12.13.2016

Un uomo Goldman Sachs al Tesoro americano

La nomina di Steven Mnuchin a segretario del Tesoro della nuova amministrazione Trump non è certamente un segnale positivo in rapporto al rafforzamento di politiche sociali negli USA.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Noi l’abbiamo paventato in un articolo scritto due settimane fa. Mnuchin è un rampollo della Goldman Sachs, la banca numero uno della grande speculazione. Anzi, si potrebbe dire che vi è ‘nato dentro’: il padre Robert ne è stato partner per ben 30 anni; Steven vi ha lavorato per 17 anni, fino al 2002, arrivando a gestire il delicato settore dei titoli di stato, delle obbligazioni e delle ipoteche immobiliari.

    In questo periodo Mnuchin ha collaborato anche con il Fund Management di George Soros, il megaspeculatore tristemente noto in Italia per i suoi "assalti" contro la lira nel 1992-93, che misero in ginocchio la nostra moneta.

    Nel 2004, dopo l’esperienza alla GS, il futuro segretario del Tesoro si mise in proprio creando un suo hedge fund speculativo, il Dune Capital Management, uno di quelli che sono stati spesso chiamati "fondi avvoltoio". Ha partecipato ai progetti di investimento immobiliare di Trump e investito anche in Hollywood e nella produzione di alcuni film di cassetta.

    Sono stati gli anni della deregulation e della grande abbuffata speculativa che hanno creato la bolla finanziaria e quella dei mutui subprime scoppiate nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers.

    Per meglio capire le idee e il modus operandi di Mnuchin, è importante analizzare la sua decisione di comprare, nel 2009, la banca di credito immobiliare IndyMac dopo il suo fallimento. Perché si compra una banca fallita? Per fare soldi con simili investimenti occorre essere molto furbi e senza scrupoli. La sua furbizia fu nella clausola imposta all’agenzia statale venditrice, la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), di "condivisione delle perdite", qualora eventuali mutui e titoli acquisiti fossero diventati inesigibili. Nel contempo con aggressiva determinazione parecchie migliaia di famiglie, incapaci di pagare i mutui accesi, furono messe alla porta e le loro case acquisite dalla banca, che nel frattempo aveva cambiato nome in OneWest Bank.

    Per Mnuchin è stato un grande affare: la FDIC nel frattempo versa 1 miliardo di dollari per la parte dei crediti inesigibili e la vendita successiva della OneWest nel 2015 frutta 3,4 miliardi di dollari, il doppio del prezzo d’acquisto.

    Evidentemente gli insegnamenti acquisiti alla Goldman Sachs sono stati molto utili e fruttuosi per il futuro segretario al Tesoro. Perciò è opportuno ricordare che, in rapporto alla crisi finanziaria americana e globale, la GS è stata oggetto di approfondite indagini da parte di due commissioni bipartisan, una del Senato americano e l’altra indipendente, ma formata da esperti nominati dal Partito Democratico e da quello Repubblicano. La Commissione del Senato, denunciando l’operato delle grandi banche americane, in primis la GS, ha scritto:"E’ stata una distruzione fino alle fondamenta del sistema finanziario". Persino Trump durante la campagna elettorale ha denunciato i dirigenti della GS come la personificazione dell’elite globale che "ha derubato gli operai americani".

    Mnuchin sarebbe il terzo segretario al Tesoro che si è fatto le ossa alla Goldman Sachs. Prima di lui vi sono stati Henry Paulson con il presidente George W. Bush e Robert Rubin con il presidente Clinton. Il primo divenne famoso per avere permesso alle banche di speculare fino al crack per poi salvarle con i soldi pubblici, il secondo preparò l’abrogazione della legge Glass-Steagal di separazione bancaria.

    Cosa ci si può quindi aspettare dal nuovo segretario al Tesoro, se verrà confermato all’inizio del 2017 da un Congresso a maggioranza Repubblicana?

    In primo luogo che possa ridare mano libera alle grandi banche per operare "as usual". Si ricordi che i tentativi del presidente Obama di realizzare la riforma della grande finanza sono stati contenuti e alla fine quasi sconfitti dalla potente lobby bancaria americana. Le banche ‘too big to fail’ ora sicuramente si sentono pronte per la spallata definitiva a ogni tipo controllo sul loro operato e ad ogni tentativo di frenare le loro azioni, anche quelle speculative ad alto rischio.

    Ci si potrebbe chiedere se l’approccio prettamente finanziario possa entrare in collisione con il Trump imprenditore che dice di voler rilanciare gli investimenti, anche nelle infrastrutture. Non sarebbe salutare per la comunità americana, e nemmeno per il resto del mondo, se si raggiungesse un compromesso per far gestire gli investimenti alle grandi banche.

11.22.2016

Test chiave per Trump

ECONOMIA E FINANZA

L’amministrazione Trump intende davvero copiare le ricette economiche del senatore socialista del Vermont, Bernie Sanders?

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Alla fine, anche se dopo il gran botto, tutti, dagli analisti più blasonati fino al più sprovveduto sondaggista, hanno dovuto riconoscere che Donald Trump ha vinto perché ha affrontato di petto i problemi economici e occupazionali che affliggono la stragrande maggioranza degli americani. Di coloro che lavorano per vivere, di quei cittadini che negli Stati Uniti chiamano la “middle class”. Anche in Italia nessun media aveva capito che questa America non era preoccupata primariamente per l’immigrazione, la politica estera, le guerre o il terrorismo bensì per il proprio livello di vita.

    In tutti i suoi discorsi Trump ha ripetuto che “oggi, 92 milioni di americani sono ai margini, fuori dalla forza lavoro, non sono parte della nostra economia. E’ la nazione silenziosa degli americani disoccupati”. Se molti votanti vi hanno creduto, allora vuol dire che le statistiche ufficiali, che osannavano la grande ripresa con milioni di nuovi posti di lavoro, non riflettevano la verità, la situazione reale.

    E’ quindi proprio sul fronte dell’economia che la polemica di Trump contro l’establishment ha fatto presa e ha coagulato il voto di protesta. Adesso si dovrà vedere quanto delle tante promesse fatte in campagna elettorale egli sarà capace di mantenere.

    Nel suo discorso della vittoria ha ribadito l’intenzione di voler “investire almeno mille miliardi di dollari nelle infrastrutture”. Prevede investimenti addirittura per 50 mila miliardi di dollari nei settori dell’energia. I tassi d'interesse non saranno in futuro così bassi come quelli odierni, ha detto, per cui oggi è il momento migliore anche per fare nuovi debiti per costruire nuovi aeroporti, ponti, autostrade, treni veloci, ecc. E ha aggiunto che intende usare la leva del credito, che lui ama molto, per moltiplicare le disponibilità finanziarie necessarie.

    Al riguardo è però opportuno ricordare che ad agosto alcuni banchieri d’assalto avevano già avanzato la proposta di creare proprio una banca per le infrastrutture per mille miliardi di dollari. Come sempre occorrerà vedere chi sarà alla testa di una simile operazione e sulla base di quali principi economici verrebbe realizzata.

    Questa politica di investimenti dovrebbe essere parte di una serie di iniziative miranti a creare 25 milioni di nuovi posti di lavoro in 10 anni, mantenendo un tasso di crescita annuo del 3,5%. Per sostenere un tale progetto, Trump ha aggiunto di volere ridurre al 15%  la pressione fiscale delle imprese, che attualmente negli Usa è del 35%.

