12.21.2010

UE - Via libera al Fondo salva stati

LAVORO E DIRITTI
a cura di rassegna.it

I capi di stato e di governo assicurano: "Faremo di tutto per la stabilità della moneta unica". Critiche dal Fondo monetario internazionale: "Ue lenta, non otterrà molto". Eurobond ancora tabù, per ora vince il veto di Germania e Francia

Il Consiglio Ue di Bruxelles ha ratificato la creazione di un Fondo salva-stati permanente. Sarà attivo a partire dalla metà del 2013, dopo le modifiche del Trattato di Lisbona. I capi di Stato e di governo dell'Eurozona, riuniti in Belgio per due giorni (16 e 17 dicembre) si dicono pronti a 'fare tutto quello che è necessario per assicurare la stabilità della zona euro nel suo insieme". Il tentativo è quello di scoraggiare gli attacchi speculativi che potrebbero colpire Portogallo e Spagna e in un caso del genere si attingerebbe al Fondo temporaneo già attivato per l'Irlanda. Non tutti, però, sono convinti che si tratti di una risposta adeguata. Tra le critiche spicca quella del Fondo monetario internazionale, che aveva proposto, insieme alla Bce, di aumentare immediatamente le risorse dell'attuale Fondo temporaneo, proposta bocciata per il veto della cancelliera tedesca Angela Merkel.

    Ecco i sette punti su cui i governi si impegnano dell'Eurozona: piena attuazione dei programmi di aiuto a Grecia e Irlanda; determinazione nel portare avanti i piani di austerity per risanare le finanze pubbliche; sostegno alla crescita attraverso le necessarie riforme strutturali; rafforzamento del Patto Ue di stabilità e di crescita con un accordo entro l'estate del 2011; risorse adeguate ai Paesi in difficoltà attraverso l'attuale Fondo salva-stati; ulteriore rafforzamento delle regole nel settore finanziario, compresi nuovi stress test per le banche; sostegno all'azione della Bce.

    Al Fondo permanente si potrà ricorrere solo come 'ultima ratio' e solo con una decisione da prendere all'unanimità, vincolando  i prestiti ai paesi in difficoltà a condizioni molto severe. Le modifiche del Trattato Ue necessarie per creare il Fondo saranno molto limitate, ma alcuni paesi - quelli con una forte componente euroscettica - destano qualche timore, perché anche un solo no bloccherebbe tutto. Dal premier irlandese, Brian Cowen, sono arrivate rassicurazioni: un referendum sulle modifiche in Irlanda (il cui esito sar è "molto improbabile".

    I leader dei 27 restano divisi sull'idea degli eurobond. La questione è stata sollevata di nuovo nel corso di una  cena di lavoro in Belgio, il progetto portato avanti da Italia e Lussemburgo, non ha raccolto consensi. Anche in questo caso a dettare la linea è la Germania, contraria agli eurobond perché "non eliminerebbero le debolezze in Europa mentre eliminerebbero la pressione sugli Stati indebitati per risanare i propri bilanci", ha detto Merkel. Sulla posizione di Berlino è affiancata da Parigi e per ora non se fa nulla. Ma in molti sono convinti che la discussione continuerà nei prossimi mesi.     

12.13.2010

Consiglio europeo - L'UE deve accelerare

EUROPA

In occasione del prossimo Consiglio europeo, convocato per il 16 e 17 dicembre l'Europa deve accelerare nell'opera di riforma della governance

Gianni Pittella
Vicepresidente vicario del Parlamento europeo

Proprio nel momento in cui i tempi sembravano maturi per dotare l'Unione europea di maggiori poteri "politici", attraverso il deciso rafforzamento del ruolo di coordinamento delle politiche economiche, la rottura sul Bilancio comunitario e la precipitazione della situazione irlandese riportano l'Europa a confrontarsi con i peggiori scenari e, come sottolineato dal  Presidente Van Rompuy, con un rischio "sopravvivenza" dell'Unione.

    Pare proprio che a qualche governo non vada giù di cedere competenze nazionali a vantaggio di una gestione comune, né di mettere mano alla cassa in favore di un altro Paese in difficoltà. A spingere in queste ultime ore l'Europa sul bordo del precipizio sono stati soprattutto i tentennamenti della Merkel in occasione dell'intervento di salvataggio prima della Grecia, ed ora dell'Irlanda, e l'azione irresponsabile e demagogica del premier inglese Cameron che ha lavorato per affossare ogni margine di accordo sul bilancio europeo.

    In tale scenario anche i mercati finanziari stanno facendo la loro parte nel destabilizzare l'Europa politica, tentando di svincolarsi da qualsiasi forma di coinvolgimento in eventuali ristrutturazioni delle finanze pubbliche.  Non é un caso che le fibrillazioni degli investitori siano aumentate a seguito dell'ipotesi ventilata dalla Germania di un coinvolgimento del settore privato nei piani di salvataggio.  Ci sono tuttavia gli strumenti e i tempi per ribaltare la situazione e rilanciare l'azione europea. Partiamo dal Bilancio. Scaduti i 21 giorni previsti dal Trattato per trovare un accordo tra Consiglio e Parlamento, adesso la Commissione europea presenterà una nuova proposta che andrebbe approvata entro fine anno per non penalizzare i beneficiari delle risorse europee: dalle Regioni che utilizzano i fondi strutturali gli agricoltori che beneficiano della PAC, dalle Università e centri di ricerca agli enti locali, per finire con le nuove autorità europee responsabili della vigilanza dei mercati che saranno operative da gennaio 2011 ma che, senza bilancio approvato, non avranno nemmeno un  euro per partire.

    La base negoziale per fare l'accordo é di assoluta saggezza ed il Parlamento, con la massima responsabilità istituzionale, si é mostrato pronto ad accettare l'ulteriore taglio di 4 miliardi richiesto dai governi - per venire incontro alle difficoltà di cassa degli stati membri - a patto però che per il 2012-2013 siano previste maggiori risorse per far fronte ai nuovi compiti che il Trattato di Lisbona conferisce all'UE ed agli obiettivi concordati con la Strategia "Europa 2020" che i governi votarono all'unanimità e che ora é ben strano non vogliano più finanziare.

    Mi auguro che in occasione del prossimo Consiglio europeo, convocato per il 16 e 17 dicembre, si registri il medesimo senso di responsabilità mostrato dal Parlamento e che non prevalga la miopia distruttrice di tre Paesi - Inghilterra, Olanda e Svezia - sulla maggioranza di chi vuole coniugare austerità e risparmi con crescita e sviluppo, rigore nella spesa con salvaguardia degli investimenti europei indispensabili per il futuro dei cittadini. In merito poi alla questione irlandese ed alla generale crisi delle finanze pubbliche europee bisogna agire con gli strumenti che sono a disposizione. L'Europa deve mantenere ben saldo il timone puntando a rendere il prima possibile permanente  il "meccanismo di stabilizzazione", accelerare nell'opera di riforma della governance economica prevedendo chiari paletti per l'applicazione del patto di stabilità e,  parallelamente, continuare nell'azione già in atto di regolamentazione dei mercati finanziari. Anche perché l'euro non puó essere  ostaggio di mercati finanziari che stanno facendo la loro parte nel destabilizzare l'Europa politica, tentando di svincolarsi da qualsiasi forma di coinvolgimento in eventuali ristrutturazioni delle finanze pubbliche.  

Il modello Germania Est per il nostro Mezzogiorno

Economia
a cura di ItaliaOggi

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

Dopo la caduta del muro di Berlino e l'unificazione della Germania le regioni tedesche dell'Est potevano finire nell'abbandono e nell'arretratezza economica come il nostro Mezzogiorno. Ciò non è successo.

    Oggi la Germania dell'Est è un territorio totalmente differente con nuove infrastrutture e nuovi insediamenti abitativi, con notevoli investimenti in alta tecnologia e nei parchi industriali.

    È una lezione che merita un attento studio.
    In 20 anni il Pil dei 5 Laender orientali (Brandeburgo, Meclenburgo-Pomerania, Sassonia, Sassonia-Anhalt, Turingia, ) è aumentato del 200% e partecipa per il 20% a quello nazionale. I redditi privati sono cresciuti del 50%, il livello di produttività ha raggiunto il 72% di quello occidentale. Per arrivare a questi risultati sono stati trasferiti e investiti oltre 1.200 miliardi di euro. C'è ancora un gap con gli altri laender occidentali ma dovrebbe essere superato in pochi anni.

    All'inizio è stato molto difficile e la situazione sarebbe potuto diventare devastante. Dopo la parità tra il marco di Pankov e quello di Bonn, che richiese un notevole impegno finanziario, i prezzi dei prodotti industriali dei nuovi laender aumentarono del 400%. L'industria orientale non aveva alcuna chance nella competizione con i fratelli occidentali e con i mercati internazionali. Basterebbe mettere a confronto l'auto Trabant di Erick Honecker con la più piccola utilitaria della Volkswagen di Helmut Kohl per comprendere la situazione.

    Nei primi dieci anni dopo l'unificazione vi è stato un processo di deindustrializzazione e di smantellamento dell'economia nelle regioni dell'Est, con una disoccupazione di oltre il 20% e un'emigrazione di 2 milioni di persone. L'iniziale il processo di ristrutturazione venne affrontato con metodi burocratici e lenti e affidato ad una apposita agenzia, la Treuhandanstalt. La privatizzazione delle industrie di stato fu un vero fallimento e in breve tempo produsse perdite per 100 miliardi di euro.

    Dopo circa 10 anni la Germania però cambiò radicalmente rotta. Decise che era necessario un trasferimento di capitali, di conoscenza e di tecnologia, altrimenti quelle regioni depresse avrebbero corrotto e minato l'esistenza dell'intero paese.Si comprese che lo Stato avrebbe dovuto direttamente affrontare tale compito con un sostegno mirato per garantire il trasferimento di know how e di tecnologie per corridoi orizzontali tra laender, industrie e centri di ricerca.

    In certo senso la Germania ha saputo formulare una sintesi moderna ed efficace tra lo «stato imprenditore» di Enrico Mattei e la «planification indicative» di Charles De Gaulle per mettere quelle regioni in condizioni di affrontare le sfide dei mercati mondiali. Intelligentemente sono stati trasferiti gli standard istituzionali, legali e amministrativi della Germania occidentale, garantendo un forte impegno nella lotta contro la corruzione. Certamente l'innovazione e lo sviluppo delle conoscenze sono la base di ogni società moderna, ma, per una positiva performance economica di un paese, è essenziale la diffusione delle moderne tecnologie su uno spettro ampio di applicazioni industriali.

