3.30.2011

18 miliardi dall'imposta sulle grandi ricchezze

a cura di rassegna.it La proposta del sindacato: una tassa ordinaria ispirata al modello francese, con una previsione di imposta mediamente dell'1,0% a carico delle famiglie con una ricchezza complessiva sopra gli 800mila euro. Colpirebbe solo il 5% più ricco degli italiani Una tassa ordinaria sulle Grandi Ricchezze ispirata al modello francese, con una previsione di imposta mediamente dell'1,0% a carico delle famiglie con una ricchezza complessiva sopra gli 800mila euro potrebbe generare un gettito di circa 18 miliardi di euro l'anno. Una tassa che colpirebbe solo il 5% più ricco e ricchissimo della popolazione italiana e che non toccherebbe nessun altro ceto e reddito. Sarebbero infatti soggetti a tale imposta tutte le famiglie la cui ricchezza complessiva, mobiliare e immobiliare, superi gli 800mila euro l'anno al netto dei mutui e delle altre passività finanziarie. Allo stesso tempo, ne sarebbero esclusi tutti coloro che, pur essendo proprietari di una o più abitazioni, nonché depositi in conto corrente, titoli di Stato o altre obbligazioni, non raggiungano il limite indicato. E' questa la proposta rilanciata dalla Cgil, sulla base di un apposito studio del Dipartimento Politiche economiche messo a punto in vista dello sciopero generale del 6 maggio prossimo e all'interno del suo pacchetto sulle tasse che si basa su un progetto di riforma fiscale per un fisco giusto, attraverso una vera lotta all'evasione (perché oggi l'evasione ogni anno costa 3.000 euro in più ai redditi "fissi" e, in generale, ad ogni contribuente onesto); per un fisco più leggero per le famiglie di lavoratori e pensionati che porti mediamente 100 euro in più in ogni busta paga, alleggerendo quel peso che da anni grava ingiustamente sulle spalle di queste famiglie; un fisco più pesante per i redditi alla radice degli squilibri e delle debolezze del paese: transazioni speculative, rendite e grandi ricchezze. Molto consistenti le risorse che si potrebbero ottenere annualmente solo dalla nuova tassa sulle grandi ricchezze (in Francia la chiamano la tassa sulle fortune). Dai calcoli effettuati dal Dipartimento Politiche Economiche della Cgil nazionale, le simulazioni comporterebbero un gettito potenziale, derivante dall'applicazione di un'Imposta sulle Grandi Ricchezze (IGR), di circa 18 miliardi di euro l'anno. Secondo lo studio del sindacato, infatti, se si applica un'aliquota media dell'1,0% sulla ricchezza netta totale, superiore agli 800mila euro complessivi, al netto delle detrazioni, detenuta da circa il 5% delle famiglie più ricche d'Italia, la tassa comporterebbe un gettito di 17,9 miliardi di euro annui; e con anche solo una aliquota media dello 0,55% (primo scaglione francese) sulla ricchezza netta totale, superiore agli 800mila euro complessivi, al netto delle detrazioni, detenuta da circa il 5% delle famiglie più ricche d'Italia, comporterebbe un gettito di 9,8 miliardi di euro annui Prendendo come riferimento la definizione di ricchezza netta della Banca d'Italia, definita dalla somma delle attività reali (immobili, aziende e oggetti di valore), delle attività finanziarie (depositi, titoli di Stato, azioni, etc.) al netto delle passività finanziarie (mutui e altri debiti), è possibile calcolare la nuova tassa con delle simulazioni. Ecco dunque come si calcolerebbe l'IGR, l'imposta grandi ricchezze. Facciamo alcuni esempi (prendendo come realtà di riferimento le rilevazioni sui bilanci delle famiglie della Banca d'Italia): 1. Una famiglia di lavoratori dipendenti che - a prescindere dal reddito imponibile ai fini IRPEF - è proprietaria di una casa dove abita con un valore di 130mila euro e detiene 10.000 euro quasi tutti in depositi bancari, con solo un 10% in titoli di Stato, obbligazioni e fondi comuni di investimento, per un totale di 140.000 euro di ricchezza netta non sarebbe soggetto all'Imposta sulle Grandi ricchezze e non pagherebbe niente di più. 2. Una famiglia di pensionati che - a prescindere dal reddito imponibile ai fini IRPEF - è proprietaria di una casa dove abita con un valore di 500mila euro e detiene 250.000 euro in depositi bancari, titoli di Stato e obbligazioni, per un totale di 550.000 euro di ricchezza netta non sarebbe soggetto all'Imposta sulle Grandi ricchezze e non pagherebbe niente di più. 3. Una famiglia di lavoratori dipendenti che - a prescindere dal reddito imponibile ai fini IRPEF - è proprietaria di una casa dove abita con un valore di 450mila euro, un'altra casa con un valore di 250.000 euro ma che paga un mutuo su questa di 20 anni (per un montante di 150.000) e detiene anche 100.000 euro in depositi bancari, titoli di Stato, obbligazioni, azioni, partecipazioni, per un totale di 650.000 euro di ricchezza netta non sarebbe soggetto all'Imposta sulle Grandi ricchezze e non pagherebbe niente di più. 4. Una famiglia di imprenditori e liberi professionisti che - a prescindere dal reddito imponibile ai fini IRPEF - è proprietario di una casa dove abita con un valore di 500mila euro, un'altra casa con un valore di 300.000 euro e detiene 100.000 euro in depositi bancari, titoli di Stato e obbligazioni, azioni e fondi comuni di investimento, per un totale di 900.000 euro di ricchezza netta, pagherebbe: IGR = 900.000 x 1,0% - 8.000 euro (detrazione fissa data dalla soglia) = 1.000 euro Come appare evidente, a subire un aumento del prelievo fiscale non sarebbe il 95% delle famiglie italiane ma solo i ricchissimi e gli ultraricchi, ossia appunto solo un 5% delle famiglie italiane. La tassa sulla grandi ricchezze, oltre a creare ingenti risorse per la collettività (pari ogni anno a una finanziaria di medie dimensioni), avrebbe anche un effetto in termini di equità in un paese sempre più diseguale. Ogni indagine della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie italiane rileva infatti, dal 1995 ad oggi, che il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% dell'intera ricchezza netta delle famiglie italiane, a fronte del 50% della popolazione (la metà più povera) che ne detiene meno del 10%. (Vedi il documento nel link). In pratica, circa 2,4 milioni di famiglie posseggono mediamente quasi 1.600.000 euro di patrimonio immobiliare e finanziario netto, a fronte di circa 12 milioni di famiglie che posseggono mediamente meno di 70.000 euro. Se si osserva anche solo una parte delle famiglie più ricche, definite "ricchissime", la ricchezza netta del 5% più ricco d'Italia è mediamente circa 2 milioni e 300mila euro. Così come quella dell'1% delle famiglie più ricche, le "ultraricche", è pari a circa 5 milioni e 300mila euro. Con la tassa sulle grandi ricchezze, si chiederebbe un contributo davvero minimo ai nostri super ricchi, visto che le simulazioni ci danno cifre quasi irrisorie di 1000 (mille) euro l'anno. Si potrebbe dire che neppure i super ricchi piangerebbero.