    Per passare dai numeri ai fatti la strada si farà difficile e complicata, soprattutto se il neo-presidente dovesse pensare che si possano ottenere simili risultati lasciando che i mercati operino da soli, senza alcuna guida o correzione. In questo, il nuovo inquilino della Casa Bianca crede, forse per troppa convinzione ideologica liberista, che una diminuzione delle tasse porti automaticamente a più posti di lavoro. Nei passati anni molti desiderati automatismi economici e monetari si sono rivelati delle pure illusioni sia negli Usa che in Europa.

    Trump riconosce che il deficit commerciale annuale americano di 800 miliardi di dollari nei confronti del resto del mondo non è più sostenibile. Vuole rinegoziare gli accordi commerciali con il Messico e il Canada e cancellare quello con i Paesi del Pacifico. Per il neo-presidente la Cina è il principale ‘nemico’ economico che manipola, con le svalutazioni, la propria moneta, per cui essa dovrà essere fatta oggetto di sanzioni e dazi. Per Trump si tratta di politiche che penalizzano l’occupazione negli Usa. Al di là di certi slogan protezionistici, sarà certamente una prova molto complessa quella di bilanciare la ripresa occupazionale interna con la stabilità delle relazioni commerciali internazionali.

    E’ importante che in campagna elettorale, copiando un intervento del democratico Bernie Sanders, Trump abbia posto al centro del dibattito l’idea di reintrodurre la Glass-Steagall Act per la separazione bancaria. Si tratta della legge voluta nel 1933 da Roosevelt per mettere un freno alla speculazione finanziaria fatta dalle banche con i soldi dei risparmiatori. Purtroppo fu proprio Bill Clinton nel 1998 a cancellarla, aprendo così la strada allo tsunami speculativo fatto di derivati finanziari e di altri titoli tossici che hanno portato alla grande crisi bancaria del 2008 e alla susseguente depressione economica mondiale.

    Al riguardo Trump, sempre imitando Sanders, ha denunciato la cosiddetta riforma Dodd-Frank del sistema finanziario americano come “un disastro che penalizza i piccoli imprenditori e i loro tentativi di accedere al credito”. Secondo lui un principio di giustizia più equa vuole che anche Wall Street sia sottoposta a regole stringenti.

    Nel campo economico e finanziario di carne al fuoco ne ha messa tantissima. Occorrerà aspettare per vedere. Ma nemmeno troppo a lungo. Si potranno già capire le reali politiche dell’amministrazione Trump quando nominerà i ministri chiave. Se, per esempio, al Tesoro dovesse andare un banchiere, sia esso della Goldman Sachs o della JP Morgan di cui tanto si parla, allora sarà chiaro che alle tante parole e alle tante promesse, difficilmente seguiranno fatti nuovi.

    Comunque è troppo presto per avere certezze. Le incognite non sono poche. Abbiamo il dovere di verificare prima di dare giudizi definitivi. Per il momento vi sono le parole. A noi corre l’obbligo di ricordare che tra il dire e il fare molto spesso c’è di mezzo il mare.

ECONOMIA CIRCOLARE

Il nuovo termine “economia circolare” che si affaccia nelle agende politiche è preciso, ma non dà conto del cambiamento di civiltà che esso implica. Perché, nell’era del consumismo terminale, l’antico precetto della cura e della conserva­zione della natura e dei manufatti diventerebbe sovversione del “disordine costituito”.

di Marco Morosini

In questa era di consumismo terminale ormai si ricorre ai robot non solo per produrre un paio di blue-jeans, ma anche per consumarli, già prima di venderli.

    Ecco, una “economia circolare” è il contrario di tutto questo. Essa mira infatti a prolungare la vita dei manufatti e dei materiali, a farli “circolare” più a lungo nell’economia, e a ridurne così la produzione e l’impatto ambientale.

    Secondo l’architetto Walter Stahel, uno dei padri dell’economia circolare, si tratta di sostituire l’attuale “paradigma del fiume” con un “paradigma del lago”: il sistema economico continua a essere concepito come un fiume, del quale dovremmo continuare a raddoppiare la portata (pro capite) ogni dieci o vent’anni, a prescindere dalle quantità di nutrienti o di veleni che esso contiene. Il PIL fu concepito proprio per misurare la portata del “fiume dell’economia”.  I fautori di un’economia circolare invece concepiscono il sistema economico come un lago. Per loro il compito della politica e dei cittadini è di preservare e migliorare la qualità e l’accessibilità per tutti di questo lago, ma senza aumentare la portata del fiume affluente ed effluente più dello strettamente necessario. Per misurare il successo sociale secondo questo nuovo paradigma l’OCSE ha concepito il Better Life Index (BLI) e l’ISTAT, in Italia, l’indice di Benessere Equo e Sostenibile (BES).

    In un’economia circolare il prelievo di materiali dalla natura è ridot­to al minimo indispensabile. Ciò avviene grazie all’aumento della du­ra­ta, del riuso, dell’ammodernamento, della riparabilità, e del riciclo dei manufatti e dei materiali. Essi 'circolano' così nell’economia molto più a lungo, invece di attraversarla come merci effimere per uscirne presto come spazzatura e inquinamento. Secondo molti studiosi le tec­nologie attuali potrebbero già darci sufficiente benessere pur usando un decimo delle materie prime e un terzo dell’energia rispetto ad oggi. Ri­duzioni così rilevanti dei consumi materiali sono perseguite per esem­pio dalla strategia energetica elvetica per una “società da 2000 watt” (2000 watt pro capite, invece degli attuali 6000) dall’Institut de la du­rée di Ginevra, dal  Factor 10 club, dal think-tank francese  Negawatt.

    Allora, perché questa 'economia del buon senso' non prende piede? Le vie dell’oro ci aiutano a capirlo. Una parte dell’oro mondiale lavo­rato circola da millenni, fuso e rifuso in innumerevoli manufatti: poco materiale genera nel tempo molto valore d’uso. Un’altra parte dell’oro mondiale invece è estratta da sottoterra con molti danni ambientali e con molta energia, per poi tornare subito sottoterra nei caveau delle banche: molti materiali ed energia non producono alcun valore d’uso. Un’altra parte dell’oro estratto torna presto sottoterra nelle discariche in cui si buttano i telefonini, o i loro resti, e altri dispositivi che ne con­tengono piccole quantità: molti materiali ed energia generano un breve e modesto valore d’uso. La prima via dell’oro è il prototipo dell’economia circolare, la seconda lo è dell’economia lineare.

    Le nostre tecnologie già ci permetterebbero di por fine all’abuso e alla dissipazione dell’oro e di ridurne di molto i relativi danni ambien­tali. Sono però le nostre idee e ideologie che ci impediscono di farlo: da una parte ci ostiniamo in convenzioni finanziarie che danno all’oro un valore di scambio svincolato dal suo valore d’uso; dall’altra parte, oggi in certi casi  “conviene” più buttar via l’oro che non conservarlo a causa di un sistema fiscale che punisce i “beni” e che premia i “mali”: la manodopera (di cui abbondiamo e in parte non sappiamo cosa fare) è resa più costosa da alti prelievi fiscali e previdenziali, che inducono a sostituirla con sempre più macchine, più materiali, più energia. Invece i materiali e l’energia (relativamente scarsi, quindi da risparmiare) sono poco tassati, o addirittura sono sovvenzionati, il che ne stimola l’uso e lo spreco. Per esempio, le sovvenzioni mondiali di denaro pubblico per favorire l’uso dei combustibili fossili, sono stimate a più di 500 milia­rdi di dollari l’anno. Secondo molti studiosi urge quindi una riforma fiscale ecologica che inverta il peso delle tassazioni: meno tasse sul lavoro, più tasse su energia e materiali. «Disoccupati diventerebbero così i chilowatt e le tonnellate, non le persone», dice Ernst Ulrich von Weiszaecker, fondatore del Wuppertal Institut.

