9.29.2015

Per limitare i danni -

Da vivalascuola riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

La “Buona Scuola” di Renzi è legge. Nonostante l’opposizione generalizzata del mondo della scuola, che si è manifestata con lo sciopero più grande della storia della scuola della Repubblica…

 

di Giorgio Morale

 

La prima puntata di vivalascuola del nuovo anno scolastico presenta un augurio di Marina Boscaino, un riepilogo, per FAQ, della legge 107 da parte di Carmelo Palladino, una filastrocca del primo giorno di scuola di Mauro Presini, un quadro dell’opposizione alla scuola di Renzi e informazioni per limitare i danni della legge:

 

https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2015/09/14/vivalascuola-199/

 

Quindi la “Buona Scuola” di Renzi è legge. Nonostante l’opposizione generalizzata del mondo della scuola, che si è manifestata con lo sciopero più grande della storia della scuola della Repubblica, il blocco pressoché totale degli scrutini, dichiarazioni di intellettuali, appelli al Presidente della Repubblica affinché cogliesse gli elementi di incostituzionalità presenti nella legge.

    E adesso? Adesso cominciamo un nuovo anno scolastico, con la consapevolezza che le leggi possono essere contrastate sia con la lotta sia con le vie legali. Con le pratiche di corretta informazione, resistenza e disobbedienza civile. Che le leggi devono essere applicate e le modalità della loro applicazione vengono determinate dal comportamento delle parti coinvolte, caso per caso, scuola per scuola, contrattazione per contrattazione. Con la consapevolezza che i governi passano mentre la scuola rimane. Rimane come un “organo costituzionale“, come la definì Piero Calamandrei, quasi un quarto potere dello Stato.

Quando torniamo a scuola, quando entriamo nelle aule, ricordiamoci di questo potere.

Grazie dell'attenzione, e un caro saluto, con l'augurio di una buona ripresa.

Giorgio

 

 

Le idee - TRA FISCO ED ECONOMIA, MOLTE PAROLE E POCHI FATTI

 

di Dario Allamano -  Labouratorio Buozzi Torino - Gruppo di Volpedo – Rete Socialista

 

Da un po’ di tempo anche in Italia si è ripreso a discutere di imposte e tasse, in genere chi fa proposte le fa per mandare messaggi politici di chiara matrice propagandistica ed in Italia la materia più facile che esiste è la CASA, bene di proprietà per l’85% degli italiani, per cui tutti i cosiddetti leaders populisti (da Berlusconi a Renzi) si impegnano a cancellare le tasse sulla casa.

    Innanzitutto occorre essere chiari, la casa non è di un sol tipo, esiste l’alloggio popolare da un lato e l’alloggio di lusso dall’estremo opposto, ma, e qui si vede l’insipienza dei politici, se l’alloggio popolare e quello di lusso hanno lo stesso numero di vani per il Catasto Immobiliare cambia la categoria ma sono uguali, senza parlare degli alloggi popolari dei centri storici che nel tempo si sono trasformati in alloggi di lusso mantenendo però la stessa rendita catastale.

    Il primo atto da fare, se il Governo fosse davvero riformista, dovrebbe rivedere a fondo il sistema catastale, Renzi ne ha parlato alcuni mesi fa ma poi ha accantonato la questione, troppo difficile da maneggiare (anche se lui è un gran maneggione), meglio proporre l’eliminazione di TASI ed IMU con buona pace dei Comuni che, con il rumoroso silenzio dell’ANCI (Ass. Naz. Comuni Italiani), si vedono scippate le uniche risorse certe, in cambio di un generico impegno del Governo di ristornare una quota uguale a quella eliminata, magari con il tacito aumento di qualche altra tassa.

    Le imposte sulle abitazioni sono, tutto sommato, sostenibili, incidono per una media di 250 euro l’anno (con un max di circa 400 per Torino), l’equivalente di un caffè al giorno, mentre non si fa caso, e nessuno ne parla, di quanto si deve pagare con IRPEF e IVA, le vere sanguisughe che svuotano le tasche degli Italiani.

