche oggi non pochi esperti ed analisti del settore sottolineano che dietro la decisione di far scendere il prezzo del petrolio ci sarebbe anche l’intenzione dell’Arabia Saudita, condivisa con gli alleati americani, di colpire le economie della Russia e dell’Iran. Si tenga in considerazione infatti che le entrate petrolifere rappresentano il 60% delle entrate del governo dell’Iran e il 50% di quelle della Russia.

    Una simile mossa venne fatta nel 1985 sempre dall’Arabia Saudita che per un certo periodo di tempo abbassò il prezzo del petrolio di 3,5 volte aumentando nel contempo la produzione di ben 5 volte. Gli sceicchi non dovettero rinunciare ai loro fasti, ma di conseguenza, nei grandi giochi della geopolitica mondiale, l’URSS venne messa in ginocchio.

  Certamente il petrolio ha determinato non poco lo sviluppo economico, soprattutto dei Paesi dell'Occidente. Né  si può ignorare il fatto che nei Paesi del terzo mondo, e non solo, le popolazioni, "affamate non solo di lavoro", e i governanti, spesso corrotti, hanno accettato estrazioni indiscriminate e subito le scelte delle varie compagnie petrolifere.

    In questo quadro macro si inserisce anche il caso Basilicata che registra già estrazioni per circa 100 mila barili al giorno a fronte di concessioni all'ENI e alla Total per complessivi 150 mila barili. Il Governo con la Regione, anziché imporre uno sviluppo ecocompatibile, ha previsto nel decreto “Sblocca Italia” una  certa gratificazione finanziaria, ma ha tolto alla Regione ogni potere in merito.

   A pensar male si fa peccato  - diceva Giulio Andreotti - ma spesso ci si indovina e noi riteniamo che Il rischio che il  bel e salubre territorio lucano possa diventare una groviera sia reale.

    A meno che al "casinò planetario" dei mercati finanziari il petrolio continui a perdere terreno. Nelle ultime settimane, infatti, il prezzo del greggio è sceso del 20-25 %.. Il brent è sceso fino a toccare i 73/75 dollari al barile!

    Chiaramente sono cambiamenti che non si possono addebitare alla legge della domanda e dell’offerta sul libero mercato. A giugno il prezzo era di circa 100 dollari al barile e nello stesso spazio di tempo non vi sono stati crolli della domanda del 20% o simili riduzioni delle capacità produttive della Cina e di qualche altro grande Paese.

    D’altra parte è noto che anche le impennate del prezzo del petrolio fino ad oltre i 150 dollari al barile nei mesi precedenti la crisi del 2007-8 erano frutto di speculazioni selvagge fatte con derivati finanziari e non delle variazioni nella domanda e nell’offerta globali.

    Si ricordi in ogni caso che le IOC (International Oil Companies) per riuscire a pagare le spese di investimento per ricerca ed esplorazione e garantire i dividendi ai propri soci devono avere  un prezzo che non scenda sotto  i 90 dollari al barile.

    Da ultimo, last but not least, si rammenti che c'è l’urgenza di nuove e più efficaci politiche rivolte alla riduzione delle emissioni a livello planetario. In merito l'ONU pochi giorni fa ha lanciato ai governi un allarme, affermando che "se vogliamo evitare danni gravi diffusi e irreversibili al clima, bisogna ridurre il consumo di combustibili fossili." Il monito vale  per tutti, ma crediamo valga anzitutto per i Paesi cosiddetti sviluppati, USA ed Europa in primis.

 

11.07.2014

Il piu’ grande taglio delle tasse della storia dell’uomo sarà recessivo

 
Qualche chiarimento sulla cosiddetta manovra.
 