    Nel 1976 Walter Stahel e Genevieve Reday pubblicarono un rapporto per la Commissione Europea il cui titolo può sembrare un errore di stampa: Il potenziale per sostituire l’energia con la manodopera. Ma come? Da millenni 'progresso' non vuol dire far lavorare le macchine invece degli uomini?

    E’ vero. Ma due secoli di fulminante successo della civiltà delle macchine hanno creato un problema di scala: la popolazione umana e le sue attività materiali hanno raggiunto tali dimensioni da trasformare in boomerang quello che per miliardi d’individui fu reale progresso. Oggi troppo uso e troppo spreco di troppi materiali e di troppa energia compromettono equilibri planetari millenari, e connotano ormai una nuova era che gli scienziati della Terra chiamano “Antropocene”.

    «Sostituire l’energia con la manodopera» (Walter Stahel) non vuol dire «rinunciare alla lavatrice», né al progresso tecnico. Vuol dire invece dare una direzione al progresso, usando il genio e la manodopera per prolungare la vita delle cose, non per abbreviarla.

    “Institut de la durée” e “Product-life Institute” si chiama, con pertinenza, l’organismo creato nel 1982 a Ginevra da Walter Stahel e da Orio Giarini, professori universitari e consulenti di aziende, governi e istituzioni internazionali su come ridisegnare per una maggior durata i manufatti, le infrastrutture, i servizi e i cicli di materiali. 

    Forse però il contributo di Giarini e Stahel nell’economia politica è ancora più importante di quello nell’eco-progettazione. In libri come Dialogue on wealth and welfare e The performance economy, essi ridefiniscono infatti il concetto di valore economico: il valore è nella prestazione realmente resa dalle cose, non nella loro produzione e nel loro commercio.

    Questa idea semplice, fu formulata chiaramente da Aristotele, nella sua distinzione tra oiconomia (cura della casa) e crematistica (cura del denaro), ma fu abbandonata da tanti economisti moderni quando l’economia politica sembrò ridursi a econometria: siccome è difficile o impossibile misurare direttamente l’utilità d’uso delle cose, misuriamo, al suo posto, la frequenza e la quantità della loro produzione, della loro compravendita, della loro distruzione.

Socrates Plato Aristotle (da una T-Shirt studentesca USA)

    Ne è così scaturita un’economia (e una politica, al suo servizio) che mira al continuo raddoppio della produzione e della distruzione delle cose, invece che al loro uso e alla loro cura. Abbandonare questa concezione dell’economia sarebbe una vera contro-rivoluzione: nell’era del consumismo terminale, l’antico precetto della cura e della conservazione della natura e dei manufatti diventerebbe sovversione del disordine costituito.

11.08.2016

Algoritmi: parola magica per meglio speculare

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Recentemente i mercati internazionali, sia delle valute che dei titoli, hanno registrato dei capovolgimenti così grandi da suscitare grandi preoccupazioni sulla tenuta dell’intero sistema bancario e finanziario mondiale. Eppure i governi e le autorità preposte, nonostante le loro indubbie preoccupazioni, hanno cercato di far passare tali eventi come ‘fisiologici per il mercato’.

    Invece, così non è.

    Venerdì 7 ottobre, nel giro di meno di 3 minuti, la lira sterlina è crollata del 6% per poi recuperare il 5 % in meno di un ora. Dopo aver raggiunto il minimo assoluto degli ultimi 31 anni, a fine giornata la sterlina registrava una perdita dell’1,6%.

    Il crollo è avvenuto alle 7 di mattina sul mercato di Singapore, mentre a Londra ancora si dormiva profondamente e la borsa di Wall Street aveva già chiuso le sue operazioni.

    E’ stata una pura speculazione, di inaudita pericolosità per l’intero sistema, per niente giustificabile con i possibili effetti della Brexit sull’economia inglese. L’unica spiegazione possibile, ci sembra, è legata al cosiddetto ‘electronic trading’, che avviene quando i computer sono programmati con un algoritmo specifico a fare in automatico operazioni di compravendita ad una velocità straordinaria, oltre ogni immaginabile umana capacità.

    Algoritmi e computer basati su istruzioni relative all’andamento di certi scenari, come quello della Brexit.

    Si arriva finanche ad impostare tali algoritmi in rapporto al numero e al tipo di informazioni riportate dai media, a volte addirittura dai social media! L’algoritmo succitato avrebbe ‘letto’ i reportage negativi sulla Brexit come un segnale di vendita della sterlina. Poi, quando la moneta inglese ha cominciato a scendere, altri algoritmi si sono ‘attivati’ nelle stessa direzione. 

    Purtroppo i mercati internazionali dei cambi sono ancora grandemente non regolati. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali gli scambi della coppia dollaro-sterlina rappresentano il 9,2% di tutte le contrattazioni nei mercati dei cambi, che mediamente sono di 5,1 trilioni di dollari al giorno.

    Negli ultimi tre anni l’‘algorithm trading’ sarebbe aumentato enormemente.  

    Si rammenti che qualche giorno prima, il 30 settembre, le azioni della Deutsche Bank  avevano perso il 9% in mattinata e avevano guadagnato il 5,7% a fine giornata. Una cosa inaudita, fuori dal normale andamento.

    Le nostre critiche alla DB sono note. Qui però si è di fronte ad un colossale attacco speculativo, non facilmente spiegabile. L’anomalo andamento non  può essere attribuibile semplicemente alla stratosferica multa comminata dalle autorità americane alla banca tedesca per le sue passate speculazioni con i derivati sui mutui subprime americani. Né la successiva risalita delle sue quotazioni può essere giustificabile con le notizie relative ad una eventuale riduzione della multa in questione. 

    Chi ha comprato le azioni per salvare la banca dal tracollo? E’ una domanda che sorge spontanea.

    Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, nel suo recente discorso ai parlamentari tedeschi del Bundestag, ha detto che la sua politica del tasso di interesse zero, nel 2015 ha fatto risparmiare alla Germania ben 28 miliardi di euro. Sulla base di questo dato si può ipotizzare che negli ultimi anni Berlino abbia pagato meno interessi sul suo debito pubblico per almeno 100 miliardi.

    La Germania non sembra aver usato tanta ricchezza per sostenere consumi e investimenti in casa propria o nelle regioni europee più deboli e bisognose di un sostegno concreto per il loro rilancio economico.

    Molto probabilmente il ‘tesoretto’ tedesco è stato accantonato proprio per il salvataggio delle banche che non sono in buona salute!

    I due recenti avvenimenti finanziari menzionati assumono una gravità eccezionale per le dimensioni e i velocissimi tempi delle operazioni. Essi ci dicono che l’intero sistema economico è esposto più di prima a terremoti di altissima magnitudo. 

    Non sono vicende da lasciare ai mercati o solo alle banche centrali e alle autorità di controllo. Sono questioni squisitamente politiche che, secondo noi, richiedono interventi e decisioni da parte dei governi. Senza indugi, prima che una nuova crisi sistemica bussi alla porta.

11.03.2016

Goa: Un’alleanza più stretta

Se vi sentite stufi per i troppi servizi giornalistici e televisivi sul summit dei Paesi BRICS, tenutosi in India il 16 ottobre scorso, saltate pure le righe che seguono. Altrimenti potrebbe interessarvi apprendere che…

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

Il summit dei Paesi BRICS a Goa, India, tenutosi il 16 ottobre scorso segna un ulteriore passo avanti verso la creazione di una più stretta alleanza istituzionale tra i suoi membri. È indubbiamente una dimostrazione concreta che gli indebolimenti interni ai singoli Paesi e i tentativi esterni di destabilizzazione non hanno avuto gli effetti paralizzanti che certi interessi geopolitici si auguravano.

