4.18.2019

Prospettive economiche italiane per il 2020

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

 

Nelle condizioni attuali, prospettare una “flat tax”, anche

solo in forma parziale, appare davvero da irresponsabili.

 

di Franco Cavallari 

 

La maggior parte degli osservatori economici concorda nel considerare le prospettive per il 2020 particolarmente problematiche; e da qualche settimana, anche i proclami del Governo in carica sulle magnifiche sorti di quest’anno e dell’anno venturo stanno lasciando il posto a qualche preoccupazione sul modo di affrontare l’aggiustamento dei conti pubblici. Il DEF di primavera relativo al bilancio 2019, necessariamente generico, non ha dato alcuna precisa indicazione su come la maggioranza intende correggere lo schema macroeconomico per il 2020 proposto a fine 2018.

    Gli obiettivi economici stabiliti in quella sede dopo lunga e penosa trattativa con l’UE prevedevano per il 2019 una crescita dell’1% ed un disavanzo del 2,04% del PIL; ma il loro conseguimento è ormai tramontato per lasciare il posto ad un più realistico tasso di crescita dello 0,2% ed un debito pubblico dell’ordine del 2,6-3,2% rispetto al PIL. Se il Governo dovesse sopravvivere al responso delle elezioni europee, com’è molto probabile, non è escluso che le intenzioni della maggioranza relativamente al complesso di una eventuale manovra correttiva intervengano in piena estate. Sarà quello, comunque, il momento in cui potrà iniziare un’attenta riflessione pubblica non solo con riferimento alla claudicante realtà economica dell’anno in corso, ma anche e soprattutto sulle prospettive per l’anno prossimo venturo.

    I parametri economici che si prospettano per il 2020 e che costituiranno la base per la formazione del bilancio lasciano emergere ombre molto più inquietanti di quanto non appaia in superficie. Come accennato, la Legge di bilancio per il 2019 confrontata con la realtà in essere presenta non poche criticità; accettata come appena sufficiente dalla Commissione dell’UE (che già allora prevedeva una crescita per il 2019 dello 0,2%) rappresentava una via di fuga per il Governo italiano, invischiato in una impasse che rischiava lo scontro frontale tra lo Stato italiano e le istituzioni comunitarie.

    Rispetto ai non ben calibrati parametri inseriti nel bilancio 2019, le nuove poste per il 2020 da inserire nella nuova Legge di bilancio dovranno fotografare un contesto in cui la crescita economica volge alla stagnazione, se non alla recessione. In primo luogo sarà necessario dare un riscontro all’esigenza di neutralizzare le clausole di salvaguardia che ammontano per il 2020 a ben 24 Mrd e che incombono sulla prospettiva di un pericoloso aumento dell’IVA. Come per il passato, una buona metà, circa 12 Mrd, potrà essere rinviata all’anno successivo, già carico per conto suo di clausole per 27 Mrd). Ci saranno poi da reperire i 18 Mrd di privatizzazioni inserite anche nel bilancio 2020 fin dai quadri prospettici delle finanziarie degli anni passati; tenuto conto delle rigidità e della lentezza già riscontrate in passato per questo tipo di operazioni. appare molto improbabile possano essere realizzate se non in misura minima, forse il 10%. Ci sono ancora altri 5-6 Mrd per i pensionamenti aggiuntivi (quelli del 2020) della “Quota 100”; infine lo stanziamento supplementare di circa 2 Mrd per il reddito di cittadinanza, il cui stanziamento nel 2019 si riferiva soltanto a otto mesi.

    Il totale di queste poste aggiuntive rispetto al bilancio 2019 ammonta a circa 62 Mrd per i quali sarà necessario trovare una fonte di finanziamento. Per il momento, stando alle dichiarazioni del Vice Presidente Salvini, le relative risorse dovrebbero provenire dalla crescita sperata; che però, per il 2020 è stimata dal Governo stesso intorno allo 0,8%, vale a dire non più di 14 Mrd. Su questo surplus di risorse provenienti dalla maggiore crescita, le entrate pubbliche, al tasso del 46% della pressione fiscale, risulterebbero intorno ai 6-7 Mrd. Mancherebbero all’appello più di 50Mrd, senza considerare le non poche perplessità sulla possibilità che il sistema realizzi lo 0,8% di crescita previsto.