di Gustavo Piga,
ordinario in Economia Politica, Roma Tor Vergata
 
Non è una manovra che aumenta il deficit di 11 miliardi. Il deficit si riduce, non aumenta. Non è questione da poco, anche perché dicendo che aumenta sembra che abbiamo ottenuto una grande vittoria sull'Europa. Una piccola vittoria l'abbiamo ottenuta nel senso che il deficit sì diminuisce, ma di meno di quanto inizialmente previsto. Mi direte: ma allora come fa il Premier a dire che aumenta il deficit di 11 miliardi. Oh, è un vecchio trucchetto della politica. Ma andiamo per ordine. 
    Che il deficit diminuisca, in valore sia assoluto che percentuale di PIL non lo dico io: lo dice la Nota di Aggiornamento del DEF inviata in Europa (e ancora da scrutinare da parte della Commissione europea). Più precisamente mentre il deficit 2014 si chiude al 3% di PIL e con un valore di circa 48,8 miliardi di euro, quello del 2015 di Renzi è programmato chiudersi – ha deciso il Governo – al 2,9% di PIL, 47,7 miliardi. 1 miliardo in meno, altro che 11 in più. E da dove esce fuori 11 direte? Oh semplice, dal famoso valore "tendenziale" del deficit 2015, che il Governo ha stimato al 2,2% di PIL. Siccome il deficit come abbiamo detto nel 2015 sarà del 2,9% di PIL, la differenza, 0,7% di PIL sono circa 11 miliardi. Ma che cosa è questo tendenziale? Semplice, è il valore al quale avrebbe teso "naturalmente" il deficit 2015 se non fosse stato deciso da Renzi invece che andava rifiutato e modificato, con la sua manovra, appunto, al 2,9% programmatico. Il tendenziale? Il tendenziale non ha significato economico, è il mondo come sarebbe stato se non fosse che non è stato. Per capire come il Governo ha deciso di sostenere l'economia più dell'anno precedente viste le sue difficoltà dobbiamo guardare a come è variato da un anno all'altro il deficit, non da come è variato il deficit tra quello che avrebbe potuto essere quest'anno (informazione irrilevante che non tocca l'economia) e quello che sarà. Una manovra dunque, quella di Renzi, certamente non espansiva, ma apparentemente nemmeno recessiva: infatti la riduzione dell'indebitamento dal 2014 al 2015 deriva dalla riduzione della spesa per interessi di 0,2% di PIL e dalla diminuzione dell'avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi) da 1,7 a 1,6%. Briciole, direte.
    Un attimo per soffermarsi sulle famose slide di Renzi. Mi direte: ma come? Lui tra le cifre in entrata ha messo gli 11 miliardi di maggiore deficit! Sbagliato, come abbiamo visto il deficit diminuisce di circa 1 miliardo. Quindi le entrate non sono 36 miliardi ma circa 25. Che vanno a finanziare quali uscite? Non ha forse Renzi detto che le uscite sono pari a 36 miliardi? No, il conto deve tornare: se le risorse sono 25 miliardi, gli impieghi (le uscite) devono anche esse essere 25 per il 2015. E' probabile che vengano dall'avere inserito nel 2015 delle uscite che in realtà erano già state decise nella legge di stabilità del 2013 e che già valevano nel 2014, e che sono state confermate nel 2015: in particolare i 6 miliardi di spese per missioni all'estero ecc. e 4 miliardi di bonus fiscale. Aggiungeteci che le entrate servono anche a ridurre il deficit di 1 miliardo e ci dovremmo essere. Comunque una bella cifra 25 miliardi, ma non 36.
    25 miliardi di qua e 25 miliardi di là, manovra neutrale? Mica tanto. Perché se è vero che ci sono minori spese che finanziano minori tasse devono essere fatti alcuni distinguo essenziali. Primo, le minori tasse in una recessione come questa hanno certamente un effetto positivo minore dell'effetto negativo delle minori spese per appalti pubblici. Perché? Semplice. 1 euro in meno di spesa, specie se tagliato a casaccio – perché la spending review fino ad oggi non è mai stata fatta con il criterio che sarebbe stato necessario per individuare veri sprechi – genera riduzioni di produzione e occupazione immediati di pare ammontare: se lo Stato non domanda 100 ecomotografi, il PIL cade di 100 ecotomografi. E se l'azienda di ecotomografi fa meno soldi licenzia e/o paga meno i suoi dipendenti, che consumeranno di meno eccetera. Studi recenti su cui torneremo mostrano che 1 euro in meno di spesa pubblica in una recessione grave come la nostra tipicamente riduce il PIL di 1,2 euro. Fatevi i conti: se riduciamo la spesa di 15 miliardi, il PIL si abbasserà di circa 18 miliardi. "Ma ci sono le riduzioni della tassazione!!" direte voi. Certo. Ma non tutto il maggior reddito netto si traduce in consumi ed investimenti: tanto più si è pessimisti sul futuro, e in queste recessioni imprese e famiglie lo sono tanto, tanto meno se ne spendono, di quelle riduzioni. Se ipotizziamo ottimisticamente che l'effetto positivo delle minori tasse sia di 10 miliardi di PIL, abbiamo un PIL che calerà di 8 miliardi rispetto a quanto sarebbe stato senza questa manovra di Renzi: 0,5% del PIL attuale dunque, portando la crescita 2015 allo 0%, dallo 0,5% promesso da Padoan. Quarto anno di recessione consecutiva e debito su PIL che continua a marciare verso l'alto. Fate voi.
    Certo che l'Europa ci guarda. Ma ci guarda benignamente ed è un'ingenuità pensare che sia effettivamente irritata con l'Italia per essersi rifiutata di raggiungere traguardi ancora più ambiziosi di finanza pubblica: la Germania sta finalmente soffrendo per la mancanza di domanda italica e francese, si sta spaventando e ha chiesto di chiudere un occhio se non due sulle apparenti infrazioni italiane all'idiotico Fiscal Compact, pur di evitare una recessione peggiore. Ma la recessione ci sarà, come abbiamo visto sopra. E ci sarà perché malgrado tutti gli appelli di Renzi a Confindustria, gli imprenditori non investiranno quanto vorrebbe il Premier. E non lo faranno per colpa di quello che il Premier ha scritto, sotto dettatura europea: e cioè che anche se il deficit italiano resta al 3% di PIL oggi, scenderà al 2 e poi all'1 e poi allo zero, in tre anni. Lasciate stare che sia vero o meno: l'ha scritto. A forza di annunci recessivi di maggiori tasse o minori investimenti pubblici, richiesti dal Fiscal Compact, crolla l'economia italiana, che non ascolta i richiami all'ordine del Premier, e con essa la speranza di un'Europa diversa.
    Renzi aveva due opzioni soltanto: o a primavera di quest'anno far partire sul serio la spending review, e con 15 miliardi di tagli di veri sprechi (manovra non recessiva in questo caso) finanziare maggiori investimenti pubblici – unica vera leva per far ripartire occupazione e produzione – senza muoversi dal deficit del 3% di PIL ed abbattendo il rapporto debito PIL; o, preso atto della sua incapacità di fare laspending in tempo, come è stato, effettuare investimenti pubblici per 1% di PIL, 16 miliardi, portando il deficit al 4% di PIL ma riuscendo comunque ad abbattere il debito sul PIL grazie alla maggiore crescita di quest'ultimo e senza preoccuparsi di multe che nessun leader politico europeo avrebbe mai avuto il coraggio di comminare al fondatore Italia. No, Renzi non ha fatto nessuna delle due cose: ha scelto la via semplice di lasciare il deficit al 3% senza fare né spendingné investimenti pubblici. Così che la disoccupazione possa crescere, il PIL crollare, il debito continuare nella sua salita. Che l'abbia fatto perché glielo ha chiesto l'Europa lo esonera solo in minima parte: l'Europa siamo noi, specie in questo semestre di Presidenza europea, e sarebbe stato opportuno ricordarlo a Schäuble, collega tedesco di Padoan, che ha recentemente parlato – in una importante intervista televisiva ai margini della riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale – ben più a lungo del legale rappresentante dell'Unione, il nostro Padoan appunto, a cui spettava la parola. Tra pochi mesi saremo qui a chiederci come mai il PIL continua a crollare malgrado ci sia stato il più grande taglio delle tasse della storia dell'uomo.
 