    La "Dichiarazione finale" del summit afferma che i BRICS rappresentano "una voce influente sullo scenario internazionale capace anche di generare effetti positivi tangibili per i propri popoli". Essi "contribuiscono grandemente all'economia mondiale e al rafforzamento dell'architettura finanziaria internazionale" anche attraverso i nuovi organismi come la Nuova Banca per lo Sviluppo (NDB) e l'Accordo per la Riserva di Contingenza (CRA). Ciò dovrebbe agevolare la "transizione verso un ordine internazionale multipolare".

    Tale prospettiva si affianca alla denuncia dei "conflitti geopolitici che hanno contribuito al clima d'incertezza dell'economia globale", in quanto lo sviluppo e la sicurezza sono strettamente collegati, direttamente proporzionali e determinanti per sostenere una pace duratura.

    Al riguardo si ribadisce il sostegno al ruolo centrale dell'ONU come unica organizzazione multilaterale universale capace di lavorare per la pace, la sicurezza, lo sviluppo, la solidarietà e la tutela dei diritti umani. Tale sostegno è una scelta importante, per certi versi stridente con il silenzio dell'ONU stessa rispetto a situazioni di crisi, come quelle in atto in Siria e in Nord Africa.

    Nel documento si afferma con forza che "le politiche monetarie da sole non possono condurre ad una crescita bilanciata e sostenibile". Si sottolinea perciò "l'importanza dell'industrializzazione e di efficaci misure finalizzate allo sviluppo industriale, che sono le fondamenta di una trasformazione strutturale". In questo contesto l'innovazione tecnologica, si evidenzia, è centrale.

    Il giorno prima del summit, durante la riunione del "BRICS Business Council", formato da venticinque importanti industriali, i capi di governo dei BRICS hanno parlato con un linguaggio ancora più chiaro. Il presidente cinese Xi Jinping ha detto che l'economia mondiale langue nel mezzo di una "ripresa incerta e volatile". È perciò necessario, ha aggiunto, che, dopo i successi dei passati dieci anni, i BRICS rafforzino la loro partnership.

    A sua volta il primo ministro indiano Narendra Modi ha aggiunto che tale crescente e positivo rapporto tra i Paesi BRICS deve rafforzarsi con la creazione di nuove istituzioni e organizzazioni comuni, tra cui una propria Agenzia di rating, un Centro di ricerche agricole e quello per le infrastrutture e i trasporti ferroviari.

    Il presidente russo Vladimir Putin, da parte sua, ha indicato una strategia comune per una nuova linea di cooperazione e di investimenti che colleghi le attività del "Business Council" con quelle della Nuova Banca di Sviluppo. L'intento è quello di rendere più operativi gli imprenditori privati. Molti dei quali, con l'occasione, hanno partecipato alla grande Fiera Commerciale di New Delhi dove sono stati presentati i nuovi prodotti tecnologici e industriali realizzati nei rispettivi Paesi

    Noi pensiamo che nel prossimo futuro il mondo occidentale potrebbe essere sorpreso dai molti nuovi progetti realizzati congiuntamente dai BRICS in vari campi tecnologici.

    I capi di governo dei BRICS hanno ribadito gli accordi e gli impegni presi al summit del G20 di Hangzhou in Cina all'inizio di settembre. In particolare hanno rinnovato l'impegno a lavorare con più decisione nel G20 per progetti di importanza globale, come l'Iniziativa per lo sviluppo dell'Africa e la definizione dei una più giusta ed equa governance del Fondo Monetario Internazionale.

    Ci sembra che, anche in relazione al ruolo, sempre più incisivo, dei BRICS, l'Unione europea dovrebbe avviare con maggiore convinzione rapporti più stringenti con detti Paesi. Sarebbe il modo più concreto ed efficace di contribuire ad accelerare la ripresa economica globale, la crescita delle regioni in ritardo di sviluppo e, ovviamente, la realizzazione dell'indispensabile stabilità politica internazionale quale presupposto per una pace mondiale duratura.

9.22.2016

A Vladivostok Russia e Giappone lavorano insieme. E l’Europa?

Il continente euroasiatico è per metà europeo, come dice il nome stesso. E' lecito domandarsi quando l'Europa assumerà il ruolo che dovrebbe naturalmente svolgere rispetto ai nuovi scenari economici e geopolitici che si stanno profilando?

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Non deve sorprendere se la dichiarazione finale del recente summit del G20 tenutosi a Hangzhou in Cina è la solita retorica piena di belle parole e buone intenzioni. Come al solito sono gli Usa, anche con il sostegno non sempre entusiasta dell'Ue e dei Paesi europei, a dettarne il contenuto.

    Ciò stride non poco con gli interventi propositivi e concreti di alcuni altri attori, non ultimi la Cina, la Russia e il Giappone.

    Il presidente cinese Xi Jinping, alle mere enunciazioni, ha contrapposto i grandi progetti in corso di realizzazione, i corridoi di sviluppo infrastrutturale della Silk Road Economic Belt, che collegheranno l'Oceano Pacifico a quello Atlantico e all'Europa, e quelli della 21st Century Maritime Silk Road, la strada marittima che collegherà la Cina all'India e oltre. E' importante rilevare che in merito l'Asian Infrastructure Investment Bank è già molto attiva con le sue grandi linee di credito.

    Nelle sue parole Xi ha legato la realizzazione di questi grandi progetti e la costruzione di numerose zone di libero scambio sul territorio cinese con l'intenzione di rendere il renminbi una forte moneta internazionale nel quadro di un necessario miglioramento della governance economica globale.

    Presentando il programma "Blueprint on Innovative Growth" ha delineato con chiarezza i settori prioritari del nuovo sviluppo globale, tra cui "l'innovazione, una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica, la trasformazione industriale, l'economia digitale e l'interconnessione delle reti infrastrutturali".

    Per chiarire lo stato reale dell'economia produttiva cinese egli ha ricordato che, nel primo semestre dell'anno, essa è cresciuta del 6,7%.

La pochezza e la scarsa portata del summit balzano con netta evidenza se si considerano i risultati del Forum Economico di Vladivostok tenutosi il giorno prima tra il presidente Putin, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il presidente della Corea del Sud, la signora Park Geun-hye, e l'ex premier australiano Kevin Rudd.

    Putin ha presentato il suo programma più ambizioso, quello di trasformare il Far East nel centro dello sviluppo sociale ed economico della Russia. Tra i progetti illustrati ci sono la realizzazione congiunta di un "super ring" di infrastrutture energetiche che metterà in relazione Russia, Cina, Corea e Giappone, la costruzione di infrastrutture di trasporto trans-euroasiatiche e regionali, quali i corridoi Primorye 1 e 2 che collegheranno le regioni cinesi del nord e i porti russi, nonché la costruzione della sezione russa della nuova Via della Seta che dovrebbe collegare la Cina all'Europa. Putin ha lanciato ai suoi interlocutori l'idea di realizzare un polo internazionale per le scienze, l'istruzione e le tecnologie sull'isola di Russky di fronte al porto di Vladivostok dove si prevede anche una grande zona di libero scambio.

    Sono progetti concreti di indubbia rilevanza che sollecitano ulteriori coinvolgimenti, anche europei, per accelerare la ripresa della crescita globale.

    Per simili grandi lavori la Russia ha già creato un Far East Development Fund che concederà prestiti al tasso di interesse del 5%, meno della metà del tasso di sconto della Banca centrale russa. Certamente è importante l'accordo siglato con la grande Japan Bank for International Cooperation per finanziare i progetti relativi al porto di Vladivostok che vedono la partecipazione di imprese giapponesi.