    Intanto, a lato delle incongruenze descritte, registriamo che il quadro di riferimento degli scambi internazionali non accenna a migliorare, anche se non è priva di significato la circostanza che nei primi mesi di quest’anno, malgrado il rallentamento del commercio mondiale, la variazione positiva delle esportazioni risulta lievemente maggiore rispetto all’anno precedente. Se è vero che in questi ultimi mesi, la tensione commerciale tra Cina e USA sembra essersi attenuata, è pur vero che si prevede per il commercio globale un lungo periodo caratterizzato da tensioni protezionistiche non trascurabili. Prospettive di rallentamento degli scambi internazionali emergono anche dal DEF di pochi giorni fa, ove lo stesso Ministero dell’Economia stima nel prossimo triennio in leggera contrazione le quote di mercato delle nostre esportazioni.

    La sfavorevole congiuntura economica internazionale che si prospetta per il 2020 è testimoniata anche dalle ultime decisioni della BCE, la quale, nell’ultima riunione del Comitato Direttivo, ha deciso di iniziare a partire dal prossimo mese di settembre un nuovo programma di operazioni di rifinanziamento a lungo termine volto a creare condizioni più favorevoli al credito bancario.

    Secondo il quadro macroeconomico del Governo, la congiuntura economica italiana, sostenuta prevalentemente dall’aumento dei trasferimenti alle famiglie, comincerebbe ad irrobustirsi già nella seconda parte di quest’anno e continuerebbe a crescere anche nel 2020; ma in senso contrario si esprimono, sia pur con toni diversi, il Fondo Monetario Internazionale e l’OECD, che prevedono per il 2019 una profonda stagnazione, se non addirittura la recessione e per l’anno prossimo una solo leggera ripresa. Questi enti internazionali considerano infatti che le misure del Governo a sostegno della domanda interna (il Reddito di cittadinanza e Quota 100) daranno, quest’anno come l’anno prossimo, un contributo alla crescita molto modesto. Al momento essi rilevano che l’accumulazione di capitale accusa condizioni di investimento molto sfavorevoli, essendo, peraltro, venuti meno gli incentivi, ad esempio l’iperammortamento, che hanno stimolato nel recente passato un’accumulazione di capitale di non trascurabile entità.

    Come le istituzioni internazionali, anche quasi tutti gli istituti di previsione italiani, evidenziano la mancanza di una politica di investimenti pubblici che, oltre ad alimentare la domanda, potrebbe migliorare il clima economico generale, suscitando gli investimenti privati, forieri di un rilancio dell’occupazione. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, un organo indipendente previsto da una Legge costi­tu­zionale per effettuare valutazioni economiche relative alla formazione del bilancio, ha effettuato una stima dell’effetto macroeconomico del Reddito di cittadinanza nel 2019, concludendo per un impatto sulla crescita molto limitato (0,2%).

    Indipendentemente dalle previsioni, il complesso dei dati macroeconomici di pro­spettiva appare fin d’ora talmente squilibrato che solo lo smisurato ottimismo del Governo riesce a vedere qualche spiraglio di miglioramento. In realtà, è indispen­sabile una netta inversione di rotta, vale a dire un bilancio pubblico per il 2020 capace di ricomporre in un contesto orientato allo sviluppo gli indispensabili sacrifici della spesa corrente con un serio programma di investimenti pubblici, entrambi necessari per riequilibrare il quadro finanziario. In caso contrario, le consuete schermaglie del prossimo autunno per la predisposizione della Legge fi­nan­ziaria diverranno il pericoloso innesco di una grande instabilità nel mercato dei capitali.

    Secondo molti centri di ricerca economica, l’ostacolo delle clausole di salvaguardia potrebbe essere affrontato con un aumento dell’IVA in misura ridotta: Due punti sulle aliquote più basse ed un punto e mezzo sull’aliquota del 22% darebbero un gettito vicino ai 12 Mrd, incidendo solo marginalmente sui prezzi (intorno a 0,50%). In questa ottica, un parziale aumento dell’IVA avrebbe un effetto depressivo sui consumi non eccessivo e potrebbe consentire, senza troppi traumi, di rinviare all’anno successivo le restanti clausole di salvaguardia per la differenza di 12 Mrd; resterebbero comunque da reperire circa 50 Mrd che, escudendo un aumento dell’imposizione, potranno solo in minima parte essere coperti con la “spending review”.