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Ecco un interessante articolo del Professor Gustavo Piga. La finanziaria del Governo sembra il prodotto perfetto per fare ripartire il paese e per rivoltarsi all'Europa della Germania, ma al termine della lettura di questo articolo, non è più così. Piga toglie il velo propagandistico alla manovra palesando la sua vera natura: una non scelta. La finanziaria prevede ovviamente delle novità importanti, che pur non avendo l'ambizione di ribaltare la situazione economica, fungono da segnale importante per il paese (leggi "80 euro"), ma prevede anche un sostanziale gioco delle tre carte con la diminuzione del deficit del paese. Il grande assente è una coraggiosa scelta in campo economico che ambisca seriamente a rilanciare l'economia, che probabilmente è quello che ci si aspetta da chi ambisce a "cambiare verso".
    Interessante è anche la questione legata alla "scelta", Gustavo La Pira ci dice che Renzi aveva due opzioni soltanto: o attuare la spending o dare il via ad una serie massiccia di investimenti pubblici. Non scegliere, come è stato fatto, ha significato e significa continuare a galleggiare in attesa di qualcosa. Una scelta, in un senso o nell'altro , significherebbe lottare per provare a salvarsi, significherebbe proprio quel "fare" tanto caro al Governo.
    Rincaro la dose dicendo che sarebbe proprio opportuno non solo scegliere (vedi "fare") di dare il via ad un vasto piano di investimenti pubblici nei settori delle infrastrutture, dei trasporti, dell'ambiente (per dissesto idrogeologico e ambientale, vogliamo fare qualcosa?), ma che sarebbe anche ora di ricordarsi o rendersi conto che L'Italia è un grande paese, che è un paese fondatore dell'UE e che al momento è di turno alla presidenza dell'Unione e che quindi sarebbe anche ora di smetterla di avere paura dei diktat altrui. 
Giacomo D'Alfonso, Club PortoFranco / ADL

10.28.2014

Non c’è solo il sistema bancario

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Alla recente conferenza di Napoli il governatore centrale Mario Draghi ha ribadito l'importanza delle tre operazioni di intervento finanziario della BCE a sostegno del sistema bancario. Si tratta del programma di acquisto di derivati abs, di acquisto di covered bond (obbligazioni bancarie garantite) e il programma LTRO (piani di rifinanziamento bancario a lungo termine).

Come è noto la manovra sul tasso di interesse è ormai esaurita. Di conseguenza, ha aggiunto Draghi, con l'immissione di nuova liquidità il bilancio BCE dovrebbe risalire ai livelli del 2012 quando aveva raggiunto i 3.000 miliardi di euro circa. Il volume potenziale di nuovi acquisti sarebbe intorno a 1.000 miliardi di euro.

Ancora una vota si tratta di interventi a favore del sistema bancario europeo che poi, bontà sua, dovrebbe o potrebbe trasformali in nuove linee di credito per le PMI e per nuovi investimenti. Questo passaggio "obbligatorio" è giustificato dalla BCE per il fatto che in Europa l'80% del credito transita attraverso il sistema bancario.

Secondo noi questo passaggio è invece necessario solo per la salute delle grandi banche, sempre esposte ai rischi di nuove crisi per avere continuato a mantenere certi comportamenti speculativi e poco virtuosi anche dopo il 2008.

Un recente studio indica che a fine luglio 2014 le 100 banche europee più esposte ai rischi sistemici avevano insieme 810 miliardi di euro in titoli ad alto rischio. Soltanto 5 banche, con la Deutsche Bank in testa, ne detengono il 39%. Le banche di Francia e Gran Bretagna insieme ne detengono il 55%.

Il 4 novembre prossimo la BCE inizierà ad attuare la vigilanza diretta sui 120 maggiori gruppi bancari dell'area dell'euro, che rappresentano oltre l'85% delle attività bancarie. Per l'occasione molto probabilmente occorreranno molte "pezze finanziarie" d'appoggio!