    L’IVA svuota i portafogli in modo “egualitario”(tutti pagano allo stesso modo, ricchi o poveri che siano), l’Imposta sui Redditi in modo “asimmetrico”, con un  salto di ben 11 punti in percentuale (dal 27 al 38) tra il secondo ed il terzo scaglione, ed in quello scaglione sono compresi ormai anche i lavoratori dipendenti e, naturalmente, quello che fu il mitico ceto medio del novecento.

    Tutti lo rimpiangono il “fu ceto medio”, era quello che faceva girare i consumi, che consentiva all’economia italiana di progredire, ma oggi nessuno fa niente per ricostruire una struttura sociale meno polarizzata, tra “poveri veri” da un lato ed una piccola minoranza di “ricchi rentiers” dall’altra.

    Sarebbe utile ripensare gli insegnamenti di J.M. Keynes e ricordare che è la domanda di beni e servizi quella che fa girare l’economia reale, non l’offerta; si può offrire quanto si vuole, ma se non ci sono soldi per comprare l’offerta resta al palo, a prescindere dalla mitica “produttività” di cui tutti si sciacquano la bocca (compresi alcuni sindacalisti).

    Oggi non serve produrre di più, occorre produrre meglio, è la qualità del prodotto che fa la differenza, è inutile rincorrere al ribasso il costo del lavoro, ci sarà sempre qualcuno che è disponibile a lavorare per un salario inferiore. Sono ormai tanti i casi-scuola sulla questione qualità, il più noto è quello FIAT che ha cambiato sostanzialmente pelle, da azienda produttrice di auto di “segmentoB” (le utilitarie per capirci) a produttore di auto di alta gamma e qualità, è stato un salto non indolore per Torino che non vedrà mai più le file ai cancelli di Mirafiori.

    Quello lanciato dalla FCA (abituiamoci a chiamarla così anche se non ci piace) è un segnale utile per chi vuol capire, l’Italia se vuole rinascere deve puntare sul proprio know how, sulla sua capacità di produrre cose belle e buone, su un “made in Italy” reale, che certifica che il prodotto nasce davvero in Italia e non sia invece, come per anni è avvenuto, soprattutto con le griffes dell’abbigliamento, un’etichetta attaccata su giacche e maglie prodotte altrove, magari sfruttando i lavoratori bengalesi o dell’est europeo.

    Come si vede i temi buoni per rilanciare l’Italia esistono, evitiamo di perderci nell’inseguimento delle tirate propagandistiche, buone magari per preparare una eventuale campagna elettorale, non certo per rilanciare questo povero paese.

 

9.15.2015

Senza nulla togliere all’alto valore umano - La svolta tedesca è frutto di saggia programmazione

Da CRITICA LIBERALE

riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

di Giovanni La Torre

 

Senza nulla togliere all'alto valore umano della decisione tedesca di aprire finalmente le frontiere, pensiamo che quella decisione sia anche il frutto di una saggia politica di programmazione demografica. Di colpo, la Germania, dal non voler condividere con l'Italia e la Grecia i migranti che sbarcavano, ha annunciato che quest'anno ne accetterà 800 mila (Merkel) e nei prossimi anni 500 mila all'anno (Gabriel). Si tratta con ogni evidenza di una decisione già assunta da tempo che attendeva il momento opportuno per assere resa pubblica, fatta accettare dalla popolazione e attuata. Il momento "opportuno" purtroppo è arrivato con le immagini del povero bambino siriano ritrovato cadavere, supino e con la faccia nella sabbia, su una spiaggia turca, immagini che hanno sciolto il gelo che covava nel cuore di alcune parti della popolazione tedesca.