    In queste condizioni, prospettare la “flat tax” (una riforma rifiutata da tutti i paesi industrializzati, che ha trovato applicazione solo in paradisi fiscali, piccole isole e paesi dell’ex impero sovietico nell’est europeo), anche in forma parziale, sarebbe davvero da irresponsabili.

    Per quanto riguarda la formazione del bilancio per il 2020, in assenza di una manovra coraggiosa sugli squilibri descritti, non si vede come si possa evitare che il volano incontrollato della spesa corrente abbia un impatto devastante sullo “spread” tra i Btp e i Bund tedeschi. Senza una preliminare netta presa di posizione unanime del Governo per un aggiustamento accettabile dei conti pubblici, sarà inevitabile che in autunno, nelle more della trattativa sulla legge di bilancio, il surplus di interessi che il mercato dei capitali richiederà per finanziarie il nostro debito pubblico subisca un brusco aumento rispetto ai livelli attuali. E non è da escludere che si vada incontro a squilibri in grado di porre in serie difficoltà la stabilità economica del nostro Paese e, probabilmente, anche l’assetto dell’Unione Europea.

 

 


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Attivare fondi e progetti per la ripresa

 Non si può essere soddisfatti di riconoscere che l’economia italiana è fortemente peggiorata nei passati mesi, come ammette lo stesso Documento di economia e finanza (Def) appena presentato. Sarebbe, però, ancora più preoccupante se, di fronte a questa triste ed evidente realtà, il governo volesse continuare a “vivere sulle nuvole”, spargendo illusioni e promesse insostenibili.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Palazzo Chigi ha messo nero su bianco che per il 2019 l’aumento del pil dovrebbe passare dall’1% allo 0,2% e che di conseguenza il deficit di bilancio dovrebbe crescere dal 2,04% al 2,4%. Sono stime ancora troppo benevole che non tengono conto, purtroppo, degli effetti negativi a spirale che solitamente accompagnano la recessione economica.

    Di ciò siamo fortemente preoccupati, anche perché il confronto politico è soprattutto di natura ideologica ed elettorale e, a volte, anche di rivalsa. Riequilibrare il bilancio dello Stato richiede decisioni chiare e tempi medi poiché si basa sulla ripresa degli investimenti, della produzione, dell’innovazione e dell’occupazione nei settori dell’economia reale.

    Perciò, mantenere a tutti i costi le promesse fatte durante le campagne elettorali potrebbe sembrare positivo ma, in verità, non fa parte delle leggi che regolano il sano andamento e lo sviluppo dell’economia, sia nella teoria che nella prassi. Vale per tante iniziative, a cominciare dalla flat tax che ha fatto capolino nel Def. Per ora è una semplice enunciazione.

    Per serietà e credibilità, portare come esempio da seguire nel nostro paese il modello ungherese della flat tax, che sarebbe la ragione del buon andamento dell’economia di Budapest, è un errore.

    Per chiarezza è opportuno ricordare, invece, che la recente ripresa economica dell’Ungheria si basa su tre condizioni convergenti: a) il contributo a fondo perduto di ben 3,5 miliardi di euro annui da parte dell’Unione europea, b) l’intensa partecipazione economica e industriale della Germania verso i paesi dell’Europa centrale e c) il basso costo della mano d’opera ungherese, con una qualifica tecnologica mediamente elevata, che ha attirato notevoli investimenti. Tutte condizioni che in Italia non ci sono.

    Ovviamente, il documento del Def non contempla aumenti nella tassazione: sarebbe una clamorosa ammissione di totale fallimento. Per i prossimi mesi, però, il governo dovrà dimostrare come “bilanciare” l’aumento delle uscite con le minori entrate. Naturalmente, per il bene degli italiani ci si augura che lo sappiano fare. Ma è indubbio che dal prossimo gennaio possa scattare l’aumento delle aliquote Iva.

    A nostro avviso la priorità dovrebbe essere la ripresa degli investimenti pubblici in infrastrutture per l’effettiva apertura dei cantieri, a partire dal Mezzogiorno dove la situazione economica e occupazionale è a dir poco disperata. Secondo varie stime, oltre ai fondi recuperabili dall’enorme evasione fiscale, ci sarebbero 140 miliardi di euro già stanziati nei bilanci degli anni passati per svariati progetti.