Alla prova dei fatti i citati meccanismi finora non sono stati però capaci di mettere in moto una ripresa effettiva ne dell'economia ne della domanda aggregata. Infatti alla fine del 2013 i consumi privati erano del 2% inferiori a quelli del 2007 e gli investimenti privati erano sotto del 20%. Hanno retto soltanto le esportazioni.

Nel frattempo per alcuni paesi europei il debito pubblico rischia davvero di diventare insostenibile. Nell'euro zona è in media il 95,5% del Pil. Qualora dovesse ancora aumentare esso sarebbe un fardello pesante che potrebbe frenare e ulteriormente bloccare la ripresa economica. Non si dimentichi che il pagamento degli interessi passivi sul debito sottrae notevoli risorse alle politiche economiche e sociali. Nel 2013 l'Italia ne ha pagato 95 miliardi di euro.

In molte capitali europee però la ristrutturazione del debito pubblico è ancora un tabu in quanto è stata erroneamente e maliziosamente associata ad un presunto aiuto gratuito fatto dai Paesi sedicenti virtuosi a quelli cosiddetti spendaccioni.

Noi riteniamo che in una tale situazione la BCE non abbia soltanto l'opzione di aiuto finanziario al sistema bancario. Essa potrebbe per esempio acquistare una parte del debito pubblico, sopra il limite del 60% del Pil indicato dai parametri di Maastricht, e tenerlo congelato al tasso di interesse zero, come indicato nel documento "Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone" preparato da economisti dell'International Center for Monetary and Banking Studies (ICMB) di Ginevra. La Bce sarebbe l'unica istituzione capace di mobilitare sufficienti risorse per una tale operazione. Se ad esempio lo si volesse fare per metà del debito pubblico europeo l'ammontare sarebbe di circa 4,5 trilioni di euro.

La Bce dovrebbe prendere in prestito una simile cifra sui mercati finanziari in cambio di sue obbligazioni, oppure creare la liquidità interna necessaria per acquistare i debiti pubblici da ritirare. Ovviamente l'operazione, almeno inizialmente, sarebbe in perdita in quanto la BCE dovrebbe pagare gli interessi sui nuovi titoli emessi senza ricevere gli interessi dei vecchi titoli del debito pubblico dei vari Stati.

Non si genererebbe inflazione in quanto la BCE chiederebbe dei prestiti, oppure la liquidità creata ed usata per l'acquisto dei debiti sarebbe poi "sterilizzata" attraverso l'emissione di obbligazioni BCE. La BCE ha una sua forte credibilità sui mercati.

Per cui essa acquisterebbe parte del debito pubblico eccedente la quota del 60% in proporzione allo stock di partecipazione dei singoli Paesi europei al suo capitale. Essi ripagherebbero l'ammontare degli interessi per un periodo indefinito lasciando nelle casse della Banca centrale il profitto che spetterebbe loro dai proventi di signoraggio che la BCE annualmente dovrebbe distribuire agli Stati. Ciò potrebbe essere sufficiente se l'intereresse sulle nuove obbligazioni emesse dalla Banca centrale fosse contenuto.

Molto probabilmente il costo complessivo di tale operazione della BCE non dovrebbe essere maggiore di quello che attualmente sostiene per finanziare il sistema bancario.

In ogni caso i costi verrebbero progressivamente assorbiti anche attraverso la presumibile crescita economica prodotta dalla capacità delle economie di operare per lo sviluppo in modo meno condizionato dai debiti e dai mercati. La BCE dovrebbe mantenere l'autorità di imporre il vecchio pagamento degli interessi sul debito ad un Paese che intendesse continuare con la pratica del debito facile.

Una simile operazione si combinerebbe perfettamente con il programma annunciato timidamente dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker, di lanciare investimenti pubblici in infrastrutture, modernizzazioni e nuove tecnologie per 300 miliardi di euro in un periodo di 3 anni.

Finalmente i governi sarebbero meno dipendenti e pressati dai mercati finanziari mentre i settori dell'economia reale verrebbero stimolati da nuovi investimenti.

 

Occasione unica per l’Europa

Il prossimo summit dell'Asia-Europe Meeting (ASEM) di Milano

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Il prossimo summit dell'Asia-Europe Meeting (ASEM) di Milano è differente da tutti gli altri numerosi incontri internazionali, a cominciare dal G20. Gli Stati Uniti saranno assenti. Si tratta, infatti, della conferenza dei capi di stato e di governo dell'Asia e dell'Europa.

Noi auspichiamo che questo evento sia consapevolmente trasformato dall'Unione europea e dai singoli Paesi dell'Europa in una occasione per avviare seriamente una cooperazione economica e strategica con l'intero continente euro-asiatico.

E' stato un anno di conflitti e di destabilizzazioni, purtroppo non ancora risolti, nel continente europeo, nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente. I paesi euro-asiatici però si presentano a Milano con una visione alternativa e strategica di sviluppo pacifico multipolare, con proposte concrete di riforma del sistema monetario internazionale e con programmi di ampio respiro nel settore delle infrastrutture e per la modernizzazione dei loro vastissimi territori.

La Cina ha in cantiere una serie di grandi progetti che non sono più solo sulla carta. C'è in particolare la "Silk Road Economic Belt", cioè la nuova via della seta che, passando attraverso il Kazakhstan, dovrebbe arrivare in Europa. La dirigenza cinese vorrebbe fare di Berlino il suo snodo centrale, prima di arrivare fino ai porti atlantici. Ne ha già parlato con i governanti della Germania.