    La Germania condivide con l'Italia un basso indice di fertilità: 1,4 figli per donna fertile (per la precisione Germania 1,41, Italia 1,38). Come ci insegna la demografia, con un indice di fertilità simile la popolazione si dimezza in due generazioni. L'indice di 2,1 è quello che consente la stabilità della popolazione, mentre indici superiori assicurano una crescita.

    Le ultime rilevazioni dell'Istat hanno già certificato la diminuzione della popolazione italiana, che con il tempo sarà sempre più repentina, compensata finora dalla fecondità delle donne immigrate.

    Di fronte a una prospettiva demografica di questo tipo che fa un paese serio? Un paese che è consapevole di essere una potenza economica? Pianifica la compensazione, non si fa trascinare dagli eventi e dalle contingenze. Capisce che non può correre il rischio di trovarsi con un'insufficienza di braccia e di cervelli, di non avere lavoratori che versano i contributi per pagare le pensioni a chi non lavora. E allora apre le frontiere e avvia programmi di formazione e di inserimento nella comunità (hanno già stanziato 9 miliardi di euro,a ulteriore prova che era già tutto programmato). Questo fa un paese serio. Un paese in declino invece si fa trascinare dagli eventi, senza alcuna scelta consapevole, oppure si oppone agli eventi stessi, come la Gran Bretagna. Paesi corrotti poi, come l'Italia, utilizzano anche questi eventi per alimentare la mangiatoia per gli amici e gli amici degli amici, per le cooperative e per tutto quanto sta a lato della politica e che sorregge economicamente questa classe dirigente corrotta e inetta ("con gli immigrati si guadagna più che con la droga", diceva il capo della cooperativa).

    Renzi continua a dire che non siamo più un problema per l'Europa e che siamo tornati a far parte del gruppo guida dell'Ue. Ma di cosa ciancia i bullo fiorentino? Basta vedere come stanno maturando i nuovi orientamenti proprio in tema di immigrazione, che ci avrebbe dovuti vedere in prima fila, e invece sono scaturiti dai soliti incontri bilaterali franco - tedeschi.

    Ormai la Germania sta consolidando la propria egemonia in Europa ed è l'unica che dimostra di avere la vista lunga. Purtroppo questa leadership non viene sempre esercitata nell'interesse comune europeo, ma tant'è. Dopo aver digerito l'unificazione nel giro di qualche anno (noi non ci siamo ancora riusciti in più di 150 anni) regalando ai concittadini dell'Est il cambio 1:1, dopo aver accolto la maggior parte dell'immigrazione dall'ex impero sovietico, oggi si appresta ad aprire una terza fase di espansione attirando nuova forza e nuove energie. Conoscendo i tedeschi, e la loro storia degli ultimi decenni, resta qualche preoccupazione circa il probabile ulteriore incrudimento della politica di austerità, per evitare ogni rischio di inflazione che ai loro occhi esiste ogni volta che nuove masse diseredate, e da rifocillare adeguatamente prima che contribuiscano alla produzione nazionale, si affacciano sull'economia del loro paese. Si tratta di preoccupazioni tipicamente tedesche, ma chi avrà la lucidità e la forza di opporvisi e farle correggere?

 

 

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9.07.2015

Si ritorna a temere una crisi sistemica

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

La vertiginosa altalena sulle borse internazionali sta mettendo di nuovo in discussione la tenuta del sistema finanziario globale.

Non è l’effetto a catena del raffreddamento dell’economia cinese e la conseguente caduta dei listini di Shanghai, come molti, con una certa dose di opportunismo, vorrebbero spiegare. Si comincia invece a raccogliere i “frutti velenosi” seminati dai “quantitative easing” della Federal Reserve, della Bce e di altre banche centrali. Sta accadendo ciò che paventammo tempo fa su questo giornale.

Le eccezionali immissioni di nuova liquidità da parte delle banche centrali, per parecchie migliaia di miliardi di dollari, sono andate a gonfiare a dismisura i propri bilanci, a salvare le banche too big to fail in crisi e a rischio bancarotta, a comprare nuovi titoli di Paesi con crescenti debiti pubblici e a gonfiare i listini delle varie borse.