3.23.2011

Rischio speculazione sulla ripresa

Economia
a cura di ItaliaOggi

Boom di alimentari e materie prime,difficile uscire dalla crisi

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

Occorre dare atto della correttezza di analisi fornita dal ministro dell'economia e delle finanze Giulio Tremonti quando in occasione di un recente incontro in Turchia ha stigmatizzato il ruolo della speculazione dietro l'impennata dei prezzi delle materie prime e dei beni alimentari. Ha giustamente anche denunciato il depistaggio del Fondo Monetario Internazionale che perfino nel giugno 2008 negava con forza un qualsiasi ruolo della speculazione sui mercati delle commodity.

    Tranne alcune voci indipendenti, la stragrande maggioranza degli economisti ufficiali tende, purtroppo, ad allinearsi alle posizioni del Fmi e a minimizzare il peso delle dinamiche speculative.

    Come spiegare allora l'aumento delle operazioni in derivati finanziari sulle commodity?
    I cosiddetti valori nozionali dei contratti derivati Otc sulle commodity sono triplicati tra il giugno 1998 e il giugno 2003. Nei 5 anni successivi sono poi aumentati di 19 volte. A giugno 2008, cioè nel pieno della crisi finanziaria, erano infatti 13 trilioni di dollari! Si ricordi che nel 1998 essi rappresentavano l'1,5% del Pil mondiale. Dopo 10 anni tale percentuale è salita al 21,6%!