La Cina ha sviluppato tutta una serie di altre vie della seta, anche in direzione Sud fino all'India. Il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente presentato al Primo ministro indiano, Narendra Modi, un piano di investimenti per 100 miliardi di dollari e la proposta di realizzare insieme una via della seta marittima che entrando nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, potrebbe agganciarsi, attraversando l'Italia, all'intera rete infrastrutturale europea.

E' da sottolineare il fatto che per finanziare simili progetti la Cina e molti altri Paesi considerati emergenti non fanno più riferimento alle vecchie istituzioni finanziarie e monetarie, come il Fmi e la Banca Mondiale. Stanno invece alacremente lavorando, ad esempio, per la costruzione della Asian Infrastructure Investment Bank.

In risposta alla pericolosa e persistente volontà degli Stati Uniti di considerarsi l'unica potenza mondiale e nel mezzo delle sanzioni americane ed europee contro Mosca per la crisi ucraina, la Cina e la Russia hanno a maggio siglato lo storico accordo di forniture russe di 38 miliardi di metri cubi di gas per un valore complessivo di 400 miliardi di dollari in trent'anni.

Come abbiamo più volte scritto, la Russia, tra l'altro, sta anche lavorando alla realizzazione della TransEuro-Asian Development Belt "Razvitie" che prevede corridoi infrastrutturali (ferrovie, strade, energia, comunicazione) dalle coste del Pacifico fino all'Europa e all'Atlantico. Si tratta di un enorme progetto. Sarà realizzabile soltanto in cooperazione tecnologica con l'Europa. Esso mira, infatti, alla creazione di nuove città, di insediamenti urbani, di qualificati centri scientifici e agroindustriali anche nella vastissima e poco abitata Siberia.

Nelle ultime settimane, Vladimir Yakunin, presidente delle Ferrovie Russe e promotore del Razvitie, è stato due volte in Cina, a Shanghai e a Lanzhou, proprio per discutere di questi corridoi di sviluppo. I rappresentanti cinesi hanno intelligentemente proposto di collegare la via della seta con il Razvitie attraverso nuovi collegamenti ferroviari.

In questa prospettiva è doveroso notare che molti di questi progetti, soprattutto quelli relativi all'energia, tendono a bypassare l'intermediazione del dollaro per essere stipulati direttamente in yuan e in rubli. Secondo gli ultimi resoconti, sulla borsa di Mosca gli scambi rublo-yuan sarebbero già decuplicati.

Ciò evidentemente accade non per una scelta estemporanea ma dopo lo storico incontro dei paesi BRICS a Fortaleza in Brasile dove, tra l'altro, fu "lanciata" la New Development Bank con un capitale iniziale equivalente a 100 miliardi di dollari.

Come si vede, il Razvitie e le varie vie della seta avrebbero il loro capolinea in Europa dove purtroppo l'Unione europea e la burocrazia di Bruxelles appaiono ancora troppo succubi e timidi nel formulare un'autonoma strategia di sviluppo e di cooperazione internazionali rispetto agli USA. Forse si pensa, come ai vecchi tempi degli imperi, di essere i primi al mondo. Così non è. La recessione e la persistente e crescente disoccupazione ce lo ricordano quotidianamente. .

Noi riteniamo che per l'Europa la via d'uscita dalla crisi, oltre agli ineludibili compiti da risolvere a casa propria da parte di tutti, sia anche nella fattiva partecipazione ai grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo sopra menzionati.

La nostra tecnologia, le nostre professionalità e la nostra imprenditorialità sono indispensabili alla realizzazione di simili progetti. E non si tratta soltanto di esportare più prodotti di alta tecnologia ma anche di partecipare direttamente ai lavori. Ciò non può che contribuire alla ripresa economica ed occupazionale anche del nostro Paese.

 

Il Secolo XIX non sarà più stampato a Genova

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

La notizia arriva nella capitale ligure ancora

alle prese con i danni dell’inondazione

Il Secolo XIX non sarà più stampato a Genova. E’ questo il primo effetto dell’accordo tra Il Secolo XIX e La Stampa. La notizia è arrivata martedì pomeriggio nel corso di una riunione tra le Organizzazioni sindacali e il responsabile del Centro stampa di San Biagio e l’amministratore delegato della Sep, società alla quale fa capo il Decimonono.

“Con questa decisione – commentano Slc Cgil e Fistel Cisl Genova – altre 55 famiglie genovesi saranno presto sulla strada”. La Slc Cgil e la Fistel Cisl stanno avviando le iniziative di mobilitazione contro “una decisione aziendale inaccettabile".