    Tra le altre iniziative concrete c'è il fondo di sviluppo russo-cinese per investimenti nel settore agroalimentare.

    L'importanza delle joint venture russo-coreane, in particolare quelle negli investimenti di Vladivostok, è stata sottolineata dalla presidente coreana Park, anche in vista dell'apertura del passaggio artico della Northen Sea Route. Park ha ricordato inoltre che la politica di isolamento è fondamentalmente sbagliata. Lo dimostrano le esperienze del passato come quella della Grande Depressione quando l'aumento dei dazi da parte di molti Paesi provocò una riduzione del 40% del commercio in quattro anni.

    Dal resoconto del Forum emerge tuttavia che l'intervento politico più pregnante sembra quello pronunciato da Shinzo Abe: "Trasformiamo Vladivostok nella porta che unisce l'Eurasia con il Pacifico". I rapporti e le joint venture tra i due Paesi si sono fortemente consolidati, tanto che il governo giapponese ha creato uno specifico Ministero per la cooperazione economica russo-giapponese.

    Al Forum di Vladivostok l'UE e i Paesi europei erano totalmente assenti, evidenziando ancora una volta, come sottolineato anche da Romano Prodi, che siamo giunto al "momento più basso del cammino dell'Europa verso il processo di armonizzazione tra gli Stati".

    Il Giappone, invece, sta dando una grande lezione di politica, non solo economica. Certo, ha aderito, sotto pressione americana, alle sanzioni contro la Russia, ma ora Tokyo si muove in modo assai indipendente.

    Il continente euroasiatico è per metà europeo, come dice il nome stesso. E' lecito domandarsi quando l'Europa assumerà il ruolo che dovrebbe naturalmente svolgere rispetto ai nuovi scenari economici e geopolitici che si stanno profilando?

 

Bond per la messa in sicurezza del territorio

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Le devastazioni e la perdita di tante vite umane, a causa dei disastri che ripetutamente colpiscono il territorio del nostro Paese, naturalmente provocano emozioni forti, suscitano diffusa solidarietà e spingono gli stessi governanti ad assumere impegni. Ciò è quanto è accaduto anche a seguito del recente terremoto.

    In verità la messa in sicurezza anti sismica è un problema antico che riguarda la gran parte del territorio italiano. La semplice ricostruzione delle aree colpite e la ristrutturazione anti sismica in tutto il territorio nazionale interesserebbero non meno di 12 milioni di unità abitative con investimenti prevedibili di circa 100 miliardi di euro.

    Se si aggiungesse anche l’improcrastinabile intervento di stabilità idrogeologica dell’intero Paese, allo scopo di evitare le continue e devastanti alluvioni, frane e altri deterioramenti del territorio, bisognerebbe aggiungere almeno altri 40-50 miliardi di investimenti.

    Indubbiamente si tratta di cifre molto importanti. Soprattutto se si considerano anche i costi delle perdite di vite umane e delle distruzioni di proprietà e di ricchezze provocate dai vari cataclismi.

    Secondo l’ufficio studi della Camera dei Deputati in 48 anni sarebbero stati spesi circa 121 miliardi di euro per ricostruire ciò che i terremoti hanno distrutto!

    Ovviamente il ruolo dello Stato, anche in questi casi, è insostituibile. Non c’è libero mercato che tenga. E’ compito dello Stato garantire la sicurezza ai propri cittadini. Perciò è sacrosanto, come fa il nostro presidente del Consiglio dei ministri, chiedere che gli investimenti per la ricostruzione e per la messa in sicurezza del territorio siano posti fuori dai ristretti parametri del Trattato di Maastricht.

    La dimensione degli investimenti richiesti non potrebbe essere soddisfatta da una semplice flessibilità di bilancio!

    Lo Stato, secondo noi, potrebbe emettere specifiche “obbligazioni per la ricostruzione” al fine di creare liquidità da destinare esclusivamente alla realizzazione del programma di investimenti. Potrebbe essere la Cassa Deposti e Prestiti a farsene carico, al fine di non farli rientrare nell’alveo del debito pubblico. Del resto la stessa Germania usa in tale senso la sua Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, la gigantesca banca di sviluppo tedesca che, con attivi per oltre 500 miliardi di euro, è da sempre considerata fuori dal bilancio statale. La KFW è stata il motore della ricostruzione e dello sviluppo dell’economia tedesca.

    Tale scelta non potrebbe che essere condivisa perché, come noto, il debito sarebbe strettamente legato a politiche di sviluppo che creano non solo unità abitative sicure ma anche produzione, occupazione, aumento della produttività e maggiori introiti fiscali. Così lo stesso debito iniziale verrebbe in parte ripagato e creerebbe allo stesso tempo nuova ricchezza.

    Ai sottoscrittori delle obbligazioni si potrebbe estendere la garanzia dello Stato fino al valore di 100.00 euro, così come avviene per i conti correnti bancari. Sarebbe una forma di forte incentivazione.

    Importante che detti titoli siano di lungo termine, almeno 10 anni, con capitale nominale garantito, ad un tasso di interesse basso ma comunque superiore al tasso zero di oggi.

    Un secondo strumento per sostenere i menzionati investimenti potrebbe essere simile a certi contratti di assicurazione sulla vita. Il risparmiatore verserebbe un capitale, ad un tasso di interesse stabilito, mantenendolo bloccato per un certo numero di anni. Alla scadenza avrebbe diritto alla restituzione del capitale investito più gli interessi maturati, oppure ad una rendita commisurata. In questo caso non si avrebbe alcuna emissione di obbligazioni ma si tratterebbe di “assicurazioni sulla stabilità del territorio”. Anche questo strumento potrebbe essere gestito dalla stessa CDP.

    Per incentivare tali “polizze assicurative”, lo Stato potrebbe anche qui offrire una garanzia fino a 100.000 euro e altri eventuali incentivi.

    Purtroppo i governi preferiscono creare un debito anonimo, e non mirato a settori specifici di intervento, perché in questo modo possono gestirlo come meglio credono, anche per coprire altri buchi di bilancio. Ma il disegno che dovrebbe stare alla base della messa in sicurezza dell’intero territorio rappresenta una grande sfida ma anche l’opportunità di indirizzare e programmare l’economia in un modo differente dal passato, compatibile con la difesa della natura e dell’ambiente.

    Naturalmente i controlli di qualità, di trasparenza e di rispetto delle regole sono fondamentali per la riuscita del progetto. Così come è indispensabile il coinvolgimento delle popolazioni interessate.

9.12.2016

La Fed persevera nelle politiche monetariste del Quantitative Easing

I governi dovrebbero assumere la piena responsabilità decisionale di rimettere in moto l’economia, senza lasciare alla politica monetaria e alle banche centrali questo compito eminentemente politico.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

L’oracolo di Jackson Hole ha parlato per bocca del governatore della Federal Reserve, la signora Janet Yellen. Ma come sempre, dai tempi di Delfi in poi, non è stato molto chiaro. Sì, forse, ma anche no, sulla possibilità di un piccolo ritocco, un rialzo del tasso di sconto da parte della banca centrale americana.

    Organizzato come ogni anno alla fine di agosto dalla Fed di Kansas City, il convegno di banchieri ed esperti internazionali era spasmodicamente atteso da tutti gli operatori finanziari del mondo. Conoscere le future intenzioni monetarie americane, come noto,  è da sempre un fatto cruciale per i mercati per poi prendere le decisioni sulle grandi operazioni finanziare. Naturalmente anche quelle speculative. 