    Attraverso un accordo già operativo con la Banca europea per gli investimenti essi potrebbero diventare subito spendibili. Il vero problema sono le lungaggini delle burocrazie statali, regionali e locali.

    Secondo l’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE) si tratterebbe, tra l’altro, di 60 miliardi del Fondo investimenti e sviluppo infrastrutturale, di 27 miliardi del Fondo sviluppo e coesione, di 15 miliardi di Fondi strutturali europei, ecc.

    Se si riuscisse a spendere in tempi ragionevolmente brevi i soldi in questione, sarebbe una leva per la ripresa economica. Si ricordi che l’Istat sostiene che ogni euro pubblico investito nelle infrastrutture possa generare una crescita di investimenti diretti e indiretti pari a 3-4 volte. 

    È il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), presso Palazzo Chigi, responsabile della gestione delle risorse sopra menzionate. Non ha svolto un’azione incisiva ed effettiva nei confronti degli enti e delle amministrazioni beneficiari dei progetti.

    Bisogna accelerare i processi decisionali, snellendo il codice degli appalti e affidando, contemporaneamente, alle autorità anti corruzione il compito di prevenire e colpire le infiltrazioni malavitose e le mazzette legate ai lavori pubblici.

    La situazione, nella sua complessità e urgenza, non può ancora essere lasciata alle lentezze burocratiche. Serve, invece, una chiara e netta assunzione di responsabilità da parte del governo e delle altre istituzioni. Il paese non può più aspettare.

 

 

 


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Qualche riflessione per cercare di uscire dalla crisi

L’economia è l’ambito dove si misurano le capacità di una classe dirigente di guidare un paese verso la ricchezza collettiva e verso la realizzazione compiuta dello stato sociale.

di Ennio Ghiandelli

Quando si parla di economia italiana non bisogna mai dimenticare alcuni dati fisici che sono una nostra caratteristica: scarsità di ricchezze naturali, soprattutto per quanto riguarda i minerali e i prodotti energetici; agricoltura che non brilla per efficienza anche per la tipologia del territorio; densità elevata della popolazione, nonostante il calo demografico di questi anni; orografia complessa che rende difficili le comunicazioni fra le diverse aeree del paese.

    Nonostante questi deficit l’Italia, nel secondo dopoguerra, affidandosi alla capacità manifatturiera delle sue maestranze alla sua classe dirigente sia politica che industriale, e ai rapporti esistenti fra industria pubblica e privata, riesce a portarsi nei primi posti mondiali in alcune industrie chiave: dall’industria informatica, a quella aeronautica, all’elettronica di consumo, alla chimica, all’auto e alle produzioni High-tech.

    Pian piano questo patrimonio si è dissolto, gli errori compiuti nella politica economica dall’inizio degli anni Novanta ad oggi stanno dando i loro frutti resi ancora più velenosi dall’insipienza dell’attuale governo.

    L’Italia soffre di una crisi di produttività, cioè il costo per un’unità di prodotto aumenta rispetto agli altri paesi. Questo fatto rende impossibile, senza interventi appropriati qualsiasi ipotesi di recupero. La possibilità che si divenga una colonia di qualche altra nazione, soprattutto se questa ci finanzia il disavanzo acquistando i titoli del debito pubblico, è reale. Siamo un paese dove, ai tempi della globalizzazione, il tessuto produttivo è costituito per la gran parte da piccole e medie industrie. Eccelliamo nella produzione di marmo, di minerali abrasivi, nella produzione di olio di oliva, vino e filati di lana, molto poco per un sistema produttivo globale dove l’innovazione è l’elemento trainante.

    Si è svenduto il patrimonio industriale dello stato, in nome di un liberismo che non è mai esistito; gli industriali, che pure nel corso di questi anni hanno ricevuto utili rilevanti, hanno preferito investire i profitti in operazioni finanziarie, all’apparenza, molto più redditizie che in investimenti industriali.

    La politica oltre che per le ragioni prima ricordate ha anche la responsabilità di aver fatto invecchiare in maniera significativa il patrimonio infrastrutturale nazionale e mai ha sviluppato politiche atte a mettere mettere in sicurezza un territorio fragile come il nostro, anzi la speculazione edilizia supportata da continue sanatorie ha aggravato il problema.