 

10.26.2014

Non c’è solo il sistema bancario

 
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
Paolo RaimondiEconomista
 
Alla recente conferenza di Napoli il governatore centrale Mario Draghi ha ribadito l'importanza delle tre operazioni di intervento finanziario della BCE a sostegno del sistema bancario. Si tratta del programma di acquisto di derivati abs, di acquisto di covered bond (obbligazioni bancarie garantite) e il programma LTRO (piani di rifinanziamento bancario a lungo termine).
    Come è noto la manovra sul tasso di interesse è ormai esaurita. Di conseguenza, ha aggiunto Draghi, con l'immissione di nuova liquidità il bilancio BCE dovrebbe risalire ai livelli del 2012 quando aveva raggiunto i 3.000 miliardi di euro circa. Il volume potenziale di nuovi acquisti sarebbe intorno a 1.000 miliardi di euro.
    Ancora una vota si tratta di interventi a favore del sistema bancario europeo che poi, bontà sua, dovrebbe o potrebbe trasformali in nuove linee di credito per le PMI e per nuovi investimenti.  Questo passaggio "obbligatorio" è giustificato dalla BCE per il fatto che in Europa l'80% del credito transita attraverso il sistema bancario.
    Secondo noi questo passaggio è invece necessario solo per la salute delle grandi banche, sempre esposte ai rischi di nuove crisi per avere continuato a mantenere certi comportamenti speculativi e poco virtuosi anche dopo il 2008.
    Un recente studio indica che a fine luglio 2014 le 100 banche europee più esposte ai rischi sistemici avevano insieme 810 miliardi di euro in titoli ad alto rischio. Soltanto 5 banche, con la Deutsche Bank in testa, ne detengono il 39%. Le banche di Francia e Gran Bretagna insieme ne detengono il 55%.
    Il 4 novembre prossimo la BCE inizierà ad attuare la vigilanza diretta sui 120 maggiori gruppi bancari dell'area dell'euro, che rappresentano oltre l'85% delle attività bancarie. Per l'occasione molto probabilmente occorreranno molte "pezze finanziarie" d'appoggio!
    Alla prova dei fatti i citati meccanismi finora non sono stati però capaci di mettere in moto una ripresa effettiva ne dell'economia ne della domanda aggregata. Infatti alla fine del 2013 i consumi privati erano del 2% inferiori a quelli del 2007 e gli investimenti privati erano sotto del 20%. Hanno retto soltanto le esportazioni.
    Nel frattempo per alcuni paesi europei il debito pubblico rischia davvero di diventare insostenibile. Nell'euro zona è in media il 95,5% del Pil. Qualora dovesse ancora aumentare esso sarebbe un fardello pesante che potrebbe frenare e ulteriormente bloccare la ripresa economica. Non si dimentichi che il pagamento degli interessi passivi sul debito sottrae notevoli risorse alle politiche economiche e sociali. Nel 2013 l'Italia ne ha pagato 95 miliardi di euro.
    In molte capitali europee però la ristrutturazione del debito pubblico è ancora un tabu in quanto è stata erroneamente e maliziosamente associata ad un presunto aiuto gratuito fatto dai Paesi sedicenti virtuosi a quelli cosiddetti spendaccioni.
    Noi riteniamo che in una tale situazione la BCE non abbia soltanto l'opzione di aiuto finanziario al sistema bancario. Essa potrebbe per esempio acquistare una parte del debito pubblico, sopra il limite del 60% del Pil indicato dai parametri di Maastricht, e tenerlo congelato al tasso di interesse zero, come indicato nel documento "Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone" preparato da economisti dell'International Center for Monetary and Banking Studies (ICMB) di Ginevra. La Bce sarebbe l'unica istituzione capace di mobilitare sufficienti risorse per una tale operazione. Se ad esempio lo si volesse fare per metà del debito pubblico europeo l'ammontare sarebbe di circa 4,5 trilioni di euro.
    La Bce dovrebbe prendere in prestito una simile cifra sui mercati finanziari in cambio di sue obbligazioni, oppure creare la liquidità interna necessaria per acquistare i debiti pubblici da ritirare. Ovviamente l'operazione, almeno inizialmente, sarebbe in perdita in quanto la BCE dovrebbe pagare gli interessi sui nuovi titoli emessi senza ricevere gli interessi dei vecchi titoli del debito pubblico dei vari Stati. 
    Non si genererebbe inflazione in quanto la BCE chiederebbe dei prestiti, oppure la liquidità creata ed usata per l'acquisto dei debiti sarebbe poi "sterilizzata" attraverso l'emissione di obbligazioni BCE. La BCE ha una sua forte credibilità sui mercati. 
    Per cui essa acquisterebbe parte del debito pubblico eccedente la quota del 60% in proporzione allo stock di partecipazione dei singoli Paesi europei al suo capitale. Essi ripagherebbero l'ammontare degli interessi per un periodo indefinito lasciando nelle casse della Banca centrale il profitto che spetterebbe loro dai proventi di signoraggio che la BCE annualmente dovrebbe distribuire agli Stati. Ciò potrebbe essere sufficiente se l'intereresse sulle nuove obbligazioni emesse dalla Banca centrale fosse contenuto.
    Molto probabilmente il costo complessivo di tale operazione della BCE non dovrebbe essere maggiore di quello che attualmente sostiene per finanziare il sistema bancario.
    In ogni caso i costi verrebbero progressivamente assorbiti anche attraverso la presumibile crescita economica prodotta dalla capacità delle economie di operare per lo sviluppo in modo meno condizionato dai debiti e dai mercati. La BCE dovrebbe mantenere l'autorità di imporre il vecchio pagamento degli interessi sul debito ad un Paese che intendesse continuare con la pratica del debito facile.
    Una simile operazione si combinerebbe perfettamente con il programma annunciato timidamente dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker, di lanciare investimenti pubblici in infrastrutture, modernizzazioni e nuove tecnologie per 300 miliardi di euro in un periodo di 3 anni.
    Finalmente i governi sarebbero meno dipendenti e pressati dai mercati finanziari mentre i settori dell'economia reale verrebbero stimolati da nuovi investimenti. 