Tanta nuova liquidità aveva fatto temere una immediata esplosione inflazionistica. I grandi “gestori della crisi” sono invece stati capaci di “pilotarla” verso le borse che hanno immediatamente portato le loro quotazioni agli stessi livelli stratosferici di prima del 2007. Senza legame alcuno con l’economia sottostante in recessione.

L’inflazione in verità c’è stata, non sui prezzi ma sui valori borsistici!

Lo sottolinea anche la Banca dei Regolamenti Internazionali quando dice che “ Nonostante tutti gli sforzi per uscire dal cono d’ombra della crisi finanziaria, le condizioni dell’economia mondiale sono ancora lontane dalla normalità. L’accumulo di indebitamento e rischi finanziari, la dipendenza dei mercati finanziari dalle banche centrali e il persistere di tassi di interesse bassi: tutto questo sembra diventato ordinario. Ma solo perché qualcosa è ordinario non significa che sia normale.”

Se una malattia diventa ordinaria, cronica, non significa guarigione ne un miglioramento dello stato di salute.

I tassi di interesse negativi praticati dalle banche centrali stanno causando nuovi seri rischi finanziari. Nei primi 5 mesi dell’anno titoli di debito sovrano per oltre 2.000 miliardi di dollari sono stati scambiati a tassi negativi. Ciò ha indotto banche e grandi operatori finanziari a ricercare “l’azzardo morale” del rischio.

Per mantenere i loro impegni, a livello internazionale le assicurazioni sono in cerca di rendimenti alti anche se più rischiosi. La quota di titoli in loro possesso con rating inferiore alla A dal 2007 al 2013 è passata dal 20 al 30% del totale. Anche i fondi di investimento giocano un ruolo più aggressivo sui mercati. Già nel 2013 i mercati dei capitali e i fondi di gestione sono raddoppiati nel giro di 10 anni e manovrano 75.000 miliardi di dollari, accentuando una notevole concentrazione tanto che oggi 20 fondi controllano il 40% del mercato.

La dipendenza dei mercati finanziari dalle banche centrali e dalle loro decisioni è cresciuta pericolosamente. Esse detengono il 40% di tutti i titoli pubblici denominati nelle valute principali. Come dimostrano gli ultimi avvenimenti borsistici esse sono diventate i principali attori del mercato, non solo attraverso la fornitura di liquidità ma anche attraverso gli acquisti diretti di titoli e azioni. E’ una distorsione che rivela la irrilevanza delle politiche dei vari governi rispetto alle autorità monetarie.

Si consideri che la semplice possibilità di un aumento del tasso di interesse da parte della Fed, come accade in questi gironi, manda in fibrillazione tutti i mercati. Molti Paesi emergenti, già pesantemente minati da svalutazioni valutarie, temono una fuga di capitali verso il mercato del dollaro.

Non è un caso che nella seconda metà del 2014 il dollaro si sia rivalutato del 20% e il prezzo del petrolio sia sceso del 50%. Ci sembra che si tenti di far passare come normali i grandi rapidi cambiamenti che incidono profondamente nei rapporti economici internazionali. Nel frattempo gli investimenti delle imprese sono rimasti deboli, nonostante l’esplosione di fusioni e acquisizioni e i riacquisti di azioni proprie finanziati con emissioni obbligazionarie.

Secondo la Bri i boom finanziari e le cosiddette politiche monetarie accomodanti hanno determinato a livello globale anche la riduzione del tasso di crescita della produttività. Si calcola che la perdita della crescita di produttività media annua sia stata dello 0,4% nel periodo 2004-7 e dello 0,6% nel periodo 2007-13. Ciò sarebbe dovuto alla distorsione nel mercato del lavoro, dove la perdita di posti qualificati sarebbe parzialmente rimpiazzata da altri meno qualificati e di settori diversi. Il lavoro perso nei settori industriali sarebbe quindi in parte rimpiazzato dal terziario.

