11.25.2015

Antalya, l’ennesima occasione mancata

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

 

Il bilancio del G20 ospitato in Turchia è deludente e conferma ancora una volta come le proposte e le richieste del mondo del lavoro siano considerate dai leader del pianeta come un poco rilevante corollario nell'agenda delle priorità

 

di Fausto Durante, coordinatore dell'area politica europea e internazionale della Cgil

 

La sintesi giornalistica potrebbe essere questa: un G20 deludente e caratterizzato dalla spinta al rinvio. Per la maggior parte, infatti, i commenti dei principali organi di informazione e della stampa internazionale (in Italia è stato il Sole-24 Ore a farsi interprete del sentiment) convergono sul fatto che il G20 appena svoltosi ad Antalya abbia sostanzialmente spostato in avanti il tempo delle decisioni sulle principali questioni economiche e sociali nello scenario mondiale.

    Un'impressione che i sindacati dei paesi del G20, riunitisi nei due giorni precedenti il vertice, avevano cominciato a maturare nel loro incontro, sulla base di quanto emerso sia nei contatti con gli sherpa e i funzionari che per i singoli paesi hanno seguito il lavoro preparatorio, sia nei colloqui svoltisi alla vigilia del summit nel corso di Labour 20. A una lettura obiettiva, il documento conclusivo di Antalya non pare avere il respiro e l'ambizione necessari per affrontare una situazione generale ancora caratterizzata dalla caduta dei tassi di crescita, dall'aumento delle disuguaglianze e delle disparità salariali, da bassi livelli di investimenti e dal permanere dell'emergenza disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile. In quel documento, le richieste e le priorità di L20, presentate ai leader riuniti in Turchia e definite sulla base del permanere delle criticità irrisolte nello scenario globale, non hanno trovato risposte adeguate.

    Il primo capitolo delle priorità dei sindacati ha per oggetto i temi della crescita inclusiva con la creazione di lavoro a essa collegata, da realizzare attraverso l'abbandono definitivo delle politiche di austerità e delle loro conseguenze negative, politiche da sostituire con scelte in grado di produrre un deciso impulso alla domanda aggregata, agli investimenti, all'innovazione tecnologica, in un quadro contrassegnato da politiche redistributive e tassazione progressiva. Di conseguenza, ciò richiederebbe la revisione e l'aggiornamento delle strategie nazionali in tema di crescita e di occupazione. Più in particolare, servirebbe il rilancio del ruolo degli Stati nazionali, per definire iniziative concrete e coordinate di valorizzazione del lavoro e delle sue condizioni, di supporto al dialogo sociale e ai sistemi di relazioni industriali, di politiche attive del lavoro e dei servizi per l'impiego, di qualificazione dell'offerta relativa alla formazione e alla riqualificazione professionale.

    Il secondo capitolo delle richieste sindacali è quello che riguarda potenzialità e ruolo della contrattazione collettiva, come motore della lotta alle disuguaglianze e di una più equa distribuzione della ricchezza e come fattore determinante della crescita e del benessere generale. La nostra richiesta era e rimane quella di invertire la tendenza, invalsa da ormai due decenni, all'indebolimento e al depotenziamento della contrattazione collettiva. Al contrario, occorre restituire a essa la capacità di far crescere i salari e il reddito complessivo dei lavoratori e, in tal modo, immettere risorse nel ciclo economico attraverso l'aumento del potere d'acquisto. Come è chiaro, ciò richiede la promozione e il rilancio della dimensione collettiva della contrattazione e del grado di copertura degli accordi, oltre che l'inclusione nei contratti delle forme di lavoro precario e non standard e il contrasto ai fenomeni di individualizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro.