    La Germania ha messo in campo il meglio della ricerca pubblica: università, istituti per le scienze applicate e centri di ricerca. Questi ultimi, anche se parzialmente privati, gestiscono bilanci pari a un terzo delle spese statali per la ricerca scientifica e sono il vero asso nella manica dell'eccellenza tecnologica e dell'innovazione industriale tedesca. Per esempio, il Fraunhofer Gesellschaft, da solo conta oltre 17.000 ricercatori e impiegati distribuiti in 60 centri. Lo Stato ha anche impegnato la rete dei Technologietransferstelle per il trasferimento delle tecnologie dalla ricerca all'industria.

    Inoltre per frenare la fuga dei cervelli da quei territori ha realizzato un'intensa rete di trasporti e comunicazioni e creato la necessaria cultura del business prima ovviamente assente. Il risultato è quello di uno sviluppo in settori importanti quali i semiconduttori, i nuovi materiali, la chimica avanzata, l'ottica, le biotecnologie, il solare e il fotovoltaico.

    E in Italia? Senza voler importare modelli altrui sarebbe urgente realizzare un serio piano infrastrutturale materiale e immateriale per il nostro Sud per eliminare le attuali diseconomie che frenano investimenti e ritardano l'integrazione economica tra le varie realtà in Italia ed in Europa.

    Sarebbe auspicabile che sul tema Mezzogiorno si creasse davvero una unità di intenti a livello politico e una efficace e corretta sinergia comportamentale tra le amministrazioni regionali e il governo nazionale. Il mondo è profondamente cambiato e la persistente crisi finanziaria globale ha modificato gli assetti geopolitici ed economici. Si dovrebbe considerare che forse il Mezzogiorno potrebbe essere la salvezza dell'intera economia italiana.   

12.05.2010

Per un nuovo paniere di valute

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista


Il Seul Action Plan contiene un impegno dei paesi del G20 ad «astenersi da svalutazioni competitive sulle monete» che sembra essere un minimo accordo razionale contro le guerre valutarie. In realtà è lontano anni luce dalla necessaria e improcrastinabile riforma del sistema monetario internazionale.

Per dirla con la Angela Merkel «una politica che scommette di mantenere bassi i tassi di cambio e di favorire l'export in modo artificiale, alla fine danneggia tutti». In questo modo si creano inevitabili tensioni e distorsioni che indebolirebbero la ripresa economica globale.

Effettivamente si vive oggi senza un ordine monetario. Lo si sa dal 1971, l'anno in cui il presidente americano Richard Nixon decise di sganciare il valore del dollaro da quello dell'oro e di abbandonare il riferimento alle riserve auree per passare ad un sistema di cambi flessibili. La progressiva regressione dell'economia americana e il suo indebitamento, l'emergere dell'Unione europea e delle nuove potenze economiche dei paesi del Bric hanno successivamente reso sempre più insostenibile il ruolo del dollaro come unico strumento del commercio internazionale.

Tuttavia ancora oggi l'egemonia del biglietto verde c'è ed è sostenuta dal fatto che l'85% delle transazioni mondiali dei cambi ed il 62% delle riserve delle banche centrali sono in dollari. Il flusso di dollari che si registra quotidianamente sui mercati internazionali è di circa 4.000 miliardi. È amaro dover constatare il verificarsi dell'ammonimento dell'allora segretario del Tesoro di Nixon, John Connolly, che affermava: «Il dollaro è la nostra moneta ma è il vostro problema».

Prima si pensava che le riserve monetarie servissero per affrontare situazioni di emergenza valutaria nazionale e per pagare i disavanzi commerciali, oggi invece esse sono diventate quasi delle bolle di liquidità e strumenti di possibili pressioni sulle politiche monetarie dei paesi debitori da parte dei paesi creditori. I paesi emergenti hanno infatti circa 7.000 miliardi di dollari nelle loro riserve, 2.500 miliardi dei quali in possesso della sola Cina.

Mentre la Fed stampa dollari per pagare i debiti, dovremmo riflettere sul fatto che gli Usa aumentino nel contempo le loro riserve auree. Hanno 8.133 tonnellate di oro nelle loro riserve monetarie, mentre la Germania ne ha 3.412 , la Francia e l'Italia circa 2.450 ciascuna e la Cina 1.050 tonnellate. Il messaggio è chiaro. Non può essere frainteso: voi vi tenete i dollari, il cui valore sarà tutto da scoprire, noi l'oro, il cui prezzo è passato dai 34 dollari l'oncia del fatidico 1971 agli attuali 1.400 l'oncia! È un evidente atto di difesa contro il rischio di possibili grandi rivolgimenti.

Ciò pone con urgenza la necessità di riformulare l'intero sistema monetario internazionale. L'era del dollaro sta volgendo alla fine. Da tempo, non solo noi, sosteniamo la necessità di creare un paniere di valute. Al dollaro sarebbe opportuno affiancare altre monete come l'euro, lo yen giapponese, lo yuan cinese e nuove monete di riferimento di blocchi regionali emergenti per un nuovo e più regolato sistema dei cambi, dei pagamenti internazionali e delle riserve. Un sistema che deve combinare mercato e regole da parte degli stati che vi aderiscono.

Recentemente anche il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, lo ha proposto sulle pagine del Wall Street Journal.

In questo campo l'Europa, che è stata troppo ai margini delle discussioni anche nell'ultimo summit di Seul, potrebbe avere un ruolo molto importante e trainante. Prima di arrivare alla moneta unica, nel 1979 si istituì il Sistema Monetario Europeo (Sme) che potrebbe essere considerato per il nuovo sistema monetario mondiale multi polare. Lo Sme nasceva dopo il crollo del sistema di Bretton Woods e mirava a rafforzare l'unione dei paesi europei e a contenere le fluttuazioni tra le monete dell'allora Comunità Europea all'interno di una fascia di oscillazione del 2,25%. Fu creata anche un'unità di conto sintetica, l'Ecu, basata su un paniere di monete Cee in relazione alla loro forza economica e all'oro. È stato un sistema che ha funzionato abbastanza bene fino al 1992 quando cominciò a sfidare l'egemonia solitaria del dollaro e fu distrutto dalla speculazione più incontrollata.

Oggi un sistema monetario multi laterale basato su un paniere di monete e sull'oro non è più soltanto un'opzione desiderabile. È un'ineludibile necessità per evitare la crescente volatilità monetaria e finanziaria e per scongiurare atti di protezionismo aggressivo e il rischio di vere e proprie guerre monetarie.

12.02.2010

Una tassa sulle transazioni finanziarie

ECONOMIA
nelmerito.com

130 economisti italiani hanno firmato un appello per la l'introduzione di una tassa sulla transazioni finanziarie (TTF). L'idea di un provvedimento di questo tipo circola da alcuni decenni, sotto svariate forme, partendo dalla cosiddetta Tobin Tax

di Roberto Tamburini

Centotrenta economisti italiani (tra cui il sottoscritto) hanno firmato un Appello per la l'introduzione di una tassa sulla transazioni finanziarie (TTF).  L'idea di un provvedimento di questo tipo circola da alcuni decenni, sotto svariate forme, partendo dalla cosiddetta Tobin Tax, che porta il nome di uno dei più influenti economisti della generazione keynesiana, Premio Nobel del 1981. Questa volta il fronte favorevole va molto oltre alcuni circoli accademici demodé, movimenti terzomondisti o no global. Questa volta sono in prima fila alcuni capi di governo (come Sarkozy e Merkel), e di istituzioni internazionali (Barroso). In Italia è stato presentato un progetto di legge (20-10-2010) sostenuto da un ampio fronte bipartizan. Ecco perché è il momento di sostenere questa proposta.

    L'Appello espone sinteticamente le ragioni in favore della TTF, definendola "una questione di civiltà"1. Siccome questo genere di provvedimento non ha mai avuto successo planetario, infrangendosi contro cortine di obiezioni di principio, tecniche o pratiche, oltre che contro l'istintiva allergia della maggioranza della professione per interventi fiscali, l'Appello si apre con una serie di considerazioni alternative a tali obiezioni tradizionali, con rimandi ad alcuni interessanti studi empirici, tra cui uno del Fondo monetario internazionale (Thornton Matheson, "Taxing Financial Transactions: Issues and Evidence"). A questo proposito, nell'Appello viene opportunamente ricordato che varie forme di TTF sono già in vigore in 23 paesi del mondo, principalmente con lo scopo di finanziare i costi di funzionamento delle Borse locali.

    "L’entità delle somme raccolte varia sensibilmente ed arriva dallo 0.4 percento del Regno Unito nel 2009 sino al 2.1 percento del Pil nel caso di Hong Kong nel 2008. Numerose ricerche hanno studiato gli effetti della tassa dal punto di vista teorico. Alcuni critici temono che essa possa ridurre il valore delle attività finanziarie sottostanti, far crescere il costo del denaro e persino aumentare e non ridurre la volatilità dei mercati riducendo volumi e liquidità delle transazioni. Le simulazioni effettuate evidenziano però che l’impatto di una tassa molto piccola (dall’1 al 5 per 10000) avrebbe un effetto pressoché nullo sul valore delle attività finanziarie e sul costo del capitale. Inoltre gli effetti perversi sulla liquidità e sulla volatilità generati dalle modifiche dello spread tra denaro e lettera sarebbero tutt’altro che certi e dipenderebbero dalla forma di mercato degli intermediari di borsa".