    Nella sua analisi, Janet Yellen ha riconosciuto che la persistente debolezza nella ripresa degli investimenti, la bassa produttività e la troppo alta propensione al risparmio frenano l’economia, nonostante l’aumento dell’occupazione registrato anche negli ultimi tre mesi negli Usa.

    I differenti e molteplici indicatori economici non permettono, quindi, di affermare con chiarezza se ci sia l’intenzione di aumentare il tasso di interesse, come in precedenza ventilato anche nei documenti ufficiali del Federal Open Market Committee della Fed.

La lettura delle proiezioni e degli scenari elaborati dalla stessa banca centrale indicherebbe un 70% di probabilità che esso possa variare tra lo 0 ed il 4,5% entro la fine del 2018! E’ una vaghissima stima che non giustifica affatto l’aver scomodato centinaia di importanti esperti. La ragione di tale vaghezza sarebbe ovviamente da ricercare nell’andamento dell’economia che spesso è colpita da rivolgimenti imprevedibili. Perciò “quando avvengono forti choc e l’andamento economico cambia, la politica monetaria deve adeguarsi”, ha affermato la Yellen.

    Si spera che non sia questo il suo vero oracolo.

    Leggendo con più attenzione il suo discorso vi è comunque un messaggio molto chiaro: continuare senza limiti di tempo la politica monetaria accomodante del Quantitative easing.

    In merito si consideri che, secondo una ricerca della Bank of America, il totale delle politiche di Qe condotte dalle banche centrali a livello mondiale ammonterebbe a 25 trilioni di dollari.

    Sul piano concreto la Fed ha anzitutto deciso di mantenere i titoli, compresi quelli più complessi e quindi potenzialmente pericolosi come gli abs, che ha acquistato negli anni passati, liberando così le banche dai loro titoli rischiosi e fornendo maggiore liquidità all’intero sistema bancario.

    In questo contesto la Yellen riconosce che il bilancio della Fed è passato da meno di un trilione a circa 5 trilioni di dollari e ritiene pertanto che una sua riduzione potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili sull’economia. 

E’ evidente che per il governatore americano la politica di acquisto di titoli e di “guidance” resterà una componente essenziale della strategia complessiva della Fed. Per “guidance” si intende anche l’annuncio che il tasso di interesse potrebbe restare vicino allo zero per un lungo periodo di tempo. Più che di economia monetaria trattasi di una politica della comunicazione! 

    Ma l’annuncio più importante è quello di voler prendere in considerazione l’utilizzo anche di nuovi strumenti d intervento monetario, tra cui quello di allargare il raggio di acquisto di titoli e di altri asset finanziari. Ciò inevitabilmente potrebbe voler dire l’acquisto di titoli e derivati ancora a più alto rischio. Si considererà anche la possibilità di alzare il target del tasso di inflazione dal 2 al 3%, allungando così i tempi di applicazione del Qe.  Allo stato non ci sembra una prospettiva rosea.

    Tuttavia la Yellen deve ammettere che una prolungata politica del tasso di interesse zero potrebbe incoraggiare le banche e gli altri operatori finanziari a intraprendere operazioni eccessivamente rischiose.

    Si calcola che il Qe ha determinato che titoli per circa 11 trilioni di dollari oggi siano a tasso zero o negativo. Trattasi di circa il 20% del debito sovrano mondiale! Un terzo di tutti i titoli di debito pubblico globale emessi nel 2016 sono stati ad un tasso negativo.

    E’ chiaro che la continuazione delle politiche monetarie accomodanti riflettono “la paura che siamo di fronte ad un prolungato periodo di stagnazione economica secolare”, come ha ammesso persino Stanley Fisher, il vice presidente della Fed.

    E’ evidente, quindi, che il tasso di interesse zero non sempre si rivela efficace nel sostegno alla ripresa e alla crescita.

    Per questa ragione, senza iattanza, da sempre noi ribadiamo la necessità che i governi non lascino alla politica monetaria e alle banche centrali il compito di rimettere in moto l’economia, ma se ne assumano essi la piena responsabilità decisionale. Servono politiche di investimento di partenariato pubblico privato nei campi delle infrastrutture, delle nuove tecnologie. In Italia anche nel campo della messa in sicurezza del territorio sempre più minacciato da inondazioni, frane, dissesti idrogeologici e terremoti, come dimostrano i drammatici recenti disastri di Amatrice e della vasta area laziale-marchigiana-umbra.

9.05.2016

Banche in bilico - Il sistema bancario internazionale continua a trovarsi in un equilibrio molto precario

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Dopo le grandi agitazioni nel mondo bancario internazionale provocate dagli stress test, le vacanze estive sembra abbiano creato un’ovattata atmosfera di apparente tranquillità. Ma, osservando con più attenzione i processi finanziari in corso, l’emergenza resta sempre dietro l’angolo.

    Non solo per quanto riguarda il futuro della MPS, della Veneto Banca e di altre banche in Italia.

    Negli Usa, per esempio, la componente repubblicana del Comitato per i Servizi Finanziari della Camera dei Deputati ha recentemente presentato un dossier sul coinvolgimento della grande banca inglese, la Hong Kong Shanghai Bank Corporation (HSBC), nel riciclaggio dei soldi provenienti  dal traffico di droga operato dal cartello messicano di Sinaloa e da quello colombiano del Norte del Valle.

    Sono stati documentati ben 881 milioni di dollari “lavati” dai narcotrafficanti nel sistema bancario americano. Quella emersa e documentata dalle indagini in realtà è solo una piccola parte dell’enorme business che si è sviluppato, in modo incontrastato, per anni.

    Durante le indagini, iniziate nel 2013, la HSBC aveva ammesso il crimine e accettato di pagare una multa di circa 2 miliardi di dollari.

    Il rapporto accusa in particolare il Dipartimento di Giustizia americano di avere bloccato il processo contro la banca, anche su pressione della Financial Services Authority, l’equivalente inglese della Consob, in quanto “esso avrebbe potuto avere serie conseguenze per il sistema finanziario”. 

    E’ un’accusa molto forte che la dice lunga sull’opacità di certe operazioni fatte da importanti attori del sistema bancario americano e inglese. Soprattutto sulla capacità delle ‘too big to fail’ di influenzare le decisioni delle istituzioni finanziarie di controllo e addirittura di quelle dei governi. L’opacità naturalmente si estende anche a molte altre operazioni finanziarie e ai bilanci delle banche che spesso non riflettono il loro vero stato di salute. Nonostante gli stress test.

    Anche in Europa sono in corso alcune complesse operazioni bancarie, in particolare in Germania. All’inizio di agosto l’indice borsistico europeo Stoxx Europe 50 ha rimosso dal suo listino la Deutsche Bank e il Credit Suisse per evitare che il livello dell’indice fosse influenzato negativamente dalle continue perdite di valore delle azioni delle suddette banche.

    Attraverso le pagine del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, Martin Hellwig, un importante economista dell’istituto tedesco di ricerca Max Planck, ha addirittura ventilato l’ipotesi della necessità di una nazionalizzazione della Deutsche Bank che si troverebbe in “una crisi peggiore di quella del 2008”. Il bail in, con la partecipazione di azionisti e obbligazionisti nella copertura delle perdite della banca, non sarebbe sufficiente a salvarla.

    Da parte sua il Fmi ha recentemente dichiarato che la DB “presenta grandi rischi “per l’intero sistema bancario. Infatti essa sarebbe grandemente indebitata e pericolosamente sotto capitalizzata.