    Il terzo capitolo ha al centro la richiesta di politiche e di azioni concrete per l'inclusione nel mercato del lavoro delle donne, dei giovani e dei gruppi più vulnerabili, dai lavoratori atipici a quanti sono occupati nel lavoro informale e in quello irregolare. Riguardo a quest'ultimo aspetto, abbiamo reiterato le nostre storiche richieste affinché nelle catene della subfornitura e degli appalti sia garantita l'applicazione degli standard internazionali e i diritti umani previsti dai principi delle Nazioni Unite, dalle convenzioni Oil e dalle linee guida Ocse sulle multinazionali.

    Allo stesso modo, abbiamo chiesto impegni tangibili per realizzare la strategia 25 by 25 sull'occupazione femminile e i principi – ancora lettera morta, pur essendo stati stabiliti nelle precedenti riunioni del G20 – su Youth Employment e sul dramma dei Neet, i tanti giovani che non lavorano, non studiano e non hanno percorsi di professionalizzazione. Non solo. Abbiamo anche chiesto che siano confermati gli impegni assunti nelle precedenti riunioni del G20 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e che venga attivato il processo per la creazione di un database in grado di coprire l'insieme di eventi, incidenti e malattie di lavoro, anche come base per politiche di prevenzione. >>>Continua la lettura sul sito rassegna.it

 

11.18.2015

Crolla il prezzo dell’acciaio - Occorre un “Piano B” per i lavoratori di Taranto

LETTERA - APPELLO

 

 PeaceLink chiama a raccolta le persone di buona volontà per elaborare un piano B dettagliato e praticabile che faccia uscire la città di Taranto dalla crisi irreversibile dell'Ilva. Taranto può e deve diventare un laboratorio nazionale e internazionale di idee per la riconversione. Chi ha idee da proporre ci contatti (volontari@peacelink.it).

    I punti di partenza del nostro ragionamento sono questi.

    1) Il mercato dell'acciaio è in fase recessiva ed è caratterizzato da un eccesso di capacità produttiva. Negli ultimi 12 mesi il prezzo dell'acciaio sul mercato internazionale è crollato del 45% per le esportazioni cinesi.

    2) Di fronte a questo scenario lo stabilimento siderurgico ILVA sarà sconvolto da un'ondata di crisi che ha portato già altre acciaierie alla chiusura. La situazione finanziaria dell'ILVA è caratterizzata dal fatto che l'azienda non produce più profitti ma unicamente perdite che si stanno sommando ai debiti verso le banche e verso i fornitori. ILVA ha 14 mila lavoratori, 20 mila creditori e tre miliardi di debiti.

    3) La situazione è diventata insostenibile. Se l'azienda non produce più profitti ma perdite vengono meno le condizioni per la realizzazione degli interventi di risanamento degli impianti. L'ILVA è in coma farmacologico e viene mantenuta in vita solo con decreti legge che hanno solo un effetto palliativo.

    4) Fra alcuni mesi l'ILVA chiuderà e sarà la fine di un modello di sviluppo che si è centrato sulla monocultura dell'acciaio. Questa crisi gravissima dell'ILVA sta esponendo i lavoratori al rischio concreto della disoccupazione.

    5) Di fronte a questa drammatica situazione è saggio confrontarci su un Programma di transizione di sostenibilità ambientale che si alimenti anche con i Fondi Europei che nel sud dell'Italia spesso non vengono utilizzati dalle amministrazioni pubbliche.

    6) E' possibile riconvertire l'economia locale attraverso fondi europei. I fondi non mancano. Prova ne è il fatto che i 2 miliardi di euro del "Programma Attrattori Culturali", destinati a migliorare l'offerta culturale nelle Regioni del Sud, non sono stati spesi e sono ritornati a Bruxelles. Uno spreco proprio mentre il nostro patrimonio storico e culturale cade a pezzi. Secondo una ricerca Eurispes, l'Italia utilizza i fondi europei solo al 45%. Attualmente sono a rischio contributi europei per 14,4 miliardi di euro. Solo Croazia e Romania fanno peggio.