    Detto che gran parte delle obiezioni tecniche e pratiche non sono corroborate da una solida evidenza empirica, rimane aperta la discussione su due punti cruciali: primo, il motivo per cui introdurre una TTF; secondo, il suo utilizzo. Il fatto che una TTF non sia nociva non è sufficiente per dire che sia utile. L'Appello tratta in misura limitata il primo punto, mentre dà molto rilievo al secondo. Il motivo più popolare a sostegno di una Tobin Tax è sempre stato quello della "lotta contro la speculazione finanziaria". Dati i tempi, non occorre sprecare tempo per spiegarne l'appeal politico da parte di capi di governo schiacciati tra la lobby finanziaria internazionale, i costi pubblici esorbitanti dei salvataggi del 2008-09, e il malcontento dei contribuenti elettori. Su questo punto, l'Appello è più specifico e motivato, e ci tornerò tra breve. Quanto all'utilizzo del gettito della TTF, nell'ipotesi più conservativa stimato intorno ai 200 miliardi di dollari, l'Appello punta decisamente sul "finanziamento di beni pubblici globali", come scolarizzazione, salute, nutrizione, microcredito e microfinanza. Anche qui non mancano variegate obiezioni intorno alla inefficacia o nocività degli aiuti internazionali, che l'Appello prende in considerazione. La chiave risolutiva rispetto al problema dell'efficacia degli aiuti si può sintetizzare in questo modo: una piccola imposta, prelevata a molti e distribuita a molti. Una tipica imposta liberal, insomma. Il modello di erogazione degli aiuti, naturalmente, è quello di successo del microcredito alla Yunus, ma non solo.

    Non mi soffermo più a lungo su questo tema, anche se è quello a cui viene dato maggior peso, perché vorrei invece tornare al punto relativo alle ragioni tecniche per introdurre, oggi, una TTF. Come dicevo, l'Appello dice qualcosa in più, ma non abbastanza, rispetto alla tradizionale "lotta alla speculazione finanziaria". Uno slogan, per la verità, che non ha mai portato fortuna ai movimenti pro Tobin Tax, anche perché, obiettivamente, debole e di difficile concretizzazione e realizzazione. L'Appello fa riferimento, en passant, ad un punto più specifico: "rallentare il volume via via crescente degli scambi ad alta frequenza in borsa effettuati automaticamente dagli algoritmi dei computer. Solo dal 2006 al 2009 il volume di queste transazioni automatiche è aumentato dal 30 al 60 percento sul totale degli scambi". Si tratta, invece, di un punto importante, che va al di là del segmento degli scambi computerizzati, e che va inserito nel quadro più generale delle ridefinizione degli strumenti di regolazione dei mercati finanziari seguita alla crisi.

    Per rendere più chiaro l'argomento, farò ricorso all'efficace analogia proposta da una nota economista finanziaria, Sheri Markose, dell'Università di Exeter (Gran Bretagna) in una recente conferenza internazionale tenutasi all'Università di Macerata: il rischio finanziario è diventato come l'inquinamento industriale. Nei manuali di economia pubblica si trova, immancabilmente, l'esempio di una fabbrica che, con i suoi scarti, inquina un fiume che passa nelle vicinanze, creando un danno per i cittadini del villaggio a valle, che nulla hanno a che vedere col business della fabbrica. L'esempio introduce al tema delle esternalità negative, gli effetti negativi indiretti su terzi dell'attività economica di un soggetto, tema che a sua volta rientra nella parte del manuale che tratta di uno dei fondamenti dell'economia pubblica, la correzione dei cosiddetti "fallimenti del mercato".

    Non ho intenzione di addentrarmi qui in questa materia altamente sofistica, ma forse chi ci legge e non è un economista di professione (cosa che auspichiamo) vuole capire meglio in che senso l'inquinamento industriale del fiume è, oltre che un problema ambientale, un "fallimento del mercato". La risposta, se si riesce a dire in parole semplici, è questa. Il prezzo di mercato a cui la fabbrica vende il suo prodotto comprende tutti i costi di produzione diretti (materie prime, salari, interessi, ecc.) ma non quelli dell'uso del fiume come discarica. Quindi, il prezzo di mercato è più basso di quanto sarebbe se includesse anche il costo di utilizzo del fiume, mentre la quantità fabbricata e venduta del prodotto è più alta. In senso preciso, possiamo dire "troppo alta". Una soluzione possibile, anche se non l'unica, è l'introduzione di un'imposta di fabbricazione che, per quanto possibile, trasferisca sul prezzo di vendita il "costo ombra" dell'utilizzo del fiume. Il risultato atteso è prezzo più alto, e consumo, produzione, inquinamento più bassi. Il prototipo di queste imposte è la carbon tax, che nelle sue molteplici incarnazioni ha avuto, e ha, un ruolo rilevante nelle politiche ambientali.

    Che c'entra l'inquinamento del fiume col rischio finanziario? Secondo la teoria dei mercati finanziari efficienti, non c'entra nulla. Infatti, il prezzo di mercato di prodotti finanziari rischiosi, dice la teoria, "incorpora" la valutazione della rischiosità, che viene per intero, e consapevolmente, trasferita sul compratore. Se il compratore subisce dei danni a causa del rischio contenuto nel prodotto ne paga le conseguenze, così come avviene coi rischi della guida di un auto (per altro, i rischi si possono assicurare, ecco perché i prodotti finanziari assicurativi derivati sono tenuti in così alta considerazione e stima dagli esperti, a differenza della quasi totalità della rimanente popolazione). In questo tipo di mercato ideale, il rischio non è mai "troppo" per ogni singolo soggetto, non ci sono esternalità negative, tutto viene "internalizzato" dal prezzo, e non c'è nessuna buona ragione pubblica d'interferire con esso.

    Se ora rileggete bene il paragrafo precedente, anche se non siete esperti di finanza ma avete letto i giornali, e magari in particolare NelMerito, negli ultimi due anni, vi accorgete sicuramente che la crisi del 2008-09 ha mostrato, oltre ogni ragionevole (disinteressato) dubbio, che il mercato finanziario globale ha prodotto risultati opposti a quelli previsti. La gran parte degli esperti ci ha spiegato che 1) produttori e consumatori di prodotti finanziari hanno assunto "troppi rischi", 2) i prezzi di questi prodotti erano drasticamente sbagliati, cioè non incorporavano una valutazione corretta del rischio, 3) c'è stata una crescita vertiginosa della produzione e dello scambio di questi prodotti, e quindi della massa totale di rischio (il cosiddetto rischio sistemico, o non diversificabile), 4) i prodotti e i mercati assicurativi derivati hanno contribuito al, e sono stati travolti dal, gigantesco fallimento del mercato, in quanto hanno alimentato l' "illusione finanziaria" più letale, la scomparsa del rischio (la nostra assicurazione auto non fa diminuire il rischio di un incidente o di un furto).

    Ciascuno di questi quattro fenomeni ha, a sua volta, delle cause più profonde; ma qui mi preme solo rilevare come essi abbiano reso il rischio finanziario molto più simile all'esempio della fabbrica inquinante del manuale di economia pubblica, che a quello del mercato efficiente del manuale di finanza. Sarà un caso, ma proprio nell'epicentro del "disastro ambientale", gli Stati Uniti, si è coniato il termine di toxic assets. Manca solo un ultimo elemento per completare il quadro: l'esternalità negativa. Eccola: si chiama contagio finanziario, un fenomeno noto dai tempi delle crisi bancarie scudate da Walter Bagehot (1826-1877), puntualmente verificatosi su scala planetaria nell'ultima crisi. Il villaggio a valle della fabbrica del rischio inquinante è composto dalla moltitudine di soggetti non direttamente coinvolti nella produzione e scambio dei prodotti tossici, ma che sopportano i costi del disastro ambientale: si va dai clienti (e dipendenti, azionisti, ecc.) d'istituzioni finanziarie sane (in genere, banche tradizionali collocate in posizioni periferiche) ai contribuenti che devono pagare il conto del risanamento.

    Alla luce di questi fatti, che possono essere ricostruiti e analizzati in maniera molto più approfondita, dovrebbero essere gli scettici a dover spiegare perché non introdurre una carbon tax finanziaria. Tocco rapidamente uno solo degli argomenti degli scettici, forse il più classico: la TTF sarebbe controproducente, perché viene trasferita sul prezzo (la pagano i piccoli risparmiatori finali) e riduce i volumi di transazioni (il mercato è meno liquido). Ebbene, questi sono proprio gli effetti attesi e desiderabili di una carbon tax. I piccoli risparmiatori possono essere poco lieti di pagare un po' di più servizi e prodotti finanziari, e utilizzarne di meno, ma questo è il modo per ridurre la loro esposizione al rischio, visto che non lo fa il mercato (o, più maliziosamente, il loro promotore finanziario). Il mercato sarà pure meno liquido, ma se la liquidità prosciugata è quella tossica, il risultato finale è desiderabile socialmente. Vorrei sottolineare che se l'obiettivo è questo, l'intervento fiscale corretto è proprio una TTF, e non un'imposta sui profitti degli intermediari finanziari, che non discrimina tra chi produce inquinamento finanziario e chi no. Anzi, un punto di forza di una TTF efficiente ed efficace può essere quello di andare a sostituire altre imposte.

    Si può obiettare che alti volumi di scambi non sono di per sé causa sufficiente dell'inquinamento finanziario; vero, ma essi sono una buona approssimazione, per ragioni tecniche che non è possibile approfondire qui, sia dell'accumulazione del rischio che della sua diffusione (vedi punto 3 precedente). Ricordo solo, a titolo di esempio, che nel momento del fallimento Bear Stearns (la prima vittima illustre della crisi) aveva qualcosa come 150 milioni di posizioni aperte con 5000 controparti, e che queste posizioni erano cresciute costantemente negli anni precedenti. Infine, una chiara identificazione degli obiettivi della TTF qui indicati ne renderebbe più semplice la comunicazione, e la scelta dell'utilizzo del gettito, tra cui includerei la costituzione di fondi di sicurezza, garanzia, risanamento, ecc., in alternativa al dispendio netto di risorse pubbliche aggiuntive.

    Queste considerazioni non devono far pensare che basti introdurre una TTF per risolvere il problema dell'inquinamento finanziario. Prima di tutto, ci sono molti problemi tecnici, seri e reali, che vanno affrontati per renderla efficace. In secondo luogo, essa va introdotta nel quadro più generale della riforma degli istituti e dei sistemi di regolazione e regolamentazione dei mercati. Tuttavia, non ricordo di aver mai letto argomenti tecnici forti contro una TTF che non fossero ribaltabili su qualunque altra imposta sulle transazioni, dall'IVA alle carbon tax vere e proprie. Mi pare giunto il tempo di smettere di credere e far credere che il mercato finanziario globale sia il regno intoccabile dell'efficienza e che, di conseguenza, qualsiasi "interferenza" sia inevitabilmente peggiorativa.   