    Tutto questo avvenuto è con una rapida concentrazione di ricchezza in poche mani e con un’erosione dello stato sociale che ha portato ad un impoverimento delle classi meno abbienti. Tutte le politiche sociali che il primo centro sinistra aveva realizzato sono state o abolite o devitalizzate.

    A questo stato di cose si aggiunge una politica fiscale che ha punito i lavoratori a reddito fisso, rendendo possibile una continua evasione fiscale, senza avviare una seria attività dello Stato per contrastarla efficacemente producendo una elevata pressione fiscale

    In questo quadro si presenta drammatico lo stato del disavanzo pubblico, drammatico non solo perché non si vedono politiche per abbatterlo, anche se la spesa corrente italiana al netto degli interessi del debito è da anni inferiore alle entrate, ma per l’assenza di una politica economica capace di attivare un credibile percorso di recupero della produttività del sistema Italia.

    Sovente nel corso del dibattito in questo anno di governo giallo verde si sente imputare, da esponenti della maggioranza, che la colpa di questo stato di cose è da ascriversi al fatto che con l’adozione dell’euro l’Italia non è in grado di gestire una propria economia, quindi occorre uscire dalla moneta europea e poco male se ci cacciano anche dai trattati. Errore tragico.

    A questo stato di cose si può e si deve reagire. La prima cosa immediata da fare è recuperare gettito fiscale, non aumentando le tasse a che già le paga, ma colpendo senza pietà gli elusori e gli evasori. Questo comporta immediatamente un riequilibrio del bilancio. Ciò ci consente, da un lato di allentare la presa sugli interessi che l’Italia paga sul debito pubblico, dall’altro di fermare il saccheggio del welfare. Da queste basi ripartire con una politica di investimenti pubblici sia sulle infrastrutture che sull’aumento della produttività (R&S) sostituendo il privato assenteista. Fissati questi capisaldi si deve procedere ad una più equa distribuzione del reddito.

 

Da La Rivoluzione Democratica

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

 

 

 


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3.28.2019

Siamo il primo paese del G7 a sottomettersi alla Cina

FONDAZIONE NENNI

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Sul memorandum Italia-Cina occorre ricordare un punto cardine del diritto europeo, cioè che la politica commerciale è materia UE e che quindi ogni genere di atto che contraddica il diritto comunitario è da considerarsi nullo. Quindi, almeno in linea teorica, non ci dovrebbero essere pericoli di penetrazione eccessiva degli interessi cinesi in Italia (ringraziando l’UE). Il vero dramma di questa negoziazione è che l’Italia stia ponendo le basi per una sottomissione totale al colosso cinese, così come hanno già fatto Grecia e Ungheria.

 

di Federico Marcangeli

 

La strategia di Xi Jinping è molto chiara e punta a tagliare le distanze tra i suoi prodotti ed il secondo mercato mondiale: l’Europa. Nel 2016 questa strategia aveva portato all’acquisizione cinese del porto del Pireo (il più grande porto greco), da usare come grimaldello per l’ingresso in UE e per puntare sempre di più verso la sua egemonia globale. Non a caso la Grecia pose il veto sulla risoluzione ONU del Giugno 2017, che condannava la Cina per le innumerevoli violazioni dei diritti umani.

    Fatto questo primo passo, la necessità era quella di portare le merci nel cuore dell’Europa e l’Italia ha pensato bene di stendere un tappeto rosso, grazie a Ferrovie dello Stato ed alle autorità portuali di Genova e Trieste. I soggetti appena citati rientrano infatti nell’accordo quadro raggiunto e dovrebbero contribuire a portare più rapidamente le merci cinesi in Italia.

    Questa è solo una piccola parte del memorandum, perché sono 21 gli accordi in negoziazione con la Cina e, come è immaginabile, il coltello dalla parte del manico non è certo dell’Italia. Tali negoziati si inseriscono nella cosiddetta “Via della Seta”, progetto iniziato nel 2013 con 1000 miliardi di dollari cinesi investiti per migliorare i collegamenti del paese con il resto del mondo. Secondo Di Maio: “La Via della Seta si firmerà. È un memorandum che permetterà alle nostre imprese di esportare più Made in Italy nel mondo e quindi anche in Cina. E questa è una buona occasione per la nostra economia e le nostre aziende”.