    7) La crisi dell'ILVA deve diventare l'occasione per sfruttare al massimo questa ingente quantità di fondi per realizzare un progetto complessivo di riconversione che garantisca l'occupazione dei lavoratori ILVA offrendo nel contempo ai giovani disoccupati una concreta prospettiva di impiego diventando i protagonisti della riconversione, della bonifica e della rinascita.

    8) Creare lavoro senza inquinare è possibile e lo dimostrano le esperienze di Pittsburgh, Friburgo, Bilbao, Hammarby Sjostad (Stoccolma) e della Ruhr. Tutti esempi in cui bonifica, riconversione e green economy hanno creato sviluppo e lavoro senza generare inquinamento. Sono proprio le nazioni e le città che inquinano di meno che creano più occupazione.

    9) Occorre creare ponti di comunicazione con le città che sono riuscite a riconvertirsi. PeaceLink ha preso contatto con gli ambientalisti di Pittsburgh per capire come quella città è riuscita a sopravvivere alla crisi dell'acciaio e a far rinascere la propria economia. Pittsburgh è stata riconosciuta come una delle tre città americane che meglio ha superato la crisi recessiva dello scorso decennio. Il sindaco di Pittsburgh ha dichiarato: "We employ more people in Pittsburgh than we ever have". Ossia: "Noi impieghiamo più persone a Pittsburgh di quante non ne abbiamo mai avute"). Proprio così. Da quando hanno chiuso l'acciaieria sono usciti dalla crisi. PeaceLink è in contatto con Pittsburgh per un interscambio di esperienze sul monitoraggio dell'aria. Stiamo cercando di imparare dalle città che hanno avuto l'intelligenza di cambiare.

    10) Occorre coinvolgere i lavoratori dell'Ilva e renderli protagonisti del Piano B, anche attraverso forme di "Life long learning". Per senso di responsabilità verso i lavoratori dell'ILVA e verso tutti quei soggetti che si sorreggono sull'indotto, PeaceLink da tempo sviluppa – accanto alla critica dell'impatto inquinante dell'acciaieria – anche una parallela azione di ricerca di alternative occupazionali e di ricerca culturale. Ora questa ricerca è arrivata ad una sintesi con la stesura del "PIANO B" per Taranto. Mentre la nave sta affondando, occorre avere a disposizione le scialuppe di salvataggio. Le scialuppe già ci sono e sono i fondi europei.

    Ma occorre una grande capacità di pianificazione e di riprogettazione che attualmente manca.

    11) PeaceLink fa appello alla Camera di Commercio perché convochi un tavolo di confronto e di progettazione per uno sviluppo sostenibile alternativo e mette a disposizione il proprio PIANO B e gli studi svolti in questi anni di ricerca, anche collaborando con l'Università e con quegli studenti che hanno deciso di centrare la propria tesi di laurea su Taranto.

    12) E' venuto il momento di far partecipare a questo tavolo di confronto e di progettazione non solo gli attori istituzionali e sindacali (che hanno spesso dimostrato la propria inerzia) ma anche i giovani laureati e laureandi che hanno acquisito competenze e sono animati dal desiderio di rimanere a Taranto o di tornarvi mettendo a disposizione il proprio sapere e la propria voglia di cambiamento.

    13) Occorre coinvolgere tutte le scuole di Taranto in una seria riprogettazione dei profili professionali puntando sulle professioni del futuro, in particolare quelle collegate alla green economy che, secondo l'ONU, può creare fino a 60 milioni di nuovi posti di lavoro nei prossimi

    20 anni (cfr. http://www.peacelink.it/ecologia/a/36349.html). PeaceLink è a disposizione delle scuole (per contatti: volontari@peacelink.it) per fornire materiale didattico e tenere incontri con docenti e studenti nell'ottica di una "riprogrammazione" delle scuole tarantine in funzione di una nuova economia e di una nuova società che ponga il lavoro al servizio dello sviluppo sostenibile e del bene comune.