10.21.2014

Occasione unica per l’Europa

Il prossimo summit dell'Asia-Europe Meeting (ASEM) di Milano
 
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
Paolo RaimondiEconomista
 
Il prossimo summit dell'Asia-Europe Meeting (ASEM) di Milano è differente da tutti gli altri numerosi incontri internazionali, a cominciare dal G20. Gli Stati Uniti saranno assenti. Si tratta, infatti, della conferenza dei capi di stato e di governo dell'Asia e dell'Europa.
     Noi auspichiamo che questo evento sia consapevolmente trasformato dall'Unione europea e dai singoli Paesi dell'Europa in una occasione per avviare seriamente una cooperazione economica e strategica con l'intero continente euro-asiatico.
     E' stato un anno di conflitti e di destabilizzazioni, purtroppo non ancora risolti, nel continente europeo, nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente. I paesi euro-asiatici però si presentano a Milano con una visione alternativa e strategica di sviluppo pacifico multipolare, con proposte concrete di riforma del sistema monetario internazionale e con programmi di ampio respiro nel settore delle infrastrutture e per la modernizzazione dei loro vastissimi territori.
     La Cina ha in cantiere una serie di grandi progetti che non sono più solo sulla carta. C'è in particolare la "Silk Road Economic Belt", cioè la nuova via della seta che, passando attraverso il Kazakhstan, dovrebbe arrivare in Europa. La dirigenza cinese vorrebbe fare di Berlino il suo snodo centrale, prima di arrivare fino ai porti atlantici. Ne ha già parlato con i governanti della Germania.
     La Cina ha sviluppato tutta una serie di altre vie della seta, anche in direzione Sud fino all'India. Il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente presentato al Primo ministro indiano, Narendra Modi, un piano di investimenti per 100 miliardi di dollari e la proposta di realizzare insieme una via della seta marittima che entrando nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, potrebbe agganciarsi, attraversando l'Italia, all'intera rete infrastrutturale europea.
     E' da sottolineare il fatto che per finanziare simili progetti la Cina e molti altri Paesi considerati emergenti non fanno più riferimento alle vecchie istituzioni finanziarie e monetarie, come il Fmi e la Banca Mondiale. Stanno invece alacremente lavorando, ad esempio, per la costruzione della Asian Infrastructure Investment Bank.
     In risposta alla pericolosa e persistente volontà degli Stati Uniti di considerarsi l'unica potenza mondiale e nel mezzo delle sanzioni americane ed europee contro Mosca per la crisi ucraina, la Cina e la Russia hanno a maggio siglato lo storico accordo di forniture russe di 38 miliardi di metri cubi di gas per un valore complessivo di 400 miliardi di dollari in trent'anni.
     Come abbiamo più volte scritto, la Russia, tra l'altro, sta anche lavorando alla realizzazione della TransEuro-Asian Development Belt "Razvitie" che prevede corridoi infrastrutturali (ferrovie, strade, energia, comunicazione) dalle coste del Pacifico fino all'Europa e all'Atlantico. Si tratta di un enorme progetto. Sarà realizzabile soltanto in cooperazione tecnologica con l'Europa. Esso mira, infatti, alla creazione di nuove città, di insediamenti urbani, di qualificati centri scientifici e agroindustriali anche nella vastissima e poco abitata Siberia.
     Nelle ultime settimane, Vladimir Yakunin, presidente delle Ferrovie Russe e promotore del Razvitie, è stato due volte in Cina, a Shanghai e a Lanzhou, proprio per discutere di questi corridoi di sviluppo. I rappresentanti cinesi hanno intelligentemente proposto di collegare la via della seta con il Razvitie attraverso nuovi collegamenti ferroviari.
     In questa prospettiva è doveroso notare che molti di questi progetti, soprattutto quelli relativi all'energia, tendono a bypassare l'intermediazione del dollaro per essere stipulati direttamente in yuan e in rubli. Secondo gli ultimi resoconti, sulla borsa di Mosca gli scambi rublo-yuan sarebbero già decuplicati.
     Ciò evidentemente accade non per una scelta estemporanea ma dopo lo storico incontro dei paesi BRICS a Fortaleza in Brasile dove, tra l'altro, fu "lanciata" la New Development Bank con un capitale iniziale equivalente a 100 miliardi di dollari.
     Come si vede, il Razvitie e le varie vie della seta avrebbero il loro capolinea in Europa dove purtroppo l'Unione europea e la burocrazia di Bruxelles appaiono ancora troppo succubi e timidi nel formulare un'autonoma strategia di sviluppo e di cooperazione internazionali rispetto agli USA. Forse si pensa, come ai vecchi tempi degli imperi, di essere i primi al mondo. Così non è. La recessione e la persistente e crescente disoccupazione ce lo ricordano quotidianamente. .
     Noi riteniamo che per l'Europa la via d'uscita dalla crisi, oltre agli ineludibili compiti da risolvere a casa propria da parte di tutti, sia anche nella fattiva partecipazione ai grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo sopra menzionati.
     La nostra tecnologia, le nostre professionalità e la nostra imprenditorialità sono indispensabili alla realizzazione di simili progetti. E non si tratta soltanto di esportare più prodotti di alta tecnologia ma anche di partecipare direttamente ai lavori. Ciò non può che contribuire alla ripresa economica ed occupazionale anche del nostro Paese.