    Peccato che la realtà dei fatti sia “un pò” diversa. La bilancia commerciale Italia-Cina pende infatti verso la seconda per circa 12 miliardi di dollari, nonostante i dazi presenti, che comunque hanno contribuito a ridurre il saldo negli ultimi anni. Con questo quadro, è difficile comprendere come l’ingresso nel progetto egemonico cinese possa giovare sul lungo periodo all’Italia.

    Ancor di più se consideriamo l’opacità dell’accordo che, secondo il Sottosegretario agli esteri Guglielmo Picchi, prevede “intercomunicabilità, energia e telecomunicazioni”, dei campi oggettivamente vaghi e dai confini non delineati. Questo aspetto di non trasparenza è stato già appurato per l’intero progetto “Via della seta”, grazie ad un memorandum firmato nell’aprile del 2018 da 27 dei 28 ambasciatori europei in Cina (poi ratificato dal parlamento europeo, anche con il voto dei 5Stelle), che denunciavano alcuni aspetti chiave:

 

·                 Indebitamento degli stati europei (e non solo) verso la banca di stato cinese, grazie a prestiti a tassi convenienti ma poco trasparenti.

·                 Quasi tutti gli appalti per le infrastrutture sono assegnati a società cinesi.

·                 Scalate da parte di imprese cinesi (controllate ovviamente dallo stato) di numerose società del settore bancario ed energetico.

·                 Ostacolo del libero scambio con stati non aderenti. Lascio a voi ulteriori valutazioni.

 


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3.03.2019

La crescita dello  “shadow banking”

 Le banche stanno per andare in soffitta? Non è una battuta. 

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

 

Pochi crederebbero che nel mondo della finanza le banche non siano più i "number one". Eppure lo conferma il rapporto Global Shadow Banking Monitoring Report 2017 del "Financial Stability Board" (Fsb, il Consiglio per la stabilità finanziaria). Si ricordi che è l'organismo internazionale con il compito di monitorare il sistema finanziario mondiale per ridurre il rischio sistemico. In passato è stato presieduto anche da Mario Draghi.  
    Secondo tale rapporto, alla fine del 2016 gli attivi finanziari globali totali ammontavano a 360.000 miliardi di dollari. Cinque volte e mezzo il Pil mondiale. Essi sono così suddivisi: 160.000 miliardi gestiti dagli organismi finanziari non bancari, 138.000 dalle banche, 26.000 dalle banche centrali e il resto da istituti finanziari pubblici. 
    Gli organismi finanziari non bancari, cioè "gli enti e le attività dell'intermediazione del credito che operano fuori dal sistema bancario regolare", sono dallo Fsb considerati e chiamati shadow banking, "sistema bancario ombra", definizione intesa dal Consiglio senza connotazioni spregiative. 
    Sta di fatto che i soggetti dello shadow banking manovrano cifre spaventose, se si confrontano con quelle del Pil mondiale. Per evidenziare tutta la fragilità e i rischi del sistema finanziario, è, inoltre, doveroso rilevare che non sono inclusi i noti derivati finanziari otc e altri prodotti speculativi, di cui più volte abbiamo denunciato la pericolosità. 