    14) Per i lavoratori Ilva vanno subito predisposti piani di formazione e riconversione semestrali e sistemi di certificazione delle competenze acquisite.

 

Alessandro Marescotti

Presidente di PeaceLink

http://www.peacelink.it

 

Sud: serve una politica nazionale

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

 

Alla vigilia della presentazione del "masterplan" per il Mezzogiorno del governo, la Cgil rilancia la vertenza nazionale 'Laboratorio Sud – Idee per il Paese', avviata lo scorso settembre a Potenza. L'iniziativa del sindacato di Corso d'Italia

 

Alla vigilia della presentazione del "Masterplan" per il Mezzogiorno del Governo, la Cgil rilancia la vertenza nazionale 'Laboratorio Sud – Idee per il Paese', avviata lo scorso settembre a Potenza. L'iniziativa, spiega il sindacato, articolata negli ambiti regionali e territoriali e nella dimensione nazionale, si propone di evidenziare le condizioni di criticità presenti nel Mezzogiorno e, soprattutto, di rendere visibili i possibili spazi di intervento per superare il divario che sempre più allontana le regioni del Sud dal resto del Paese. A tale fine il sindacato di corso d'Italia presenta un documento programmatico per la costruzione di una politica nazionale in grado di rafforzare le condizioni economico sociali del Mezzogiorno, favorire crescita e occupazione e permettere così una vera inversione di tendenza per tutto il Paese.

    Gli strumenti - Il nodo centrale del documento stilato dalla Cgil consiste nel coordinamento e nella partecipazione dei vari soggetti e dei vari livelli, poiché solo attraverso politiche rinnovate e il concorso delle diverse energie, a  partire dalle comunità locali e dalle loro rappresentanze, può realizzarsi un cambio di fase. Di qui l'individuazione di alcuni strumenti fondamentali di coordinamento tra politiche nazionali e regionali, e di partecipazione, che vedono il coinvolgimento delle parti sociali: un luogo formalizzato di coordinamento tra le regioni meridionali, una cabina di regia interistituzionale per l'attribuzione e la gestione delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione, e una sede stabile di confronto con le parti sociali sia nella dimensione regionale che in quella nazionale.

    Strumenti indispensabili per superare le condizioni di svantaggio riguardano la fiscalità e gli incentivi, che devono essere però selettivi e mirati, coerenti con le politiche d'intervento nei diversi settori e vincolati al carattere innovativo degli interventi con un alto profilo di ricerca e innovazione. Gli sgravi devono essere finalizzati a specifiche categorie e territori e condizionati all'addizionalità dell'occupazione.

    Altro strumento imprescindibile quello delle risorse: la Cgil chiede di incrementare quelle ordinarie, garantire il carattere addizionale dei Fondi Comunitari e l'utilizzo del Fondo Sviluppo e Coesione per finalità proprie, nel rispetto del vincolo territoriale e abbandonando l'abituale pratica di destinare tali risorse per coprire politiche ordinarie. Individuare una tempistica coerente rappresenta uno strumento fondamentale di programmazione: l'orizzonte per un piano nazionale di azione per il Mezzogiorno è quello quinquennale 2016-2020, all'interno del quale devono essere previste risorse certe e specifici tempi per il loro utilizzo.

    Vi è poi l'annoso tema delle infrastrutture, a metà tra lo strumento necessario a scalfire e superare il gap nella mobilità di cose e persone e la scelta strategica decisiva per lo sviluppo. Gli interventi proposti dalla Cgil guardano ad ambiti quali la portualità e la logistica, di cui occorre sviluppare capacità e competitività, l'energia, di cui è necessario abbattere i costi, e il territorio, con un Piano Anti dissesto idrogeologico nazionale.