    La crisi ha fatto un po' sgonfiare la bolla, la cui crescita però è ripresa. Nel 2010 nei mercati delle commodity, da Chicago a Singapore a Johannesburg, le operazioni in derivati sulle materie prime e sui beni alimentari hanno fatto registrare aumenti del 10-20% rispetto all'anno precedente.

    Quando il volume dei derivati diventa sproporzionato rispetto ai beni reali sottostanti, essi non svolgono alcun ruolo di copertura o di assicurazione rispetto ai rischi di variazione dei prezzi. Né si possono giustificare dicendo che creano maggiore liquidità e quindi maggiore dinamismo dei mercati. Al contrario, secondo noi, creano un «effetto orda», accentuando le aspettative di aumento dei prezzi.

    Certo, la domanda dei paesi emergenti, Cina in testa, è e resterà crescente. Ma è una domanda prevedibile a cui le capacità produttive mondiali possono rispondere positivamente. Ciò non giustifica aumenti repentini dei prezzi. Gli incendi avvenuti in Russia nei passati mesi di luglio e di agosto possono avere avuto un influsso sui prezzi, ma non spiegano gli aumenti dei mesi precedenti.

    Secondo la Fao negli ultimi 12 mesi i prezzi dei cereali di base della dieta mondiale (grano, riso e mais) sono aumentati del 70%. È un aumento non spiegabile con il solo meccanismo della domanda e dell'offerta. Un altro sviluppo negativo nel medio periodo potrebbe essere una lievitazione determinata dal fatto che si stima che nel 2020 circa il 13% di tutta la produzione mondiale di cereali potrebbe essere usato per produrre etanolo. Sono distorsioni del settore alimentare che dovrebbero essere corrette.

    Si ricordi che, secondo le stime della Confederazione Italiana Agricoltori, l'Italia importa il 40% del grano duro, per il 60% del grano tenero, per il 15% del mais, per il 90% della soia e per il 50% delle carni. Perciò l'aumento dei prezzi alimentari internazionali sarebbe doloroso per i consumatori italiani. Anzi bisogna rilanciare anche in Italia ed in Europa una seria politica agricola che punti sulla qualità e sui redditi degli agricoltori e degli allevatori.

    Oltre ai beni alimentari, tutti i prezzi delle materie prime sono in fibrillazione in quanto oggetto di attenzioni morbose da parte degli speculatori. In primis il prezzo del petrolio che gioca un effetto diretto e perverso rispetto al costo di produzione dei beni alimentari.

    Se il prezzo del petrolio dovesse attestarsi intorno ai 100 dollari al barile, l'Agenzia Internazionale per l'Energia calcola che la bolletta energetica dell'Unione europea aumenterebbe nel 2011 di 76 miliardi di euro. Per l'Italia si tradurrebbe in un costo maggiore intorno ai 10 miliardi. Allo stato delle cose però l'attuale aumento del prezzo dei carburanti non si giustifica con la drammatica vicenda libica.

    Complessivamente la bolla dei prezzi delle commodity è quindi tornata ai livelli del giugno 2008.
    Oggi però le economie sono molto più deboli, avendo gli stati riversato sui mercati migliaia di miliardi di nuova liquidità per le operazioni di salvataggio e aumentato i debiti pubblici in media del 20% in due anni. Indubbiamente tutto ciò grava sull'economia reale, sull'occupazione e sugli stessi consumi contratti anche a causa della crescente inflazione.

    Preoccupa il rischio della stagflazione, quel mix esplosivo di recessione e di inflazione che frenerebbe ogni exit strategy dalla crisi.

    Resta quanto mai urgente un'organica normativa contro la speculazione. Però noi non condividiamo la scelta di chi parla di un aumento dei tassi di interesse secondo la tradizionale politica monetaria. Essa non avrebbe un effetto reale di calmieraggio dei prezzi. Aumenterebbe invece il costo del denaro e quindi dei titoli del debito pubblico. Si consideri che il semplice aumento dello 0,25% del tasso di interesse da parte della Banca centrale europea comporterebbe per l'Italia un aumento di spesa di circa 4 miliardi di euro.