    I soggetti non bancari comprendono le assicurazioni con 29.000 miliardi di dollari di attivi concentrati negli Usa e in Europa, i fondi pensione con 31.000 miliardi, il 60% dei quali in mano americana, e ben 100.000 miliardi dei cosiddetti Other Financial Intermediaries (OFI) che includono vari tipi di fondi d'investimento, hedge fund, holding finanziarie e altri organismi finanziari, spesso "molto fantasiosi" e speculativi. 
    Circa la creazione del credito, però, le banche mantengono ancora il primato con 69.000 miliardi, pari al 77% del totale, lasciando molto indietro il settore dei citati OFI. Il che significa che questi ultimi sono attratti soprattutto da settori molto distanti da quelli concernenti l'economia reale.
    Nel frattempo gli OFI hanno registrato un grande aumento in Europa. Ad esempio, rappresentano il 92% di tutti gli attivi finanziari del Lussemburgo, il 76% dell'Irlanda e il 58% dell'Olanda. L'area euro conta detti attivi per 32.000 miliardi di dollari, superando gli Usa, dove queste voci, in realtà, stanno diminuendo, e superando di molto la Cina, dove, al contrario, è in atto una crescita straordinaria. 
    All'interno degli OFI vi è un settore in continuo aumento che rappresenta ben 45.000 miliardi di attivi considerati molto rischiosi anche dallo Fsb, che li chiama "narrow measure of shadow banking", un nome senza senso anche in inglese e impossibile da tradurre in italiano in modo comprensibile. Non è la prima volta che prodotti finanziari molto rischiosi vengono chiamati, volutamente, in modo stravagante e fuorviante. 
    Secondo il Consiglio per la stabilità finanziaria, le operazioni "narrow measure" sono molto più rischiose in quanto utilizzano massicciamente la leva finanziaria, operando cioè con grandi numeri ma pochi capitali propri. 
    Di conseguenza sono vulnerabili ai rischi di rinnovo delle posizioni e di estensione della scadenza (rollover risk) e a quelli di eventuali massicci ritiri di fondi per timore di insolvenza (run), in particolare quando si rendono dipendenti da finanziamenti di breve periodo. 
    Queste sono esattamente le situazioni che si erano create alla vigilia della Grande Crisi del 2008 e che hanno provocato il crollo del sistema.
    Circa le citate operazioni "narrow measure" gli Usa sono ancora i primi con il 31%, seguiti dall'Europa con il 22% e dalla Cina con il 16%. È molto rilevante il fatto che le Isole Cayman, il "paradiso fiscale" per eccellenza, con 4.700 miliardi di attivi, rappresentano il 10% del totale!
    Nei passati cinque anni la quota del settore bancario si è andata riducendo di anno in anno, rimpiazzata da una crescente e sempre più ingombrante presenza dello shadow banking. La tendenza è stata ancor più forte in Europa. Comunque, resta sempre molto elevata l'interconnessione tra tutti i vari settori, bancari e non. Perciò permane il rischio di crisi sistemiche. 
    Gli studi fatti dal "Financial stability board" sono encomiabili e di grande aiuto. Però, la velocità e le dimensioni degli attuali processi finanziari appaiono davvero straordinarie e ci impongono una domanda. Le autorità di controllo sono veramente capaci di governare questi processi, oppure tentano di inseguire evoluzioni finanziarie che, di fatto, finiscono col dettare i movimenti e le regole di comportamento dei mercati e dei loro principali attori? È un dubbio inquietante che lascia sconcertati.