    Le scelte strategiche - Tre per la Cgil gli obiettivi prioritari di una politica per il Mezzogiorno. Al primo posto dotare le regioni del Sud di infrastrutture sociali: contrasto alla povertà, servizi ai cittadini e per il lavoro, Istruzione e formazione, efficienza della Pubblica Amministrazione sono ambiti in cui il divario esistente con il resto del Paese incide profondamente sui diritti di cittadinanza. Per questo la Cgil ritiene indispensabile programmare da subito interventi che possano invertire la tendenza e che sono essi stessi generatori di occupazione. Asili nido e servizi per gli anziani e la non autosufficienza, Reddito di Inclusione Sociale come strumento universale di contrasto alla povertà, risorse aggiuntive per il diritto allo studio e legge quadro nazionale, rafforzamento delle università meridionali a partire da un piano straordinario per il reclutamento di docenti e giovani ricercatori: questi i nodi principali.

    Occorrono poi scelte sulle politiche industriali del Paese, che devono guardare al Sud per valorizzare la sua vocazione manifatturiera rafforzando gli insediamenti esistenti, presidi di eccellenza per settori strategici che vanno dalla siderurgia all'agricoltura, e riutilizzando o riconvertendo le aree dismesse, con particolare attenzione alla sostenibilità ambientale e all'alto tasso di innovazione e ricerca. Un quadro complesso che necessita di un forte protagonismo delle grandi imprese a partecipazione pubblica e di una governance multilivello Stato-Regioni.

    Per la Cgil è necessario fare leva su cultura, territorio e turismo: un patrimonio immenso del nostro Paese e del Mezzogiorno che non viene fatto fruttare a pieno ma che può trasformarsi in una fonte vitale per economia e lavoro. Il sindacato di corso d'Italia propone l'assunzione straordinaria di giovani per la tutela e la fruibilità del patrimonio culturale e paesaggistico, un Piano cultura e turismo per il Sud e l'individuazione di venti poli turistici prioritari.

    Questa impostazione richiede alcuni interventi che non determinano costi aggiuntivi, come il coordinamento inter-istituzionale. Altri possono essere previsti subito, a partire dalla Legge di Stabilità, mentre quelli di medio termine devono trovare supporto nel prossimo Documento di economia e finanza. Tra i secondi la Cgil indica gli incentivi condizionati a nuova occupazione da rivolgere a specifiche categorie e/o al forte contenuto di innovazione e ricerca delle attività; le risposte al diritto allo studio; il rafforzamento del sistema universitario del Sud; l'incremento delle risorse per le politiche ordinarie e l'attribuzione delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione agli obiettivi strategici, mantenendo il vincolo territoriale, e per il sostegno alla realizzazione del piano di infrastrutture.

    È evidente che un progetto che ha questi tratti deve prevedere un forte coinvolgimento delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori: pensare che il lavoro, la sua qualità e qualificazione non siano oggetto di confronto e non siano parte integrante di un piano strategico di sviluppo e di crescita, significa affrontare il tema in modo parziale.

 

11.04.2015

La finanziaria del 2016 - Tra propaganda e recessione

La finanziaria del 2016 corrisponde a quanto dichiarato dal Capo del Governo, e cioè che è una norma volta a favorire lo sviluppo?

 

di Dario Allamano,

Labouratorio Buozzi Torino, Aderente al Gruppo di Volpedo e a Rete Socialista

 

La finanziaria del 2016 corrisponde a quanto dichiarato dal Capo del Governo, e cioè che è una norma volta a favorire lo sviluppo?

In piccola parte si, ma soprattutto è una finanziaria molto attenta al breve periodo, alla propaganda utile per una eventuale campagna elettorale, che rinvia a tempi lontani il necessario risanamento dei conti italiani, unica soluzione per riconsegnare all’Italia le leve per avere risorse da redistribuire e da investire, e per poter realmente avviare il circolo virtuoso della “domanda aggregata”. 