Da Seul con un nulla di fatto

Economia
a cura di ItaliaOggi

Il G20 di Seul si è concluso con un colossale nulla di fatto.
Anzi possiamo dire che rappresenta un passo indietro
rispetto agli impegni presi nei summit precedenti.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

Il problema più recente della crisi globale, cioè il rischio di uno scontro sui mercati dei cambi e tra le monete, è stato accantonato per evitare una rottura internazionale. È una sostanziale ammissione di impotenza del G20, confermata anche dalla decisione di proseguire con incontri annuali invece che semestrali.

    Il prossimo G20 infatti si terrà in Francia a fine 2011. Sempre che non si verifichi qualche nuova emergenza. Anche sul fronte della riforma finanziaria e della governance si deve ancora passare ai fatti.

    Senza entrare nel merito della portata e dell'efficacia delle proposte, si può dire che Mario Draghi, in qualità di presidente del Financial Stability Board, ha correttamente sintetizzato la questione. Ha detto: «Abbiamo fatto molto, in breve tempo, con le regole. Ora occorrono le leggi». I governi e i parlamenti devono quindi approvare le leggi di attuazione per non lasciare solo sulla carta il lavoro finora fatto.

    In realtà il G20 è stato paralizzato dalla decisione, presa qualche giorno prima in modo autonomo dalla Federal Reserve di immettere nuova liquidità per ben 600 miliardi di dollari. Essa dovrebbe servire ad acquistare titoli di stato americano, mantenendo sempre più bassi i tassi di interesse per favorire la domanda e la ripresa dell'economia Usa. Le autorità americane hanno giustificato tale scelta con la mancata rivalutazione dello yuan cinese che penalizzerebbe le esportazioni Usa, favorendo nel contempo quelle cinesi.

    A nostro avviso tale affermazione non è del tutto fondata. In verità se c'è qualcuno che in questi giochi dei cambi rischia di essere penalizzato è l'Europa con il suo euro forte. Il bombardamento mediatico intorno alla ritrosia cinese sulla flessibilità del tasso di cambio è servito da cortina fumogena per presentare come inevitabile e necessario il «fait accompli» della Fed di stampare altra moneta.

    Basta la semplice lettura dei dati economici relativi alla bilancia commerciale americana per capire la portata meramente finanziaria dell'operazione. Nel periodo gennaio-settembre 2010, gli Usa hanno accumulato un deficit commerciale di circa 380 miliardi di dollari. Ma il problema è ben maggiore in quanto dalla composizione delle esportazioni americane emerge che esse sono rappresentate per il 30% da servizi, in particolare finanziari e assicurativi. che vantano un avanzo di oltre 110 miliardi. I settori produttori dei beni di consumo e dei beni capitali, invece, insieme registrano un disavanzo di quasi 500 miliardi!

    Gli Usa, per esempio, spendono 190 miliardi di dollari solo per importare petrolio grezzo. Se è vero che 200 miliardi del deficit relativo ai beni sono nei confronti della Cina, è altrettanto vero che i restanti 300 miliardi riguardano il resto del mondo: 60 verso l'Eu, 42 verso il Giappone, ben 45 miliardi verso l'Africa, ecc. Forse il dato che meglio rivela i problemi dell'economia americana è il deficit di 56 miliardi di dollari nel settore dei prodotti «advanced technology», ad alta tecnologia.

    Dovrebbe essere lapalissiano che la nazione più avanzata del mondo non può avere un deficit commerciale nelle tecnologie! Gli unici settori tecnologici che ancora «tengono» sono quelli dove gli Usa godono di un monopolio storico: quello aeronautico e quello bellico, che può contare su un budget ufficiale di oltre 700 miliardi di dollari (senza considerare gli extra).

    Perciò l'economia americana non arranca perché il valore dello yuan è basso e tanto meno può riprendere quota attraverso le svalutazioni competitive del dollaro. Come ha recentemente sostenuto Wolfang Schaeuble, il ministro delle Finanze tedesco, «il modello di crescita all'americana è nel mezzo di una crisi profonda». Non c'è stata una distorsione del sistema, ma si è all'inizio della fine di un modello insostenibile.

    Ciò non ci rallegra. Ma a Seul il presidente Barack Obama, sconfitto alle elezione di medio termine, è sembrato appiattirsi sulle posizione della Fed. Solo pochi mesi fa, presentando il bilancio 2011, aveva denunciato il fatto che il «moral hazard» del mondo finanziario e bancario avesse fatto lievitare il debito pubblico di ben 3.000 miliardi di dollari portandolo alla vetta dei 12.000 miliardi. Evidentemente il peso dei signori della finanza è ancora intatto. In America e non solo.   

11.16.2010

Settemila minatori d'Italia

LAVORO E DIRITTI
a cura di www.rassegna.it


Lavorano in oltre 70 imprese sparse in 13 regioni. Sono sempre di meno e continuano ad ammalarsi. Ma l'Italia ha bisogno delle risorse del sottosuolo. Una villetta contiene no a 150 tonnellate di minerali: cemento, stucco, cartongesso, piastrelle

di Sara Picardo

Sono settemila, i minatori d'Italia. Lavorano in oltre 70 imprese, sparse in 13 regioni, anche se la maggior parte si trova in Sardegna e in Piemonte. Hanno il volto scavato, simili alle rocce da cui estraggono minerali, metalli e metalloidi, come il piombo, lo zinco, il mercurio, l'antimonio, lo zolfo. Guadagnano in media 1.100 euro al mese, per 8 ore di lavoro sotto terra. Ora, grazie al nuovo contratto nazionale, la loro busta paga crescerà di circa 125 euro al mese. Abbastanza, ma non sufcienti da giusticare la durezza di un lavoro vecchio di secoli e di malanni. Sì, perché molti minatori si ammalano ancora di silicosi, come 100 anni fa, soffrono di patologie delle vie respiratorie e della pelle, di malattie delle ossa dovute all'umidità, in tanti portano sul corpo i segni degli incidenti occorsi sul luogo di lavoro.

    Nella sola zona del Sulcis, in Sardegna, dei 15.000 operai che negli anni cinquanta lavoravano nelle centinaia di miniere della zona, nessuno ha superato i 46 anni di vita. Quasi tutti vittime di tumori e silicosi. "Fare una stima di quanti siano oggi questi lavoratori è difcile – spiega Mario Di Luca, della Filctem Cgil nazionale –, perché accanto a una buona metà che opera in vere e proprie miniere, saline o cave grandi, ce ne sono altrettanti che prestano servizio in aziende piccole, che fanno anche estrazione dal sottosuolo, ma che non sono censite come vere e proprie miniere, prendono in appalto lavori per grandi opere e spesso impiegano manodopera precaria".

    Nella prima metà del secolo scorso, erano 2.990 le miniere nel nostro paese, il 98 per cento delle quali era scavata sotto terra, e impiegavano oltre 150.000 persone. "La situazione è notevolmente cambiata con il tempo – continua il sindacalista della Filctem – e quasi tutti i vecchi siti sono scomparsi. Alcuni sono passati in mano alle Regioni, che ne danno la concessione a grandi aziende, altri, come in Val d'Aosta, sono stati riutilizzati per scopi turistici, la maggior parte sono stati abbandonati e basta. Il problema è che così non sono solo andati dispersi posti di lavoro,ma anche professionalità, conoscenze, ricerca. Un vero e proprio patrimonio che oggi rimane solo nelle miniere del Sulcis o in quelle di talco della Val Germanasca, in Piemonte, ma di cui tanto rischia comunque di andare perduto".

    Eppure l'Italia ha bisogno delle risorse del sottosuolo, basti pensare al solo utilizzo industriale che se ne fa: una villetta contiene no a 150 tonnellate di minerali sotto forma di cemento, stucco, cartongesso, piastrelle. Un'automobile, di minerali ne contiene no a 150 chilogrammi: nelle gomme, nei materiali di plastica, nei nestrini. Ben il 50 per cento della vernice e della carta è composto da minerali. Così come le ceramiche e il vetro, che di minerali sono fatte addirittura al 100 per cento.

    "Poiché non c'è una politica mineraria nazionale, l'Italia non sa qual è il suo reale fabbisogno e ogni anno molte materie prime devono essere importate dall'estero, soprattutto per soddisfare i bisogni del settore automobilistico e cementifero", dicono ad Assomineraria, che raggruppa circa 20 imprese impegnate nell'estrazione di minerali solidi – sia di medie dimensioni, sia appartenenti a gruppi internazionali –, sparse su tutto il territorio italiano, per un totale di circa 3.600 addetti impiegati.

    Proprio la consorziata di Conndustria ha rmato il 19 ottobre, assieme ai tre sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil, l'ipotesi d'accordo del contratto nazionale di lavoro per il triennio 2010-2013, scaduto nel mese di marzo. "Lo scorso 5 novembre – osserva ancora Di Luca – abbiamo comunicato alla controparte industriale di aver sciolto la riserva relativa alla rma dell'intesa, una decisione che discende dal mandato ricevuto dai lavoratori del settore, i quali, riuniti nelle assemblee, hanno approvato l'ipotesi del rinnovo con una percentuale di adesione prossima al 100 per cento". Una decisione, quella di far votare l'accordo dagli addetti, che ha riguardato la sola Cgil: "Nonostante tutto – prosegue Di Luca –, il contratto appena rmato ci lascia soddisfatti per molti aspetti, anche se quello di minatore continua a essere un mestiere duro e usurante". L'intesa sottoscritta prevede un aumento medio sui minimi di 125 euro in tre tranche: in sostanza, nel triennio 2010-2013, entreranno nelle buste paga dei lavoratori 3.500 euro in più.

    Il lavoro nel comparto minerario italiano non ha certo i problemi di sicurezza presenti altrove (dalla Cina al Sud America, all'Africa), ma si svolge lo stesso in un ambiente insalubre e, per sua stessa natura, esposto al pericolo di frane o esplosioni da gas. La storia dei minatori cileni appena liberati dal sottosuolo ha riportato alla luce il problema anche nel nostro paese. Per questo è molto importante che nel contratto appena siglato siano state inserite delle novità normative in materia di prevenzione. "Le società committenti, è il caso delle manutenzioni, dovranno d'ora in avanti privilegiare le aziende più qualicate nel rispetto delle norme sulla sicurezza – afferma Gabriele Valeri, della segreteria nazionale Filctem –, così come negli appalti non si potranno esternalizzare le attività facenti capo al ciclo produttivo minerario".