Produttività zero e recessione

Recessione tecnica, recessione economica, 
crisi economica. Troppe definizioni e poche decisioni…

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

 

Recessione tecnica, recessione economica, crisi economica. Troppe definizioni e poche decisioni, quando, invece, in Italia necessiterebbe un programma concreto di rilancio dell'economia, fatto d'investimenti, di lavori pubblici, d'incentivi per la modernizzazione e l'occupazione. In situazioni di emergenza, sarebbe necessario un accordo bipartisan per lo sviluppo, come ha saputo fare, anche con molte difficoltà, la Germania. In casa nostra, purtroppo, ieri come oggi, si preferisce "gufare", "tifare" per il fallimento dell'altro, facendo perdere tutti, soprattutto il Paese.  
    L'ultima cosa di cui si ha bisogno sono le pagelle delle agenzie private di rating e del poco affidabile Fondo Monetario Internazionale.  
    Gli analisti e la stampa internazionale, come al solito, puntano il dito sul nostro alto debito pubblico e sui ritardi delle cosiddette riforme strutturali dell'economia italiana. Temono che una successiva contrazione economica possa avere delle conseguenze sull'intero sistema.
    Secondo noi, una delle debolezze più preoccupanti, da correggere con urgenza, è la bassa produttività dell'economia italiana. 
    Dal 2000 il nostro sistema non ha registrato alcun aumento della produttività! 
    Si ha tale aumento quando, attraverso nuove tecnologie e innovazioni, si produce di più con la stessa mano d'opera. La crescita della produttività è il motore della competitività di ogni sistema. 
    Occorre dire, in verità, che le nostre imprese sono state comunque capaci di mantenere un elevato grado di competitività, sfruttando l'innata creatività scientifica e imprenditoriale e mantenendo, nonostante tutto, la bilancia commerciale positiva, sostenuta da un export che dal 2009 è cresciuto del 25%. Nel medio periodo, però, la scarsità dell'innovazione e della modernizzazione non regge il confronto con gli altri paesi che investono, e molto, nelle nuove tecnologie.
    La mancata crescita della produttività non è, comunque, imputabile solo all'alto indebitamento pubblico. Il Giappone, per esempio, ha un gigantesco rapporto debito/pil del 237% ma è il primo paese al mondo, prima degli Usa e della Germania, per la crescita della produttività.
    Non si può, quindi, imputare l'entrata in "recessione tecnica" soltanto all'effetto di fattori esterni, quali la contrazione economica cinese e tedesca.   Nemmeno a certi retaggi del passato, come i disastri della grande crisi finanziaria ed economica del 2008. 
    Ciò detto, ovviamente la nostra economia soffre più degli altri quando le citate "locomotive" frenano.
    Nel 2017 l''export di soli beni, senza i servizi, dell'Italia verso gli altri paesi europei è stato di 250 miliardi di euro, pari al 55% di tutte le nostre esportazioni. La Germania ha, invece, esportato in Europa beni per 750 miliardi: detiene il 22,4% di tutto il commercio infra Ue, mentre la quota italiana è appena del 7,4%.  L'Italia mantiene la quinta posizione, dietro anche all'Olanda, alla Francia e al Belgio. 
    Il più grande surplus nel commercio interno all'Ue (export meno import) è detenuto dall'Olanda con ben 200 miliardi di euro. Mentre l'Italia nel 2017 ha avuto un surplus di oltre 8 miliardi, la Francia e la Gran Bretagna, invece, hanno registrato un deficit nel commercio di beni con gli altri paesi europei rispettivamente di 107 e 110 miliardi di euro. Sono dati, questi ultimi, per certi versi sorprendenti.
    L'Eurostat prevede una momentanea contrazione dell'economia europea. Senz'altro la causa principale è legata all'altalenante guerra dei dazi che Trump ha lanciato contro la Cina e l'Ue. La Germania, in particolare, soffre degli scandali, originati negli Usa, contro le emissioni di gas e dei dazi americani sull'import di auto tedesche. 
    Negli anni passati, l'Europa, in primis la Germania, ha beneficiato della politica cinese di modernizzazione. La Cina è il più grande mercato di macchinari tedeschi di vario tipo. La flessione della crescita cinese in corso va, quindi, a impattare l'export tedesco e comunitario. 
    Non possiamo, quindi, negare i rischi di crescenti difficoltà per la nostra economia. Anche perché si deve tener presente che l'Italia, a differenza di altri paesi europei, non ha ancora recuperato la perdita di pil provocata dalla grande crisi globale del 2008. È ancora di circa il 4% sotto il livello pre crisi. Anche gli investimenti, pubblici e privati, sono sotto del 19,2%. In dieci anni, poi, gli investimenti pubblici sono scesi dal 3% all'1,9% del pil. I consumi delle famiglie e il loro reddito disponibile sono inferiori rispettivamente dell'1,9% e dell'8,8% rispetto a dieci anni fa.
    L'ingresso dell'Italia in una fase di recessione ha già fatto sentire il suo segno negativo anche sulla borsa, in particolare sui titoli bancari. Si teme che la decrescita possa generare nel sistema bancario nuovi crediti deteriorati e rallentare lo smaltimento dello stock in sofferenza. A fine 2017 i suddetti crediti deteriorati ammontavano ancora a 264 miliardi di euro, pari al 17,6% del totale. E ciò avviene mentre la Bce sta riducendo il quantitative easing, cioè l'acquisto di titoli di Stato, che finora ha aiutato a sostenere i debiti pubblici sul mercato. 
    Con la recessione il governo, a corto di munizioni, potrebbe essere tentato di aumentare il debito, sempre più caro e meno gestibile, o di aumentare la pressione fiscale. Occorre evitare di rincorrere la spirale negativa e, invece, è importante mettere in campo azioni anticicliche di sostegno agli investimenti, all'innovazione e al lavoro. Bisognerebbe far ripartire, senza perdere ulteriore tempo, tutti i cantieri e gli investimenti, anche privati, già decisi e finanziati. Sostenere i consumi è importante ma non sufficiente a rimettere in moto un'economia in recessione.