    A tutt’oggi il costo del debito è superiore a più di 80 miliardi di euro annui, e per il pagamento degli interessi si utilizzano risorse pubbliche che dallo Stato vanno ai sottoscrittori del debito. È un atto che conferma che la redistribuzione c’è, ma sta avvenendo in una direzione prevalente: verso le grandi strutture finanziarie.

    Proviamo a spulciare nei vari capitoli che il capo del Governo ha magnificato e cerchiamo di capire perché non si può dire che questa finanziaria provveda ad una equa redistribuzione delle poche risorse disponibili.

    Innanzitutto il primo dato che balza all’occhio è che è una manovra basata soprattutto su un aumento del debito, un 2,2% virtuale di deficit , che, se non riequilibrato da un consistente sviluppo economico (una crescita del PIL superiore all’1,5%), non genererà nuove risorse, trasformandosi inevitabilmente in un ulteriore aumento del debito.  

    Il secondo atto messo in cantiere, l’abolizione di IMU e TASI, conferma la direzione sbagliata (o meglio propagandistica) di questa finanziaria. È sbagliata sia dal punto di vista finanziario, perchè sottrae agli Enti Locali le uniche fonti di reddito autonome, sia dal punto di vista politico: è l’ennesima operazione centralizzatrice messa in atto in questi anni, che consegna  nelle mani del Governo un formidabile mezzo di pressione: la copertura (promessa) del mancato gettito con fondi pubblici. Gli Enti Locali saranno sempre di più terminali del potere esecutivo e sempre meno Enti autonomi.

    Taluni obietteranno che il caso Roma (ma non solo) autorizza questo “commissariamento” di fatto dei Comuni. Anche in questo caso però la soluzione doveva essere più autonomia e più responsabilità e meno ristorni dal centro. L’esperienza di questi anni dovrebbe averci insegnato che le coperture dei deficit a piè di lista (casi Roma, Napoli ecc.) non hanno mai funzionato. Solo la responsabilità di dover richiedere ai residenti sul proprio territorio le fonti necessarie per coprire i buchi (e le buche) può rendere responsabili quegli amministratori che vivono di spese ad libitum.

    L’abolizione di IMU E TASI  è poi un problema anche da punti di vista dell’ipotetico rilancio dei consumi, la quota di imposte risparmiata è bassa, soprattutto per chi avrebbe bisogno di redditi aggiuntivi per riprendere a consumare di più e meglio. La media nazionale è di 180 euro pro capite, per cui molto limitata, ma soprattutto perché, come dice Banca d’Italia, è percepita come una imposta ballerina, e l’eventuale risparmio tende ad essere accantonato a copertura di future nuove tasse.

    Sarebbe stato molto più serio, ed in grado di incidere molto di più sui consumi (e sull’evasione), un intervento sull’IVA che oggi ha raggiunto aliquote in grado di uccidere qualsiasi propensione al consumo, e nel contempo agevola i furbetti dell’evasione. Alzi la mano chi non ha mai ricevuto in Italia la tipica domanda dall’evasore di turno: “vuole la fattura o no? Se la vuole il servizio costa il 20% in più”. Personalmente sono sempre più convinto che nell’ultimo passaggio, dal fornitore di servizi al consumatore, l’IVA debba avere una aliquota bassissima, meglio ancora nessuna aliquota. È forse tempo di ritornare a ripensare la vecchia IGE (Imposta Generale sulle Entrate) in vigore sino al 1973, che faceva pagare l’imposta sul giro d’affari. Una Imposta sulle attività economiche l’Italia la si sta tra l’altro sperimentando da anni sulla pelle delle aziende che non possono eludere l’emissione della fattura, si chiama IRAP.

    Mantenendo poi in vigore (invece di eliminarlo) l’obbligo di pagamenti tracciabili per le transazioni superiori ai 1000 euro, e l’obbligo della ricevuta (o scontrino fiscale di revigliana memoria) per quelle fino a 1000, si riuscirebbe a tracciare, se non a definire con precisione, i giri d’affari di quella “buona borghesia” dell’evasione (dentisti, cliniche private ecc.), che ognuno di noi conosce ma non ha la forza di denunciare.