    Sul versante del mercato del lavoro, la principale novità stabilita dal ccnl è l'abbassamento al 30 per cento del ricorso ai contratti a tempo determinato e a somministrazione e, in particolare, la loro trasformazione a tempo indeterminato, una volta trascorsi 44 mesi. "Altri due traguardi importanti – aggiunge Di Luca – riguardano la previdenza integrativa, per cui è previsto un incremento della quota interamente a carico delle aziende, e l'aggiunta della festività di Santa Barbara, la patrona dei minatori che si celebra ogni anno il 4 dicembre, anche per gli operai e non più solo per gli impiegati". Miglioramenti a parte introdotti dal nuovo contratto nazionale, quello che preoccupa maggiormente i minatori è il futuro del loro posto di lavoro: le miniere, a differenza delle cave a cielo aperto, sono patrimonio indisponibile dello Stato, in quanto reputate strategiche, e sono gestite dalle Regioni, che a loro volta le danno in concessione alle aziende in cambio di un canone.

    "Le aziende – argomenta Di Luca –, pur di non perdere la concessione, sono state no a oggi obbligate a estrarre minerale. Le cose stanno tuttavia cambiando, perché gli enti regionali, dopo il decreto Calderoli sul federalismo demaniale, che trasferisce alle autonomie locali le competenze su umi, laghi e miniere, potranno decidere di declassare una miniera al rango di cava, che a differenza della prima non è reputata strategica e di conseguenza alienabile e soggetta a contrattazione privata". Il concessionario, quindi, non sarebbe più obbligato a lavorare la miniera e a estrarre minerali e, senza avere più la certezza del titolo minerario avuta nora da questa sorta di monopolio, potrebbe addirittura decidere di chiudere i battenti e andarsene all'estero, lasciando l'industria italiana senza più le materie prime estratte dal sottosuolo e il paese senza più le miniere, con i loro ingegneri, tecnici, ricercatori e, soprattutto, minatori.

    Già diverse aziende manifatturiere hanno cominciato a delocalizzare le loro attività in Polonia e in Albania, dove si può contare su materie prime economicamente più vantaggiose, un costo del lavoro inferiore e su norme di sicurezza meno "puntuali". "Basta che a qualcuno si rompa un qualsiasi componente di un'automobile per rendersi conto di questa tendenza – sottolineano ad Assomineraria –: il paraurti, piuttosto che uno specchio retrovisore, spesso arrivano dall'estero. Tutto questo mentre il nostro sottosuolo è ricco di metalli e di minerali utili".     

11.15.2010

E IL PRESIDENTE CONSOB ?

"Ma il Governo, prima di dimettersi con grande sollievo per il Paese, non intende fare un'ultima cosa utile, che resterebbe peraltro tra le poche, ovvero procedere alla nomina del presidente della Consob?"

Lo chiede il senatore del Pd Stefano Ceccanti nella sua odierna interrogazione sulla mancata nomina del presidente della Consob da parte del governo, ricordando che "la carica del Presidente è vacante da più di quattro mesi e che "tale nomina deve essere effettuata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio stesso".

Dalla data di scadenza del mandato del Presidente fino al Consiglio dei Ministri di venerdì scorso "non si è presa alcuna decisione", - sottolinea Ceccanti - "facendo così trascorrere invano 4 mesi e 14 Consigli".

11.02.2010

Ue, è ora di investire

Economia
a cura di ItaliaOggi

Puntare su infrastrutture e innovazione.
La linea del rigore non è sufficiente.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

La linea di rigore della commissione europea guidata da Josè Manuel Barroso di multare i paesi dell'Ue che non rispettano i parametri del Patto di stabilità è necessaria ma insufficiente. Sarebbe utile se servisse a spingere i governi a una gestione più attenta delle risorse, senza abusare dello strumento del debito.

    Comunque, tale rigore rischia di rimanere una forte affermazione astratta se non si entra nei meccanismi veri dell'economia.

    La commissione dovrebbe prima di tutto modificare il suo approccio sulle spese per gli investimenti nelle infrastrutture rispetto a quelle correnti. Entrambe generano debito, se finanziate ricorrendo al credito. I debiti fatti per finanziare modernizzazioni tecnologiche e infrastrutture però produrranno nel tempo maggiore ricchezza collettiva. Dovrebbero quindi essere trattati come investimenti e non solo come costi. Occorre distinguere le varie categorie di debito pubblico prima di indicare regole e sanzioni. Non può valere il principio per cui «di notte tutte le vacche sembrano grigie».

    Anche perché i governi occidentali stanno ancora dibattendo sulla exit strategy dalla crisi e su come abbattere i livelli di debito pubblico pericolosamente cresciuti anche per finanziare i salvataggi delle banche. I paesi avanzati del G20 nel 2009 hanno in media aumentato il debito pubblico al 102% del Pil e raggiungeranno il 122% nel 2014. Per diminuire il debito, molti vorrebbero giocare con l'«inflazione controllata». Intanto tutti sono impegnati in tagli di bilancio che prolungherebbero la recessione e accentuerebbero le esplosioni sociali.

    Alcuni saggiamente propongono l'alternativa di accelerare la crescita attraverso investimenti a lungo termine in nuove tecnologie, infrastrutture, energia e ricerca che dovrebbero essere sostenuti dagli stati e da nuovi strumenti finanziari pubblici-privati con la raccolta dei risparmi e con le risorse finanziarie anche di banche e grandi fondi privati.

    Secondo noi, una delle ragioni di fondo della crisi è lo short-termism, cioè quella idea del mercato che punta sul «tutto e subito»! Negli anni passati ciò ha caratterizzato l'intero sistema con ricadute negative sui meccanismi della produzione e della finanza. Ha prima di tutto sottoposto le imprese al modello del cosiddetto shareholders' capitalism, alla massimizzazione immediata del valore delle azioni. Ciò ha prodotto lo scandalo dei bonus miliardari per i manager più spregiudicati.

    Lo short-termism era anche sollecitato dalla crescente liquidità a basso costo che ha invaso i mercati e ha esacerbato l'attività finanziaria speculativa a breve. La deregulation globale ha poi abbattuto gli argini che separavano le banche dalle imprese finanziarie, trasformando il rischio bancario in puro oggetto di affari per i mercati di capitale. Da ciò è scaturita l'eccezionale crescita del mercato dei credit default swap e degli altri derivati finanziari.

    Purtroppo anche le ultime riforme proposte dimostrano scarsa attenzione al ruolo degli investitori di lungo termine e ai loro progetti perché troppo rivolte ai vecchi comportamenti del mondo bancario e finanziario. Cercano di correggerne le manifestazioni più rischiose, ma di fatto sanciscono la superiorità della finanza sull'economia!

    Ciò ha portato Cassa depositi e prestiti, Caisse des depots, Kreditanstalt für wiederaufbau e Bei, istituzioni finanziarie che promuovono investimenti a lungo termine, a presentare a Bruxelles proposte per adattare le nuove regole alle esigenze degli investimenti a lungo termine. Esse sostengono che Basilea 3, per fabbisogni di liquidità e di capitale e standard contabili, è più punitiva nei confronti degli investitori di lungo termine rispetto alle banche che operano sul breve periodo.

    Senza iattanza riteniamo che prevalga il dominio del vecchio e fallimentare pensiero economico, nonostante Mario Monti suggerisca di «sviluppare un sistema legale europeo ad hoc per incoraggiare l'impegno degli investitori di lungo termine negli investimenti in infrastrutture». È la strada da imboccare con urgenza.       

10.26.2010

Adesso arrivano le banche zombie?

Alcune banche sono diventate molto dipendenti dalle emissioni di liquidità della Banca Centrale Europea . . .


di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista


La recente dichiarazione del governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, sul rischio rappresentato anche in Europa da certe «banche zombie» è veramente inquietante. Non tanto per il colore delle parole usate quanto per la pesante verità che esse nascondono.

Draghi ha detto che «alcune banche sono diventate molto dipendenti dalle emissioni di liquidità della Banca Centrale Europea, sono diventate addicted rispetto ai fondi ottenuti». Esse hanno preso a prestito a zero tasso di interesse la liquidità che la Bce da due anni sta fornendo a piene mani. Si tratta di una replica minore del «quantitative easing», cioè dell'espansione della base monetaria attivata dalla Federal Reserve americana.

I soldi ottenuti in prestito dalle banche sono stati utilizzati dalle stesse per operazioni ad alto rischio, con l'intento di un'immediata redditività finanziaria. Come abbiamo più volte sottolineato, certi settori più aggressivi del mondo bancario hanno sfruttato l'emergenza finanziaria per accaparrarsi fondi da «giocare» sui tavoli della speculazione. Proprio come prima della crisi.

Queste banche hanno abusato del moral hazard, sottovalutando i rischi e confidando sempre negli stati come creditori di ultima istanza. Cosa succederebbe se i tassi di interesse dovessero salire per contenere i rischi inflazionistici di una liquidità smisurata? Avremmo una nuova reazione a catena di collassi bancari innestata su un sistema fortemente indebolito da due anni di recessione e già enormemente indebitato.

Draghi dovrebbe dirci se simili zombie bancari esistono anche in Italia.

Di certo alcune banche irlandesi entrano a pieno titolo in questa categoria. L'anno scorso una parte dei loro titoli tossici, circa 80 miliardi di euro, furono trasferiti nella National Assets Management Agency (Nama), una sorta di bad bank messa in piedi dal governo di Dublino. Adesso si prospettano altri aiuti per circa 50 miliardi di euro per tamponare le nuove falle della Anglo Irish Bank e della Allied Irish Bank. L'Irlanda rappresenta un rischio concreto per l'Europa e per le banche internazionali, soprattutto europee, che sono esposte per 844 miliardi di dollari immessi nell'economia irlandese. Questo piccolo stato, con una popolazione pari a quella del Lazio, con un Pil in caduta libera e con un deficit di bilancio del 32% previsto nel 2010, è diventato una piccola «bomba atomica finanziaria». I primi a soffrire sono gli stessi irlandesi ma i rischi sono per l'intera Europa.

Si consideri inoltre che la Fed e la Bce sono in continua fibrillazione per la crescente bolla del debito pubblico degli stati. Entrambe hanno deciso di acquistare i rispettivi titoli di stato per evitare rischi di insolvenza, ma anche per cercare di contenere i tassi di interesse sui titoli stessi ed evitare buchi di bilancio più grandi. Dal programma di salvataggio della Grecia di maggio, la Bce ha acquistato circa 65 miliardi di euro di obbligazioni emesse dai singoli stati europei. Tanti, ma pochi rispetto agli acquisti di Treasury bond fatti dalla Fed.