    La DB è anche in continuo conflitto con l’agenzia americana Commodity Futures Trading Commission (CFTC), che controlla il mercato dei derivati,  in quanto non esporrebbe in modo chiaro la vera situazione delle sue operazioni in derivati finanziari otc, “compromettendo la capacità di valutare i potenziali rischi sistemici del mercato dei derivati”.

    Da ultimo anche la Banca del Regolamenti Internazionali e l’International Organization of Securities Commissions (IOSCO), che coordina gli enti di vigilanza dei mercati finanziari a livello mondiale, affermano che persino le Central Counterparty Clearing (CCP), cioè le “casse di compensazione” che dovrebbero garantire le parti coinvolte nei contratti in derivati, non sarebbero in grado di far fronte ai loro compiti per mancanza di fondi.

    Al riguardo non è un caso che la stabilità delle casse di compensazioni e i rischi derivanti dalla speculazione finanziaria siano stati posti, su iniziativa della Cina e dell’India, nell’agenda del G20 che si terrà nella città cinese di Hangzhou all’inizio di settembre. 

    Ciò dovrebbe essere di monito anche in Europa per far sì che il sistema bancario e i derivati non siano lasciati in balia del “fai da te” del mercato. Senza ulteriori indugi essi dovrebbero essere sottoposti ad una stringente e profonda revisione da parte dei governi che dovrebbero ovviamente mirarli più al credito produttivo che agli interessi della speculazione finanziaria.

 

7.06.2016

Brexit: timori finanziari fondati o alibi per interventi eccezionali?

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Il risultato del referendum sulla Brexit avrà certamente un effetto profondo sull’economia britannica, sull’Unione europea e sul suo processo di integrazione.

    Chi ci ha letto in passato sa che noi siamo sempre stati fautori di un’Europa forte, solidale e sovrana. Nondimeno ci sembra esagerata la reazione sia dei mercati che delle istituzioni finanziarie europee ed internazionali che paventano un nuovo sconquasso finanziario globale.

    E’ come se l’emergenza Brexit serva a giustificare una probabile adozione di interventi eccezionali e a scaricare su di essa le conseguen­ze di una crisi già in atto, ma che oggettivamente non ha origine nel­l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Al riguardo è in­teres­sante notare che le grandi banche too big to fail americane ed interna­zionali, la Goldman Sachs, la JP Morgan, la Citibank, la Bank of Ame­rica per nominarne alcune, sono state in prima fila, anche con notevoli donazioni in denaro, per sostenere la campagna “Remain”. Anche spe­culatori come George Soros sono scesi in campo contro la Brexit pa­ventando cataclismi di ogni sorta.

    La Federal Reserve ha deciso di lasciare i tassi fermi e ha annunciato che il costo del denaro salirà, ma più lentamente. L'incertezza sul referendum della Brexit "è uno dei fattori che ha pesato sulla decisio­ne" di mantenere invariato il costo del denaro, ha affermato la governatrice Janet Yellen, sottolineando che un eventuale addio della Gran Bretagna all'Ue potrebbe avere ripercussioni sull'economia e sulla finanza globale. Dopo di che anche la Banca Centrale Europea ha affermato di essere pronta ad interventi di emergenza e in ogni caso di voler mantenere i suoi acquisti di asset finanziari pari a 80 miliardi di euro al mese fino a marzo 2017 e anche oltre, se fosse necessario.

    Indubbiamente l’uscita dall’Ue avrà un grosso impatto in particolare per la City di Londra. Nella City operano circa 250 banche estere che in questo modo hanno un accesso diretto al mercato Ue. La City rappresenta circa il 10% del Pil britannico e contribuisce per il 12% a tutte le tasse raccolte dal governo. Essa è la prima esportatrice di servizi finanziari del mondo. Servizi che, per 20 miliardi di euro, vanno proprio verso l’Europa.

    Una delle grandi preoccupazioni riguarda, per esempio, la sorte della Royal Bank of Scotland, che nel biennio 2014-15 ha accumulato perdite per oltre 7 miliardi di euro. Cosa succederebbe a questa banca in caso di un aggravamento della situazione inglese?

    Secondo noi il nervosismo nella grande finanza riflette un profondo senso di incertezza e anche una vera e proprio paura di effetti a catena, simili a quelli non previsti e non voluti, della bancarotta della Lehman Brothers nel 2008.

    L’ultimo bollettino della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea delinea andamenti finanziari e bancari che meritano una attenta disamina. Nell’ultimo trimestre del 2015 i crediti bancari transfrontalieri globali sono diminuiti di 651 miliardi di dollari, di cui 276 verso la zona euro. E’ una tendenza in crescita da tempo. La stessa cosa era avvenuta a seguito della crisi del 2008. E’ indubbiamente uno dei risultati della prolungata stagnazione economica mondiale.

    E’ anche rilevante notare che il valore nozionale dei derivati OTC è finalmente sceso di quasi 200.000 miliardi di dollari, da 700 mila di giugno 2014 ai circa 500 mila di fine 2015. E’ un fatto di indubbia positività.

    Si tratta di cambiamenti necessari e ulteriormente auspicabili. Noi abbiamo sempre ribadito l’importanza di ‘prosciugare’ la palude dei derivati finanziari speculativi otc e di contenere le operazioni bancarie non produttive.

    I dati della Bri sono di grandezze eccezionali, però richiedono un attento controllo e anche interventi precisi da parte delle autorità competenti. Se fossero soltanto il risultato di performance autonome dei mercati, allora dietro ai numeri potrebbero nascondersi ‘macerie’.

    Sarebbe proprio come spesso accade dopo fenomeni alluvionali. Dopo una violenta inondazione si è tutti contenti di vedere che le acque si sono ritirate. Ma prima di permettere il ritorno delle famiglie evacuate o addirittura concedere dei permessi di costruzione è necessario che la Protezione Civile faccia un attento controllo del territorio per determinare se la catastrofe ha minato le fondamenta dei palazzi e la compattezza del terreno.

    Di certo sono in atto profondi rivolgimenti nei settori finanziari e bancari per cui ogni evento, anche di portata minore, rischia di produrre conseguenze destabilizzanti. Con effetti sistemici!

 

6.28.2016

TTIP – Chi difende l’interesse dell’Europa?

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

 

Si sta facendo di tutto affinché in Europa la stessa politica e la società civile non siano in grado di esprimere in modo sovrano e pacato un giudizio consapevole sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), il Trattato di libero scambio tra Stati Uniti e Unione Europea in cantiere da ben tre anni.

    Da una parte è stata imposta una peculiare quanto ingiustificata ed intollerabile segretezza sui documenti, sulle procedure e sul contenuto del Trattato. Dall'altra, avendo radicalizzato l'argomento e avendolo portato nelle piazze con forti dimostrazioni, a volte anche provocatoriamente degenerate in scontri, si tenta di etichettare come "facinoroso" chiunque chiede chiarezza e vuole esprimere la sua democratica opposizione.

    Eppure, dal poco che è trapelato, il TTIP potrebbe avere un impatto profondo, per alcuni anche devastante, sulle nostre produzioni, soprattutto, ma non solo, nel settore agricolo ed agroalimentare, sul nostro sistema sociale di mercato e sul nostro commercio.

    I promotori vorrebbero la sua ratifica prima della scadenza della presidenza Obama, che ne è stato uno dei grandi promotori. Hilary Clinton lo ha già definito la nostra 'Nato economica'.

    Alcuni parlamentari tedeschi hanno recentemente chiesto di visionare i documenti presso il Ministero dell'Economia di Berlino. Ne hanno fatto un resoconto desolante. Si possono leggere alcuni documenti solo sul computer in una stanza controllata, per poche ore senza consultazioni con altri e senza prendere appunti. Del materiale letto non se ne può neanche parlare pubblicamente.