    La cancellazione di quell’obbrobrio delle clausole di salvaguardia della finanziaria del 2015 (aumento di IVA e accise al mancato raggiungimento degli obiettivi) è solo un fatto di semplice buon senso, non la si può spacciare come azione per il “rilancio” dello sviluppo, comunque anche in questo caso la cancellazione avviene a “debito” utilizzando quell’aumento di deficit che l’Europa ci concede.

    A questo punto immagino che leggendo questa mia riflessione molti penseranno che il sottoscritto si è iscritto al club dei tedeschi (a parte il fatto che già il mio cognome può essere sospetto) , ebbene io credo che solo uno Stato non sottoposto al ricatto dei sottoscrittori del debito può avere una sua vera autonomia. Non è l’euro che ci uccide, bensì l’aver finanziato, in nome di un keynesismo d’accatto, spese improduttive ed una burocrazia pervasiva ed inefficiente. 

Il non aver saputo fare per tempo quelle operazioni necessarie nel momento in cui spariva l’unica leva che per decenni aveva “salvato” l’Italia: le svalutazioni competitive che davano fiato all’export italiano, ha contribuito e non poco all’affossamento della nostra economia.. È questo l’errore tremendo che i governi che si sono susseguiti in questi  vent’anni hanno scaricato sulle spalle degli italiani, non aver raccontato la verità ai cittadini, imbonendoli come Berlusconi (o rabbonendoli come Prodi) sull’idea di vivere in un paese tra i più solidi nel mondo.

    In conclusione oggi ci troviamo di nuovo di fronte ad una ennesima manovra fintamente “espansiva”, utile al massimo per una buona propaganda a base di slides, ma non in grado di portare l’Italia fuori dal tunnel, anche perché, se sono vere le ipotesi di prossima recessione, derivante dalla latente crisi cinese e dal suo impatto sui consumi globali, tutto il castello costruito in questi mesi rischia di rivelarsi per quel che è: un castello di sabbia.

 

Privatizzare le Ferrovie?

Da l’Unità online

http://www.unita.tv/

 

 

I dubbi della Uil in vista della privatizzazione di Ferrovie dello stato, la Uil organizza una tavola rotonda ed espone le proprie criticità. Uil-trasporti avverte: nel giro di dieci anni si rivelerà un’operazione in perdita

 

Archiviata la privatizzazione di Poste italiane, il cui esito ha portato nelle casse dello stato 3,4 miliardi di euro, il governo sta già pensando a Enav e Ferrovie dello Stato. Nel disegno complessivo di Palazzo Chigi, le prossime privatizzazioni serviranno a ridurre il debito pubblico, come promesso anche all’Ue, e renderanno più efficienti le aziende coinvolte, aumentandone la produttività.

    Tuttavia, “privatizzando le Ferrovie dello stato – denuncia il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo a Unità.tv – non si tiene conto dei costi sociali connessi”. “Ho qualche dubbio che tramite questa operazione si possa raggiungere il collegamento con la popolazione più debole” sottolinea il sindacalista a margine del convegno di Uiltrasporti che si è tenuto stamane a Roma.

    Nell’incontro dal titolo ‘Privatizzazione del Gruppo FSI: dove va la ferrovia?’, organizzato dal sindacato di categoria dei trasporti, si è discusso sull’utilità di privatizzare o meno le Ferrovie dello stato; una tavola rotonda in cui l’organizzazione sindacale ha espresso la propria contrarietà a un eventuale spacchettamento del gruppo, invitando Ferrovie e governo a un ripensamento.