Quando la Fed iniziò il QE molti governi, come quello brasiliano e indiano, denunciarono l’inizio di una “guerra monetaria”. I nuovi capitali speculativi entrarono nei Paesi emergenti creando bolle non solo immobiliari, destabilizzando le economie locali. Allora Washington disse chiaramente che si trattava di una misura, presa nel proprio interesse nazionale, “alla quale bisognava adeguarsi”. Poi la successiva decisione della Fed di sospendere il QE provocò un’ulteriore fuga di capitali e la svalutazione delle monete dei suddetti Paesi.

Non c’è quindi da stupirsi se la Cina non vuole accettare il gioco e decide di svalutare in modo competitivo la propria moneta. Sei volte in un breve lasso di tempo!

Si rischia di nuovo una crisi sistemica, aggravata da interessi e conflitti nazionali che sembrano sempre più insanabili. Ciò accade perché, anziché decidere unitariamente in sede di G20, si continua a ritenere di poter agire da soli mentre i problemi hanno invece una oggettiva valenza e portata mondiale.

Quando la democrazia rientrò in fabbrica

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

2 settembre 1943, a poche ore dalla firma dell’armistizio con gli alleati anglo-americani, Bruno Buozzi firma con gli industriali italiani un accordo interconfederale per il ripristino delle Commissioni interne, storici organismi di rappresentanza operaia.

di Ilaria Romeo

Responsabile Archivio storico Cgil nazionale

2 settembre 1943: poche ore prima della firma dell’armistizio con gli alleati anglo-americani, Bruno Buozzi firma con gli industriali un importante accordo interconfederale per il ripristino delle Commissioni interne. L’accordo (il cosiddetto patto Buozzi-Mazzini) reintroduce nel campo delle relazioni industriali l’organo di rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori, impiegati e operai nelle aziende con almeno 20 dipendenti, attribuendogli anche poteri di contrattazione collettiva a livello aziendale.

Già prima della caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943 in seguito al voto del Gran consiglio del fascismo, settori importanti delle classi lavoratrici del nord erano tornati a scioperare contro il regime nel marzo-aprile 1943. Con l’arresto di Mussolini, il nuovo governo Badoglio aveva deciso di commissariare le vecchie strutture sindacali fasciste: Bruno Buozzi era stato nominato nuovo commissario dei sindacati dell’industria; all’agricoltura era stato designato Achille Grandi, mentre a Giuseppe Di Vittorio era stata affidata l’organizzazione dei braccianti.

I tentativi di costituzione e per il riconoscimento di fatto delle Commissioni interne hanno inizio con il nascere stesso del movimento operaio. Di esse si hanno più frequenti notizie intorno al 1900: in questo primo periodo però erano senza organi stabili, poiché venivano nominate in occasione di agitazioni o di scioperi come delegazioni operaie per le trattative con il datore di lavoro.

Il termine Commissione interna si trova per la prima volta usato all’interno dell’accordo Itala-Fiom, firmato a Torino nel 1906 (°). Appena due anni dopo, nel marzo 1908, la Lega Industriale dirama – si legge su “l’Avanti!” – un gruppo di “suggerimenti” alle direzioni delle industrie da utilizzare come base per un’azione comune verso gli operai organizzati. Il primo dei “suggerimenti” riguarda, appunto, “l’abolizione delle Commissioni interne”. Quattro anni dopo, nel 1912, le Commissioni interne vengono effettivamente abolite per legge. Ma risorgono nel 1913.

La fine della guerra del 1914-18 trova il movimento delle Commissioni interne notevolmente esteso e proteso verso un allargamento dei suoi compiti e delle sue funzioni sul terreno economico. Scrive Antonio Gramsci su “L’Ordine Nuovo” l’anno successivo alla sconfitta degli imperi centrali: “L’esistenza di una rappresentanza operaia all’interno delle officine dà ai lavoratori la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia”.