Queste politiche hanno fallito il loro scopo di riportare l'economia globale fuori dalla crisi. Anche Obama ha riconosciuto che lo squilibrio del bilancio americano è insostenibile. Adesso si appresterebbe ad apportare tagli di bilancio che faranno sentire gli effetti negativi sulla produzione e sull'occupazione, mentre però la liquidità continua a rifluire verso i settori finanziari. È un mix esplosivo.

Perfino il Fondo Monetario Internazionale recentemente ha evidenziato il danno che l'eccessiva forbice di «bassi tassi di interesse e tagli di bilancio» produrrebbe nel breve periodo al sistema economico. E' anche da prendere come un serio avviso la recente ipotesi di studio sul rischio di «iper inflazione» fatta dall'International Accounting Standards Board (IASB), l'ente responsabile dei principi contabili internazionali.

Nonostante il tanto parlare di grandi riforme, il sistema finanziario continua ad operare come prima. Basti un dato. L'ultimo bollettino dell'Office of the Comptroller of the Currency ( Occ) americano sull'andamento dei derivati finanziari Otc conferma che a giugno, alla fine del secondo trimestre 2010, essi sono aumentati di 9 trilioni di dollari, pari al 3 % rispetto al trimestre precedente. Se l'economia americana va alla deriva con un deficit di bilancio di 1.500 miliardi di dollari, come è possibile che si tolleri un'ulteriore crescita della speculazione? Si avrà la forza di deliberare un'effettiva exit strategy a Seul il prossimo novembre?

10.20.2010

Basilea III - Molto rumore per poco . . .

Da GRANELLO DI SABBIA
riceviamo e volentieri pubblichiamo

di Angelo Baglioni

Banche e industriali sono per una volta d'accordo: Basilea III avrà un impatto restrittivo sull'economia, con il rischio di fermare sul nascere la ripresa. In realtà, l'effetto restrittivo sarà di breve periodo e limitato. Anche perché è previsto un lungo periodo di transizione. Semmai, l'accordo raggiunto domenica tra i governatori delle banche centrali è fin troppo prudente, permettendo così che elevati rischi di instabilità continuino a essere presenti ancora per molti anni nel sistema finanziario mondiale.

    L’accordo di domenica tra i governatori delle banche centrali ha suscitato molte reazioni, spesso in contrasto tra di loro. Da un lato, gli ambienti bancari e industriali si trovano, per una volta, alleati nel sostenere che Basilea III avrà un impatto restrittivo sull’economia, poiché provocherà una stretta creditizia che a sua volta “strozzerà” la ripresa sul nascere. In realtà, l’impatto restrittivo di breve periodo, legato alla fase di transizione, sarà limitato, soprattutto se confrontato con i benefici di lungo periodo. Dall’altro lato, le autorità presentano l’accordo come adatto a garantire la stabilità finanziaria. A ben vedere, l’accordo si muove nella giusta direzione, ma è ancora troppo poco, consentendo che elevati rischi di instabilità continuino a essere  presenti ancora per molti anni nel sistema finanziario mondiale.

 COS'È BASILEA III - Basilea III prevede un aumento del rapporto tra il capitale di una banca e le sue attività ponderate per il rischio: queste sono i prestiti e i titoli che la banca detiene, ciascuno moltiplicato per un “peso” tanto più alto quanto maggiore è la sua rischiosità. Il capitale è una garanzia di stabilità, perché assorbe le eventuali perdite di valore dell’attivo (dovute ad esempio al fatto che un debitore non restituisce i soldi che la banca gli ha prestato); quanto maggiore è il capitale, tanto minore è la probabilità che una banca fallisca. La misura più importante approvata domenica richiede che il capitale ordinario (azioni emesse e utili accantonati) debba essere pari ad almeno il 7 per cento dell’attivo ponderato, rispetto all’attuale 2 per cento. Se una banca non rispetterà questa soglia minima, subirà restrizioni nella distribuzione di dividendi agli azionisti e di bonus ai manager. L'inasprimento del requisito di capitale ordinario è significativo. Tuttavia, è diluito in un lungo periodo di transizione: il nuovo vincolo sarà a regime solo nel 2019.

    Lo stesso Comitato di Basilea ha quantificato l’impatto di un inasprimento del requisito patrimoniale. Secondo le sue stime, un aumento di un punto percentuale del livello minimo di capitale, introdotto nell’arco di quattro anni, porterebbe a una minore crescita del Pil pari allo 0,2 per cento e a un incremento del costo del credito bancario di 15 centesimi di punto. Questi effetti si produrrebbero alla fine del periodo di transizione e sarebbero temporanei, essendo dovuti alla fase di aggiustamento del sistema bancario alle nuove regole; sono quindi destinati a svanire successivamente. L’accordo di domenica prevede sì un aumento del livello minimo di capitale ordinario di cinque punti, ma concede alle banche un periodo di otto anni per adeguarsi. Ciò significa che avranno il tempo per rispondere alla nuova regolamentazione incrementando gradualmente la propria base azionaria e accantonando utili, piuttosto che riducendo il credito disponibile all’economia. In ogni caso, la più pessimistica previsione attribuirebbe all’inasprimento del requisito patrimoniale la capacità di portare a una temporanea minore crescita del Pil di un punto percentuale (0,2% * 5) fra otto anni.

TROPPA TIMIDEZZA - L’impatto restrittivo di Basilea III è quindi molto dilazionato nel tempo e non dovrebbe interferire con le prospettive di ripresa attuali (se sono deboli nel nostro paese, è per altri motivi). Ma soprattutto, il costo transitorio va confrontato con i benefici di lungo periodo.

    La crisi recente ci ha insegnato che i costi dell’instabilità finanziaria possono essere molto elevati: le reazioni a catena scatenate dalla crisi dei mutui subprime del 2007 sono costate all’Italia una contrazione del Pil di cinque punti percentuali l’anno scorso.

    L’accordo di Basilea III va nella giusta direzione: punta a ridurre la probabilità che una crisi come quella recente si ripeta in futuro. Lamentarsi dei costi da sostenere durante la fase di transizione rivela una notevole miopia.

   Piuttosto, bisogna dire che quella direzione è stata presa con troppa timidezza. Non solo per la lunghezza del periodo di transizione, che consente alle banche di procrastinare nel tempo la necessaria ricapitalizzazione, ma soprattutto perché fornisce indicazioni ancora vaghe su due problemi cruciali.

    Primo, l’esistenza di un requisito patrimoniale (Basilea I e II), definito come rapporto minimo tra capitale e attivo ponderato per il rischio, non ha impedito a molte banche di raggiungere una leva altissima, accumulando un attivo non ponderato per un valore pari a molte decine di volte rispetto al capitale. Ciò ha creato una situazione molto pericolosa, accrescendo il rischio di insolvenza e generando come reazione una rapida riduzione della leva dopo lo scoppio della crisi; proprio questo processo di de-leveraging ha contribuito a estendere l’ampiezza della recessione.1)Perciò è urgente introdurre un limite alla leva (leverage ratio). Questo è stato invece individuato solo in via preliminare, rinviandone la definizione al 2017, in previsione della sua entrata in vigore nell’anno successivo.2)

    Il secondo problema è legato al rischio di liquidità. Ancora una volta la crisi scoppiata tre anni fa è stata illuminante. Fin dal suo inizio, ha messo in evidenza la difficoltà di molte istituzioni finanziarie a reperire con la dovuta rapidità le risorse liquide necessarie per fare fronte alle passività a breve termine. Ciò ha spesso costretto gli intermediari a vendere attività poco liquide, aggravandone la caduta dei prezzi e innescando in una spirale negativa. Le banche centrali sono intervenute massicciamente per arginare questa spirale, ma con successi limitati e ritardati nel tempo. È necessario quindi limitare il rischio di liquidità a cui una banca si può esporre. Su questo fronte l’accordo di domenica si limita a dire che l’anno prossimo inizierà un periodo di osservazione, in vista dell’introduzione di un coefficiente di liquidità nel 2015, senza specificare neppure in via preliminare un criterio quantitativo: troppo poco per una questione così cruciale.


1) Il contributo della ciclicità della leva bancaria all’ampiezza delle fluttuazioni economiche è stato discusso in un precedente articolo.

2) Nei prossimi anni verrà testato un limite alla leva (definita come rapporto tra totale attivo non ponderato e Tier 1 capital) pari al 33,3 per cento.       

10.12.2010

Si può fare di più

Economia
a cura di ItaliaOggi

Le misure licenziate al comitato dei banchieri "Basilea 3" di per sen non basta a farantire una maggiore dtabilità del sistema finanziario internazionale se non vengono introdotti poi dei controlli efficaci.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

Speriamo, non solo per scaramanzia, che l'annuncio di Basilea 3, che coincide con il secondo anniversario della «morte» della Lehman Brothers, non porti male. La riforma verrà sottoscritta dai 27 banchieri centrali del Comitato di Basilea al summit G20 di Seul a novembre.

    Ma più che oggetto di accordo vero, per il momento sembra essere fonte di polemiche tra i differenti sistemi bancari.Indubbiamente è positivo che l'accordo metta una pietra sopra il Basilea 2, che, in preda ad una strana euforia, aveva irresponsabilmente abbassato gli argini dei flussi di liquidità nel mondo della finanza e aperto i saloon del Far West della speculazione.

    Allora il tasso Tier 1, cioè il rapporto tra il patrimonio della banca (capitale azionario più riserve di bilancio) e le sue attività ponderate in base al rischio, era al 2%. Oggi, invece, si propone di aumentare il capitale vero, cioè i soldi da usare per eventuali perdite, al 4,5%, cui va aggiunto un ulteriore cuscinetto del 2,5% per affrontare situazioni di emergenza finanziaria. I nuovi parametri però saranno completamente operativi soltanto entro il 2019. Il che suscita molte perplessità.

    Per capire la portata del cambiamento, si ricordi che nel 2008 la JP Morgan Chase Bank NA, la più grande banca americana, aveva 170 miliardi di dollari di capitale, 1.670 miliardi di attività e 79.000 miliardi di derivati Otc. Il suo capitale era il 10,2% delle attività e lo 0,21% dei suoi derivati in essere. La Goldman Sachs con un capitale di 64 miliardi di dollari aveva Otc per 42.200 miliardi. In pratica il suo capitale era appena lo 0,15% degli Otc. Perciò c'è da chiedersi: con Basilea 3, che peso avranno gli Otc nella definizione del Tier 1?