     “Quando le privatizzazioni si fanno per fare cassa – evidenzia Barbagallo – vuol dire che non sono tarate per sviluppare il trasporto ferroviario di questo paese“. “Piuttosto – aggiunge – bisogna eliminare gli sprechi, le ruberie e non far pagare il trasporto pubblico locale a prezzo di mercato”

    Quanto alla maggiore competitività che si potrebbe raggiungere con la privatizzazione, il leader della Uil spiega che “nel gruppo è stata già fatta un aziendalizzazione, tant’è che si è recuperata efficienza, competitività, ed economicità”.

    Le criticità di Barbagallo vengono poi ribadite anche dal segretario generale di Uiltrasporti, Claudio Tarlazzi: “Riteniamo che nel giro di 10 anni la privatizzazione delle Ferrovie si rilevi un’operazione in perdita per lo stato, soprattutto perché gli utili non verranno più reinvestiti nella rete per ammodernarla, nell’interresse del Paese. Se cedessimo il 40% dell’azienda – aggiunge Tarlazzi -, gli utili generati verrebbero infatti redistribuiti agli azionisti”.

 

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Lo smart work nella legge di stabilità

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

  

Attorno al telelavoro (smart work) qualcosa si muove. Dopo molti anni in cui le parti sociali hanno preferito stipulare accordi nazionali, locali e di impresa, temendo che ogni legge avrebbe irrigidito una forma di lavoro da sperimentare

 

di Patrizio Di Nicola

 

Tra le molte innovazioni presenti nella legge di stabilità 2016 vi è anche la possibilità per le aziende di utilizzare una nuova forma di prestazione lavorativa, definita “lavoro agile”, che consiste nello svolgere la propria opera fuori dei locali dell’azienda, sfruttando l’elevato livello di digitalizzazione che caratterizza ormai una grande quota di attività produttive. L’articolato, che prende la forma di decreto collegato alla norma principale (e che per inciso innova anche le tutele previste per il lavoro autonomo, proponendosi di sanare alcune eclatanti ingiustizie previdenziali che colpiscono i professionisti senza albo), deriva in buona parte dalla proposta di legge sullo Smart Work presentato a inizio 2014 dalla deputata Alessia Mosca e altre colleghe. Tale proposta prendeva spunto a sua volta da una ricerca condotta dal Politecnico di Milano, la quale sosteneva come fosse giunto ormai il momento di andare oltre l’idea tradizionale di telelavoro, che veniva percepito come troppo “pesante” per aziende che fanno della flessibilità il loro modo di operare. Allo Smart Work faceva esplicito riferimento anche il testo originale dell’art. 14 della Riforma della Pubblica Amministrazione (Legge 7 agosto 2015, n. 124), che prevedeva il coinvolgimento di almeno il 20% del personale. Nell’iter parlamentare l’articolo ha poi perso il riferimento anglofilo, affermando invece che gli enti avrebbero dovuto utilizzare telelavoro e “nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa” per almeno il 10% del personale nei successivi tre anni.

    Insomma, attorno al Telelavoro/Smart Work/Lavoro Agile qualcosa si sta muovendo anche a livello legislativo. E ciò dopo molti anni in cui le parti sociali hanno preferito stipulare accordi nazionali, locali e di impresa, temendo che ogni legge in materia avrebbe irrigidito una forma di lavoro emergente e ancora da sperimentare, lasciando alla sola pubblica amministrazione il compito di regolare il telelavoro per i propri dipendenti in via legislativa.

    Chi scrive segue le vicende del telelavoro sin dalla metà degli anni ’90, avendone studiato vari aspetti sociologici (come ad esempio il problema dell’isolamento dei telelavoratori domiciliari o le innovazioni organizzative legate alla necessità di modificare i compiti del management intermedio) sia in Italia che con studi comparativi internazionali, e soprattutto avendo “aiutato” aziende grandi e piccole e varie pubbliche amministrazioni a implementare il telelavoro nella propria pratica organizzativa. Ciò, in qualche modo mi permette di fare alcune considerazioni sulla metamorfosi del telelavoro tra oggi, ieri e domani…. Continua la lettura sul sito rassegna.it