Le Commissioni interne, scrive ancora Gramsci su “L’Ordine Nuovo” del 21 giugno 1919, “sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le Commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate ed arricchite, dovranno essere domani gli organi di potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione”.

L’avvento del fascismo arresta però lo sviluppo di questi organi di rappresentanza: il 2 ottobre 1925 l’articolo 4 del Patto di Palazzo Vidoni sancisce: “Le Commissioni interne di fabbrica sono abolite e le loro funzioni demandate al sindacato (fascista) locale”. Restituite con l’accordo Buozzi-Mazzini del 2 settembre 1943, le Commissioni interne ricevono una nuova regolamentazione con l’accordo del 7 agosto 1947 tra la Cgil e Confindustria e con l’accordo interconfederale dell’8 maggio 1953 (l’ultimo accordo interconfederale sulle commissioni interne è del 18 aprile 1966 e ancora oggi è formalmente in vigore).

Il 29 marzo 1955 a Torino, per la prima volta la Cgil è messa in minoranza nelle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat. Il successivo 10 aprile afferma sul “Lavoro” un lucido e coraggioso Giuseppe Di Vittorio: “Sui sorprendenti risultati delle recenti elezioni delle Commissioni Interne del complesso Fiat si è concentrata l’attenzione di tutto il Paese. Questo è un fatto positivo, in quanto può contribuire a far conoscere largamente al Paese il clima di dispotismo e di ricatti padronali instaurato alla Fiat e in molte altre aziende, determinando condizioni più favorevoli allo sviluppo della lotta per il rispetto dei diritti democratici e della dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro”.

“Sarebbe tuttavia un grave errore – continua Di Vittorio nello stesso articolo – se noi, individuando e denunciando l’azione illegale e ricattatoria del grande padronato, sottovalutassimo la gravità del colpo inferto alla Fiom e alla Cgil nelle recenti elezioni della Fiat; se noi, cioè, tentassimo di scagionare ogni nostra responsabilità nella sconfitta. Ciò non sarebbe degno di una grande organizzazione come la Cgil, la quale affonda le sue radici in tutta la gloriosa tradizione del movimento sindacale italiano, ne rappresenta la continuità storica ed ha tutto l’avvenire davanti a sé” (leggi tutto).

Scriverà qualche anno più tardi Rinaldo Scheda nel suo diario personale (inedito e conservato presso l’Archivio storico della Cgil nazionale): “(…) Di Vittorio mi aveva colpito in tante fasi della sua vita sindacale. Ci sono però due episodi che mi rimarranno impressi nel tempo che mi resta da campare (…)”. Uno dei due, ricostruisce il sindacalista bolognese – segretario confederale della Cgil dal 1957 al 1979 – “si verificò in una riunione del Comitato direttivo confederale svoltasi a Roma al primo piano della sede di Corso Italia. È una riunione che fece scalpore. La lista della Fiom per la nomina della Commissione interna alla Fiat aveva subito una dura sconfitta. (…) La relazione di Di Vittorio espose le ragioni, le cause di quello smacco. Conoscevo ormai in quel periodo la sua personalità. Le luci e anche alcune ombre. Per esempio sapevo che il sottoporre il suo lavoro ad un esame autocritico gli costava una certa fatica. Era un comportamento che derivava dalla sua forte personalità. Quella relazione la ricordo ancora oggi, a tanti anni di distanza, come una pagina esemplare, una lezione di vita”.

Il 3 dicembre 1906: viene firmato ufficialmente a Torino il contratto collettivo tra la Società automobilistica Itala e la Fiom. Si tratta di uno dei primi significativi esempi di accordo collettivo in Italia. Esso sancisce il riconoscimento delle Commissioni interne, dei minimi salariali, delle 10 ore giornaliere (su 6 giorni settimanali), della clausola del “closed shop” per l’assunzione dei lavoratori iscritti al sindacato, il quale funge da ufficio di collocamento.