    Inoltre, la britannica Royal Bank of Scotland, che nel 2008-2009 venne salvata dal fallimento con il bailout più costoso al mondo da 74 miliardi di dollari, aveva un Tier 1 del 4%. Le banche più aggressive ed esposte nelle speculazioni in derivati hanno sempre contato che in caso di default «avrebbe pagato Pantalone». Infatti gli stati sono stati considerati come «creditori di ultima istanza» per le banche fallite.

    Quasi tutti i settori bancari internazionali lamentano che Basilea 3 farebbe aumentare il costo del denaro e diminuire il flusso di crediti alle imprese. All'interno del mondo bancario internazionale è poi emerso una sorta di sciacallaggio. Le banche americane, ad esempio, rimpinguate con i soldi dei salvataggi pubblici pensano di star meglio e godono nel sentire le lamentele delle concorrenti europee. Mostrano aggressività probabilmente per evitare che il mondo comprenda fino in fondo il drammatico significato del debito globale americano, quello pubblico sommato a quello delle famiglie e del business, che oggi è di 52.000 miliardi di dollari!

    Certamente molte banche europee, abituate a rapporti privilegiati con i governi, resistono ai cambiamenti. L'Anglo Irish Bank è già costata al governo irlandese 22 miliardi di euro, ma la perdita totale potrebbe arrivare a 35 miliardi. Le banche tedesche in particolare hanno 800 miliardi di euro di titoli tossici ancora da smaltire e temono attacchi finanziari destabilizzanti interni al mondo bancario. Ma, a differenza dell'economia americana, quella tedesca non soffre di insolvibilità.

    In ogni modo, i più alti tassi Tier 1 da soli non potranno evitare altre crisi. Servono regole, controlli e supervisione efficace. Un aspetto essenziale riguarda le regole contabili con cui vengono valutati e riportati in bilancio gli attivi delle banche. Quanto valgono i titoli tossici? Il loro valore nominale o quello di mercato, mark to market? In quest'ultimo caso centinaia di miliardi sparirebbero dai bilanci delle banche dall'oggi al domani.

    L'altra questione importante resta il rischio sistemico che coinvolge sì le banche «too big too fail», ma anche certi settori finanziari non bancari poco o per niente regolati. Si ricordi che tra gli attori primari della crisi finanziaria Usa vi erano i due colossi delle ipoteche immobiliari, Fannie Mae e Freddie Mac, che erano stati esentati dal rispettare le regole di Basilea 2. Oggi, sotto l'amministrazione controllata del governo, non sono sottoposte alle regole delle nuova riforma finanziaria Dodd-Frank e continuano a lavorare nelle settore dei mutui casa con i vecchi metodi!

    Certamente le cose non possono continuare come prima della crisi. Perciò i tempi di attuazione delle regole, la sterilizzazione dei derivati, i controlli non possono essere ignorati nel prossimo G20 di Seul se si vuole evitare nuove possibili crisi sistemiche.       

10.04.2010

Monete, commodities e governance

Il 12 novembre prossimo la Francia assumerà la presidenza del G20 e meno di due mesi dopo, cioè dal primo gennaio del 2011 anche quella del G8. Il presidente Nicolas Sarkozy si sente investito di una missione storica, come ai tempi di de Gaulle. Nelle sue intenzioni c'è il disegno di fare dell'Unione Europea un attore globale. Ma di questi problemi quando si discuterà in Parlamento?


di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista


A fine agosto all'incontro con gli ambasciatori e diplomatici francesi convocati all'Eliseo, ha tracciato la sua strategia. Al di là delle solite esagerazioni verbali galliche, , il programma di lavoro di Sarkozy merita però un'attenta considerazione. Prima di tutto ha rigettato l'idea dei molti che ancora vorrebbero un ritorno al tran tran abituale. Il presidente francese ha indicato i temi di grande portate internazionale da affrontare con determinazione.

Il primo riguarda la riforma del sistema monetario internazionale. Dopo la caduta di Bretton Woods nel 1971, «noi viviamo in un non-sistema monetario internazionale», ha detto. nel proporre non un ritorno ai cambi fissi, ma la realizzazione di adeguati strumenti per evitare l'eccessiva volatilità delle monete. Se per arrivare all'accordo di Bretton Woods ci volle un anno di lavori, oggi Sarkozy suggerisce l'organizzazione di un seminario internazionale di esperti da tenersi in Cina per approntare proposte per la riforma monetaria. Nuovi meccanismi internazionali di garanzia e controlli sui movimenti di capitali dovrebbero far parte di un sistema di regole multilaterali. Sarkozy lavorerebbe per il superamento del sistema monetario dominato da una sola moneta, il dollaro, anche perché il mondo da molto tempo è divenuto multi polare. Questo è un tema non più rinviabile, come anche noi abbiamo in passato evidenziato.

Il secondo tema mira a creare dei meccanismi per neutralizzare il rischio della volatilità dei prezzi delle materie prime che condiziona pesantemente l'economia dei singoli paesi. Bisogna partire dalla regolamentazione dei mercati dei derivati sulle commodities, sulla scia delle nuove regole proposte per contenere i derivati finanziari.Il presidente francese giustamente ritiene che la speculazione sulle materie prime e il cibo rappresenti il pericolo più grave di destabilizzazione economica e sociale.

Il terzo tema verte sulla governance globale: Sarkozy prefigura la creazione di un segretariato permanente del G20 con il compito di attivare le decisioni prese collegialmente e per preparare i dossier di lavoro, coinvolgendo tutte le altre organizzazioni internazionali. Tra le priorità, mette anche la tassazione sulle transazioni finanziarie e la riforma di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale.

È un progetto molto ambizioso, ma noi riteniamo che contenga alcune proposte di riforma essenziali, che meritano il necessario sostegno, anche da parte dell'Italia. Questa visione strategica è in gran parte condivisibile, pur non approvando tutte le decisioni di politica economica sostenute da Sarkozy in sede nazionale ed europea.

Noi riteniamo che la portata della crisi richieda una grande riforma dell'economia e della finanza globale e che perciò si debba assolutamente raggiungere un'intesa complessiva tra interessi e posizioni differenti senza scadere nei soliti deludenti compromessi costruiti sui minimi comun denominatori.

Nel suo discorso Sarkozy ha però mostrato un'idea dell'Europa imperniata sulla solita alleanza tra Francia e Germania.E questo è un grave limite se si vuole rendere l'Europa, tutta l'Europa protagonista della svolta necessaria. Ma di questi problemi quando si discuterà nel nostro parlamento?

9.22.2010

L'ombra degli speculatori sull'Italia


Economia
a cura di ItaliaOggi

Fa un certo effetto vedere «Italy» in cima alla lista dei paesi oggetto di interesse da parte di chi opera e specula in Credit Default Swaps (Cds), i derivati finanziari che dovrebbero fungere da assicurazione contro i fallimenti.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

Erano diventati noti nel mezzo della crisi greca, quando si temeva il default dei debiti sovrani ellenici. Allora, per garantirsi da questo rischio, un contratto quinquennale Cds sui bond di Atene per un valore di 10 milioni di euro costava a giugno 970 punti, cioè 970.000 euro all'anno. A marzo erano 300 punti. Oggi, dopo il salvataggio europeo della Grecia e la creazione di un fondo speciale d'intervento Eu per 750 miliardi di dollari, un simile Cds sui bond greci si paga ancora quasi 850.000 euro. È come un termometro che si può manomettere alterando la temperatura.

    L'ultimo rapporto ufficiale della International swaps and derivatives association (ISDA) indica che sull'Italia vi sono Cds per un valore nozionale di 242, 6 miliardi di dollari. E i punti base del costo sono intorno ai 240. Mentre a marzo 2009 erano 158, saliti già a 220 nel turbolento marzo scorso.

    Il secondo paese europeo sulla lista, dopo l'Italia, è la Spagna, con Cds per un valore nozionale di 113 miliardi di dollari. Dai bollettini si può notare che i costi per i Cds sono in costante crescita sia per l'Italia che per la media europea. Dai dati risulta anche che i maggiori operatori ribassisti sul debito italiano sono 4 grandi hedge fund americani, tra cui spicca quello di Soros.

    Ricordiamo che nel 1992 il finanziere speculatore George Soros, per sua stessa ammissione, scommise enormi somme sul collasso dell'allora sistema monetario europeo e di alcune monete, tra cui la lira, provocando sia la fine dell'accordo monetario che una gigantesca svalutazione della nostra moneta.

    Dai resoconti dell'Isda si evince anche che banche e corporation americane e città e stati degli Usa sono menzionati nella lista per valori paragonabili a quelli di grandi paesi. Contro il pericolo di default della JP Morgan Bank, per esempio, ci sono Cds per 84 miliardi di dollari. Vi sono poi decine di miliardi di Cds sul rischio insolvenza dei residential mortgage-backed securities (Mbs), i famigerati titoli tossici legati ai mutui subprime. Si scopre che i costi dei Cds per la California sono superiori a quelli del Portogallo. Per assicurasi contro l'eventuale collasso dello stato dell'Illinois bisogna pagare più che per l'Irlanda. Assicurare il debito di New York costa più che per l'Italia.

    Ciò deve indurre a riflessioni più attente. Siamo certamente in una grave crisi globale che attanaglia tutti, Europa compresa. Non possiamo nascondere il grave problema del debito pubblico europeo, ne tanto meno quello dell'Italia che si avvicina al 120% del Pil. Nondimeno, a differenza dal debito americano, quello europeo e italiano è stato fino ad oggi in gran parte coperto dai risparmi dei cittadini, che comprano Bot o Cct. Il crescente debito pubblico e privato americano, invece, dipende da investitori internazionali, come la Cina, oppure dagli acquisti fatti dalle banche americane con i prestiti concessi dalla stessa Federal Reserve a tasso zero.