    E' grave che il commissario europeo per il Commercio, Cecilia Malmström, sostenga che la stesura del trattato non sia di competenza dei parlamenti nazionali.

    L'obiettivo del TTIP sarebbe la creazione della più grande zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. Questa rappresenterebbe quasi la metà del Pil mondiale e un terzo del commercio globale. L'Ue è la principale economia e il maggior mercato del mondo. In gioco, quindi, ci sono enormi interessi economici. Ma in gioco c'è anche il futuro delle relazioni politiche internazionali.

    Non si tratta di mettere in discussione il rapporto di amicizia con gli Stati Uniti, ma la mancanza di trasparenza fa dubitare della bontà dell'accordo.

    Gli interrogativi che i cittadini e gli operatori economici, non solo italiani, si pongono sono tanti. Gli Usa usano gli ogm in agricoltura. Sarà anche l'Europa costretta a introdurli nelle sue coltivazioni? L'Italia ha 280 prodotti a denominazione d'origine protetta. E' il numero più grande in Europa. Gli Usa li rispetteranno oppure avremo il 'parmisan della Virginia' o il 'san danny del Minnesota'? Eventualmente venduti anche nei nostri mercati?

    Molti, anche negli Stai Uniti, credono che uno dei principali pericoli del TTIP sia la possibilità che investitori privati possano iniziare procedimenti legali e querele milionarie contro gli Stati in tribunali internazionali d'arbitraggio. L'intenzione positiva di proteggere l'interesse pubblico potrebbe essere interpretata dalle multinazionali come una "limitazione dei profitti degli investitori stranieri", un ostacolo al business e alla libera concorrenza. 

    E' molto importante notare che questa è anche la maggior preoccupazione della London School of Economics che punta appunto il dito sulle camere arbitrali, i tribunati istituiti dal Trattato. Nel suo studio l'istituto inglese cita come esempio una serie di querele passate, come quelle della Phillips Morris contro l'Uruguay e l'Australia per aver lanciato delle campagne contro il fumo.

    In Europa si sentono voci di grande preoccupazione, anche se ancora espresse troppo sottovoce. Il governo francese afferma che dirà un forte no se il Trattato dovesse mettere in discussione la struttura della sua agricoltura. Ci si augura che l'Italia non si dica soddisfatta di qualche generica garanzia di rispetto del nostro 'made in italy'.

    Per il sistema agroalimentare italiano, a partire da quello del Sud, il Trattato sarebbe esiziale. La geopolitica ed il business tout court non possono mortificare le prerogative democratiche e indisponibili dei popoli e dei loro parlamenti, a partire dal diritto alla conoscenza.

 

6.15.2016

Neanche negli Usa tutto è oro quel che luccica

Come il debito pubblico statunitense si scarica sui cittadini e sul resto del mondo

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Nel mondo non è adeguata l’attenzione all’andamento del debito degli Stati Uniti. La realtà è che esso, insieme ad altri indicatori economici, segna rosso costante.

    E’ come per le automobili, quando il cruscotto segnala un problema, anche se la macchina ancora cammina: non è consigliabile continuare come se nulla fosse.

    E’ un dato inoppugnabile che ciò che avviene negli Usa non riguarda solo gli americani perché esso riverbera i suoi effetti nel resto del mondo.

    All’inizio del 2016 il debito pubblico federale americano ha raggiunto i 19.200 miliardi di dollari, pari a circa il 105% del Pil. Alla fine del 2007 era di 9.200 miliardi pari al 65% del Prodotto interno lordo. Nel 2000 era di 5.600 miliardi. In pratica si è più che triplicato. Perciò per il sistema americano è il suo tasso di crescita, o meglio, di accelerazione della sua crescita esponenziale che deve preoccupare maggiormente.

    Lo stesso andamento si è avuto per il debito delle corporation private non finanziarie che oggi è pari a 6.600 miliardi di dollari. Era di 3.300 miliardi nel 2007ed è raddoppiato.

    Di conseguenza non ci si deve stupire dell’attuale stratosferica cifra di quasi 64.000 miliardi di debito totale (governo federale, singoli stati, enti locali, business, famiglie e ipoteche). Era di 28.600 miliardi nel 2000. Si sottolinea ciò che oggi è evidente: è più che raddoppiato.

   In pratica si tratta in gran parte di “debito sporco”. Fatto per tappare i buchi di bilancio, per evitare i fallimenti di banche e corporation e non per sostenere investimenti e sviluppo. La spia rivelatrice è il perenne deficit di bilancio degli Usa. Nel 2009 esso aveva raggiunto l’incredibile vetta di 1.413 miliardi di dollari portando gli Usa fino alla soglia della bancarotta. Anche il 2015 si è chiuso con un deficit di 438 miliardi.

    Significativo quanto preoccupante è il crollo della bilancia commerciale. Dal 2000 ad oggi gli Usa hanno accumulato un deficit commerciale di oltre 8.630 miliardi di dollari. Dallo scoppio della crisi ad oggi è aumentato di ben 3.500 miliardi. Sarebbe ancora peggiore se si considerasse soltanto la bilancia commerciare di beni reali che dal 2000 è in negativo per oltre 10.500 miliardi. Quasi 4.700 miliardi a partire dal 2009.

    E’ evidente che l’avanzo commerciale nel settore dei servizi ne attenua la portata. Anche se nei servizi convivono quelli dell’ingegneristica e quelli finanziari, dove la componente speculativa è notevole.

    E’ quindi naturale chiedersi come facciano gli Usa a continuare a stampare e a spendere dollari quando l’economia sottostante, come visto, non è tanto solida.

    Il tutto sembra molto simile al gioco delle tre carte.

La prima è sicuramente il Quantitative easing, cioè la decisione a suo tempo adottata dalla Federal Reserve di immettere nuova liquidità nel sistema.

    L’effetto è ben visibile nella crescita straordinaria del bilancio della Fed che è passato da 860 miliardi di dollari del 2007 ai circa 4.500 miliardi di oggi. La decisione della Fed e del governo di Washington anche se ha una valenza monetaria è soprattutto politica. Secondo noi la situazione non può durare all’infinito. I nodi prima o poi verranno al pettine.

    La seconda carta è il debito pubblico americano, finora largamente scaricato sulle ‘spalle’ del resto del mondo che, in verità, per varie ragioni ha assecondato tale tendenza.

    Infatti circa 6.000 miliardi di dollari di obbligazione del Tesoro Usa sono in mani straniere. La Cina da sola ne ha 1.250 miliardi ed il Giappone ne possiede ben 1.133 miliardi. La Fed ha in bilancio T-bond fino a 2.500 miliardi.

    La terza carta si chiama derivati otc (over the counter), cioè quelli trattati al di fuori dei mercati regolamentati e tenuti fuori dai bilanci. Si sottolinea che, a seguito del tasso di interesse zero, l’ammontare complessivo di tali derivati a livello mondiale è sceso a 500 mila miliardi di dollari. Però di questi ben 180 mila sono nelle banche americane. Come è noto, i derivati sono un mezzo per generare nuova liquidità quando se ne ha bisogno. Sono titoli creati attraverso una forte leva finanziaria e con alti rischi. Possono anche essere messi in garanzia per ottenere dei prestiti veri dalla Fed o dalla Bce.

    Fin tanto che gli Usa riescono a scaricare il proprio debito sul resto del mondo e sui propri cittadini avranno mano libera per creare la liquidità necessaria per continuare a comprare a debito e finanziare spese di ogni tipo prescindendo, purtroppo, dalla loro effettiva capacità economica e finanziaria.