10.16.2014

Occasione unica per l’Europa - Il prossimo summit dell’Asia-Europe Meeting (ASEM) di Milano

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Il prossimo summit dell'Asia-Europe Meeting (ASEM) di Milano è differente da tutti gli altri numerosi incontri internazionali, a cominciare dal G20. Gli Stati Uniti saranno assenti. Si tratta, infatti, della conferenza dei capi di stato e di governo dell'Asia e dell'Europa.

Noi auspichiamo che questo evento sia consapevolmente trasformato dall'Unione europea e dai singoli Paesi dell'Europa in una occasione per avviare seriamente una cooperazione economica e strategica con l'intero continente euro-asiatico.

E' stato un anno di conflitti e di destabilizzazioni, purtroppo non ancora risolti, nel continente europeo, nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente. I paesi euro-asiatici però si presentano a Milano con una visione alternativa e strategica di sviluppo pacifico multipolare, con proposte concrete di riforma del sistema monetario internazionale e con programmi di ampio respiro nel settore delle infrastrutture e per la modernizzazione dei loro vastissimi territori.

La Cina ha in cantiere una serie di grandi progetti che non sono più solo sulla carta. C'è in particolare la "Silk Road Economic Belt", cioè la nuova via della seta che, passando attraverso il Kazakhstan, dovrebbe arrivare in Europa. La dirigenza cinese vorrebbe fare di Berlino il suo snodo centrale, prima di arrivare fino ai porti atlantici. Ne ha già parlato con i governanti della Germania.

La Cina ha sviluppato tutta una serie di altre vie della seta, anche in direzione Sud fino all'India. Il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente presentato al Primo ministro indiano, Narendra Modi, un piano di investimenti per 100 miliardi di dollari e la proposta di realizzare insieme una via della seta marittima che entrando nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, potrebbe agganciarsi, attraversando l'Italia, all'intera rete infrastrutturale europea.

E' da sottolineare il fatto che per finanziare simili progetti la Cina e molti altri Paesi considerati emergenti non fanno più riferimento alle vecchie istituzioni finanziarie e monetarie, come il Fmi e la Banca Mondiale. Stanno invece alacremente lavorando, ad esempio, per la costruzione della Asian Infrastructure Investment Bank.

In risposta alla pericolosa e persistente volontà degli Stati Uniti di considerarsi l'unica potenza mondiale e nel mezzo delle sanzioni americane ed europee contro Mosca per la crisi ucraina, la Cina e la Russia hanno a maggio siglato lo storico accordo di forniture russe di 38 miliardi di metri cubi di gas per un valore complessivo di 400 miliardi di dollari in trent'anni.

Come abbiamo più volte scritto, la Russia, tra l'altro, sta anche lavorando alla realizzazione della TransEuro-Asian Development Belt "Razvitie" che prevede corridoi infrastrutturali (ferrovie, strade, energia, comunicazione) dalle coste del Pacifico fino all'Europa e all'Atlantico. Si tratta di un enorme progetto. Sarà realizzabile soltanto in cooperazione tecnologica con l'Europa. Esso mira, infatti, alla creazione di nuove città, di insediamenti urbani, di qualificati centri scientifici e agroindustriali anche nella vastissima e poco abitata Siberia.

Nelle ultime settimane, Vladimir Yakunin, presidente delle Ferrovie Russe e promotore del Razvitie, è stato due volte in Cina, a Shanghai e a Lanzhou, proprio per discutere di questi corridoi di sviluppo. I rappresentanti cinesi hanno intelligentemente proposto di collegare la via della seta con il Razvitie attraverso nuovi collegamenti ferroviari.

In questa prospettiva è doveroso notare che molti di questi progetti, soprattutto quelli relativi all'energia, tendono a bypassare l'intermediazione del dollaro per essere stipulati direttamente in yuan e in rubli. Secondo gli ultimi resoconti, sulla borsa di Mosca gli scambi rublo-yuan sarebbero già decuplicati.

Ciò evidentemente accade non per una scelta estemporanea ma dopo lo storico incontro dei paesi BRICS a Fortaleza in Brasile dove, tra l'altro, fu "lanciata" la New Development Bank con un capitale iniziale equivalente a 100 miliardi di dollari.

Come si vede, il Razvitie e le varie vie della seta avrebbero il loro capolinea in Europa dove purtroppo l'Unione europea e la burocrazia di Bruxelles appaiono ancora troppo succubi e timidi nel formulare un'autonoma strategia di sviluppo e di cooperazione internazionali rispetto agli USA. Forse si pensa, come ai vecchi tempi degli imperi, di essere i primi al mondo. Così non è. La recessione e la persistente e crescente disoccupazione ce lo ricordano quotidianamente. .

Noi riteniamo che per l'Europa la via d'uscita dalla crisi, oltre agli ineludibili compiti da risolvere a casa propria da parte di tutti, sia anche nella fattiva partecipazione ai grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo sopra menzionati.

La nostra tecnologia, le nostre professionalità e la nostra imprenditorialità sono indispensabili alla realizzazione di simili progetti. E non si tratta soltanto di esportare più prodotti di alta tecnologia ma anche di partecipare direttamente ai lavori. Ciò non può che contribuire alla ripresa economica ed occupazionale anche del nostro Paese.