    Infatti, a livello mondiale oltre il 40% di tutti i titoli in scadenza sono americani. Per immaginare le dimensioni globali si consideri che soltanto il sistema bancario europeo, secondo uno studio della Deutsche Bank, ha titoli di debito in circolazione per circa 5.000 miliardi di euro, di cui più di 1.500 miliardi in scadenza entro il 2012. Ecco perché gli hedge fund americani, legati alle grandi banche, hanno buon gioco a speculare contro l'Europa! Di conseguenza, alzare il rischio Europa inevitabilmente comporta lo spostamento degli investitori verso altri lidi. Quando la coperta è corta, bisogna fare attenzione se qualcuno, di nascosto, la tira dalla sua parte.

    Occorre inoltre ricordare che, poiché le operazioni in derivati «nudi» e short (al ribasso) sono a tutt'oggi permesse, gli speculatori possono comprare contratti Cds su titoli che non possiedono, scommettendo sul loro deterioramento finanziario. Facendo salire progressivamente i costi dell'assicurazione contro il fallimento, possono lucrare sulla differenza.

    Ecco perché i governi, in primis quelli europei, sulla questione dei titoli di debito, dei Cds e degli hedge fund speculativi non possono essere molli, lenti o peggio accondiscendenti. Ne va della sopravivenza degli stessi stati e del benessere della collettività.

    Urge l'immediata entrata in funzione delle nuove recenti autorità europee di vigilanza. Così come impellenti sono le regole su derivati Otc, short selling, hedge fund, e altri rilevanti questioni finanziarie su cui la Commissione Ue è chiamata prossimamente a decidere. Auspichiamo che anche il governo italiano sia più deciso in merito. L'Italia ha il dovere di impegnarsi in sede europea con maggiore convinzione. Procrastinare l'intervento per lasciare le cose come stanno, cioè senza regole, sarebbe un segno di debolezza e un invito agli speculatori ad affondare la lama nel cuore dell'Europa.     

6.28.2010

Union bonds, la soluzione per tornarae a crescere

 
 
 
Anche Bassanini, presidente Cdp, ha proposto di trasferire in obbligazioni Ue il 15-20% del debito dei paesi

di Mario Lettieri *) e Paolo Raimondi **)

Recentemente i presidenti delle Casse depositi e prestiti europee hanno congiuntamente stigmatizzato le politiche fiscali e restrittive decise dai governi europei dopo le recenti crisi nell'eurozona. Le motivazioni per le riforme strutturali sono comprensibili. Ma, hanno detto che esse «avranno un effetto negativo sulla crescita, rendendo ancora più difficile l'aggiustamento richiesto, con il rischio di forti tagli agli investimenti». Secondo i presidenti, «la priorità dei policy maker europei dovrebbe essere invece sostenere una crescita di lungo periodo».
Coerentemente, le Cdp europee e gli altri attori internazionali, quali la Banca europea per gli investimenti, hanno da poco più di un anno creato il Long Term Investments Club, che il 17 giugno a Roma ha tenuto la sua seconda conferenza pubblica presso l'Accademia dei Lincei alla presenza del presidente Giorgio Napoletano e del ministro dell'economia Giulio Tremonti. L'assoluta novità è stata la partecipazione di delegazioni della Russia, della Cina e del Marocco. Gli autori erano tra gli ospiti del convegno.
    Nel 2014 il rapporto tra debito pubblico e Pil per l'intero gruppo dei paesi del G20 sarà mediamente del 101,8%. Secondo le stime del Fmi, questa percentuale raggiungerebbe il livello del 245% in Giappone, del 108% negli Usa e del 100% nell'eurozona. In Italia si ipotizza il 128,5%. Il debito pubblico tenderebbe quindi ad assorbire sempre più quantità di capitali e di risparmi. Ciò determinerà un'inevitabile competizione, anche con le banche e corporation private, per piazzare le obbligazioni sui mercati internazionali.
È uno scenario preoccupante nel quale sono penalizzati gli investimenti produttivi e la crescita dell'economia.
    Il presidente della Cdp, Franco Bassanini, nel suo paper preparato con l'economista Edoardo Reviglio, ha sottolineato i pericoli insiti nei tentativi di ridurre il debito pubblico attraverso politiche di inflazione pilotata o di meri tagli di bilancio. La prima opzione potrebbe provocare «nuove pazzie ideologiche», mentre nel secondo caso, come dimostrano le esperienze dei passati 15 anni, condoni fiscali, privatizzazioni e altre operazioni contabili non sono riusciti a raddrizzare i conti.
    Per l'Europa l'unica via d'uscita dalla crisi economica e del debito è la crescita reale del Pil attraverso una politica di investimenti a lungo termine nei settori delle infrastrutture, dell'energia e delle modernizzazioni tecnologiche. Ed è appunto in quest'ottica che le Cdp europee, forti di un volume di capitali di oltre 1.300 miliardi di euro, sono impegnate a definire nuove strategie e promuovere nuovi strumenti di intervento.
La domanda mondiale di investimenti in energia, ambiente e infrastrutture è enorme. Solo nel campo dell'energia si calcola che sarebbero necessari investimenti per 26 trilioni di dollari entro il 2030. Per quanto riguarda l'Europa, la Banca mondiale stima la necessita di investimenti annui di 40 miliardi di euro in nuove infrastrutture (produzione energetica, telecomunicazioni e trasporti) e 60 miliardi per la manutenzione e il rimpiazzo di quelle già esistenti.
    Se tali stime sono realistiche, aumenterà la domanda di prodotti di investimento a lungo termine e a basso rischio da parte di fondi pensione, assicurazioni, fondi sovrani e anche dei piccoli risparmiatori.
    Il Long Term Investment Club ha già creato degli strumenti appropriati per far fronte a queste grandi sfide. Uno di questi è la creazione della rete Marguerite di fondi equity per investimenti mirati in specifici settori economici e aree geografiche, come quella Mediterranea. La finalità delle scelte delle Cdp è quella di coinvolgere capitali privati, con la creazione di partenariati pubblico privato (Ppp), che, in cambio di profitti contenuti ma sicuri, potrebbero contribuire alla crescita dei vari paesi, abbandonando le sirene dei mercati speculativi.
Le Cdp puntano anche alla emissione di specifiche obbligazioni in relazione a singoli progetti europei e a nuovi sistemi di garanzia, che possono avere la fiducia di investitori privati. Un altro strumento è l'European Joint Undertaking, già sperimentato nella realizzazione del programma satellitare europeo Galileo.
    Particolarmente innovativa è la proposta delle «Union bonds», strumenti di debito sovrano europeo, che, se finalizzate agli investimenti invece che alle spese correnti, non peserebbero sulle finanze pubbliche. In merito il presidente Bassanini ha proposto ai paesi europei di trasferire il 15-20% del loro debito pubblico in Union Bonds. Ciò creerebbe un mercato di obbligazioni di circa 2-3 trilioni di euro. Anche se con tassi di interesse più modesti, sarebbero più appetibili per gli investitori internazionali perché avrebbero il marchio europeo e non dei singoli paesi. Questi però dovrebbero continuare a pagare interessi come se fossero i loro vecchi bonds. La differenza tra gli interessi delle vecchie e delle nuove obbligazioni, calcolata in 8/9 miliardi di euro all'anno, dovrebbe andare a finanziarie investimenti a lungo termine in infrastrutture.
    Sembra una credibile exit strategy europea dalla crisi, che del resto riprende idee sostenute in vari occasioni già da Jacques Delors, da Romano Prodi e più recentemente da Giulio Tremonti.

*)   Già sottosegretario all'economia nel governo Prodi

**) Economista

6.14.2010

Da Bankitalia "incertezza" sulla manovra economica

Potrebbe causare una riduzione del PIL
di Lucia Cocozza *)

Bankitalia ha pubblicato in questi giorni una ricerca nella quale si evidenzia come la manovra economica potrebbe causare una riduzione del PIL. Ad affermarlo è stato il capo ricerca economica di Bankitalia, Salvatore Rossi, che ha dichiarato:
“A parità di tutte le altre condizioni, nel biennio 2011-2012 la manovra potrebbe cumulativamente ridurre la crescita del Pil di poco più di mezzo punto percentuale attraverso una compressione dei consumi e degli investimenti. Nelle nuove condizioni di mercato era inevitabile agire al più presto, pur se le restrizioni di bilancio rallenteranno nel breve periodo la già modesta crescita dell’economia italiana”.

    Secondo Bankitalia, quindi, è strettamente necessario “rafforzare il potenziale di crescita dell’economia favorisce lo stesso riequilibrio duraturo dei conti pubblici. A questo fine occorre estendere l’occupazione, rafforzare in modo strutturale la produttività e la competitività del sistema. Inoltre saranno cruciali le modalità di realizzazione del federalismo fiscale, da volgere all’aumento di efficienza nell’uso delle risorse nel rispetto dei vincoli di bilancio“.

    Per quanto concerne l’andamento tendenziale da Bankitalia fanno sapere:
    “La manovra ridurrebbe l’indebitamento netto di 1,6 punti percentuali del Pil nel 2012 portandolo al 2,7 per cento del Pil. La minor crescita però retroagirebbe sui conti pubblici determinando un maggior disavanzo valutabile in poco meno di 0,3 punti percentuali che porterebbe il saldo di quell’anno a circa il 3 per cento del Pil. L’incidenza del debito sul prodotto crescerebbe marginalmente nel 2011 e riprenderebbe a scendere nel 2012. L’entità della correzione appare adeguata a raggiungere gli obiettivi di indebitamento netto nel quadro macroeconomico delineato nella Ruef (Relazione unificata economia e finanza). Potrebbero essere necessari ulteriori interventi qualora si presentasse uno scenario più sfavorevole. La manovra – ha proseguito Rossi - è basata in larga misura su riduzioni della spesa corrente e su misure di contrasto all’evasione. Questa composizione degli interventi appare appropriata, visto il rilievo dell’evasione fiscale nel nostro paese e il forte aumento della spesa corrente nell’ultimo decennio“.

    Incertezza Bankitalia esprime anche sulle misure relative all’evasione fiscale, sottolinenado come i risultati potrebbero essere inferiori a quanto annunciato.

    “Le stime riguardanti gli effetti dell’azione di contrasto all’evasione presentano molti elementi di incertezza in entrambe le direzioni. Il sistema fiscale italiano è caratterizzato da un prelievo complessivo a carico dei contribuenti onesti elevato nel confronto internazionale. L’evasione fiscale è un freno alla crescita, riduce le risorse per le politiche sociali, ostacola gli interventi a favore dei cittadini con redditi modesti”.

*) www.economiablog.it