9.24.2012

Abbattere il debito Rilanciare lo sviluppo

Tra le tante interessanti proposte che girano, quella presentata dalla fondazione “Astrid” (guidata da Franco Bassanini e Giuliano Amato) ci sembra la più realistica.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Abbattere il debito pubblico e contemporaneamente attuare puntuali politiche di sviluppo: questa è la sfida che l’Italia deve affrontare con priorità. Non si può ulteriormente indugiare, ma occorre agire con scelte concrete. Del resto il rapporto debito/Pil, destinato a peggiorare, è un monito per tutti, governo, parlamento, forze economiche e sociali. La nostra situazione è ovviamente aggravata dalla crisi globale. Comunque la sfida è ineludibile, anche se il futuro dell’economia mondiale dovesse inaspettatamente diventare roseo.

    Circolano varie proposte. Tutte interessanti. Quella presentata dalla fondazione “Astrid”, guidata da Franco Bassanini e Giuliano Amato, ci sembra la più realisticamente praticabile, per diverse ragioni.

    Si tratta di un mix di scelte, invece di uno dei tanti roboanti “colpi risolutivi”, per ridurre in 5 anni il debito pubblico per un importo di 178 miliardi di euro, riportandolo vicino al 107% del pil, come nel 2006.

    L’obiettivo è perseguibile attraverso la vendita di immobili di proprietà dello Stato già disponibili per circa 50 miliardi di euro, di cui 30-40 miliardi derivanti dalla vendita di alloggi pubblici alle famiglie che li detengono in affitto.

    Il piano prevede anche una rapida definizione dell’intesa con la Svizzera per tassare in modo adeguato i capitali italiani giacenti nelle banche elvetiche. Interessanti sono anche l’aumento dell’acquisto di titoli di Stato a lunga scadenza da parte delle casse previdenziali degli ordini professionali e le misure per l’allungamento delle scadenze dei titoli di debito pubblico diminuendo nel contempo anche la volatilità e il peso degli interessi passivi.

    Più problematica potrebbe essere  la cessione di partecipazioni statali in società quotate in Borsa, come Eni e Finmeccanica, per le quali, se non ci si vuole privare dei “gioielli di famiglia”, ci sembra opportuno un coinvolgimento diretto della Cassa Depositi e Prestiti.

    Lo studio è fondato su valutazioni serie sia dei valori dei beni in discussione che degli introiti previsti. La realizzazione del progetto è programmata in tempi medi senza fughe in avanti. I tempi sono collegati alla realizzazione della spending review. Questa naturalmente dovrà continuare per correggere ed eliminare gli sprechi  e molte delle spese superflue delle gestioni correnti non solo a livello statale ma anche a livello regionale dove, come è noto, non vi sono più controlli!

    Il documento fornisce anche una sintetica ma molto istruttiva analisi dell’evoluzione del debito pubblico nei passati 20 anni. Si ricorda che nel biennio 1992-94 la crisi dello SME e l’attacco speculativo contro la lira portarono il rapporto debito/Pil dal 104,7% al 121, 2%. La causa fu in gran parte il rallentamento dell’attività economica e l’aumento della spesa per interessi che fu in media del 12% annuo.

    Di seguito il rapporto diminuì in maniera costante, tanto da raggiungere nel 2007 il 103,1%. Purtroppo dal 2008 ha ripreso la sua corsa.

    Naturalmente la proposta di Astrid non si limita ad interventi correttivi del debito ma sollecita  misure strutturali di sostegno per la crescita con il rilancio degli investimenti pubblici in ricerca e infrastrutture e con l’incentivazione degli investimenti privati in innovazione.

    Al riguardo c’è molto da fare. Per esempio bisogna privilegiare le attività manifatturiere che decidono di non delocalizzare all’estero e di investire nel Mezzogiorno. Come insegnano gli andamenti dell’ultimo ventennio, abbattere il debito è doveroso ma non basta e si rischia di essere sempre sotto il ricatto di eventi, mercati, spread, agenzie rating, ecc. fuori dal nostro controllo.

    Le aspettative indicate nel Documento presuppongono un andamento positivo del Pil a partire dal 2014. E’ in linea con la valutazione del FMI. Comunque la ripresa in Italia ed nell’intera Europa, purtroppo, non è certa e ogni previsione di abbattimento del debito pubblico potrebbe essere messa in discussione.

    A nostro avviso occorre privilegiare i meccanismi di rilancio dell’economia accelerando i tempi e l’utilizzo delle risorse disponibili . Le fonti dei nostri investimenti nell’economia reale sono il bilancio dello Stato, i fondi europei, i capitali stranieri e il credito da parte delle banche private. I primi sono fortemente penalizzati dagli effetti della crisi. Le banche continuano a tenere stretti i cordoni della borsa. Gli ultimissimi dati indicano inoltre che a maggio i crediti concessi dal settore bancario alle industrie sono diminuiti dell’1,5% su base annua.

    Anche questo dato dovrebbe spingere verso la creazione di uno stabile meccanismo di credito allo sviluppo.

 

9.10.2012

Europa e Usa

Economia politica

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista


Europa e Usa 1 - Due cugini che giocano a nascondino


Europa e Stati Uniti presi dai loro gravi problemi rischiano di non vedere che il resto del mondo è profondamente cambiato e richiede anche un mutamento delle regole del gioco in tutti i campi, finanziario, monetario, commerciale, istituzionale. 

    I due cugini atlantici sembrano impegnati a nascondersi l’un l’altro le crisi che li travagliano: quella finanziaria negli Usa e quella istituzionale in Europa.

    Fino ad oggi si sono sottratti alla responsabilità di realizzare da protagonisti la “Grande Riforma” per un sistema economico globale più giusto ed equilibrato.

    Il vecchio continente soffre anzitutto della mancanza di volontà di accelerare il processo di effettiva unione politica più che della crisi del debito, che chiaramente c’è in molti paesi europei. La Germania non sembra avere la necessaria determinazione, così come fece invece per la riunificazione tedesca dopo la caduta del muro di Berlino. Così come, purtroppo, gli altri Paesi dell’eurozona continuano ad agire in un’ottica esclusivamente nazionale.

    Questa situazione, come noto, favorisce gli attuali attacchi speculativi contro l’euro, aggredendo di volta in volta il singolo paese più esposto. Ciò rischia di trasformarsi in crisi sistemica.

    Ecco perché è urgente una governance unitaria nel campo economico e fiscale, nonché un grande fondo europeo per lo sviluppo e gli eurobond per la gestione del debito pubblico.

    Gli Usa invece hanno drammaticamente trasformato la loro crisi finanziaria e bancaria in una gigantesca crisi di debito pubblico il cui controllo è sempre più in mani estere.

    Dal gennaio 2009 il debito pubblico americano è aumentato di più di 5.500 miliardi di dollari avvicinandosi ai 16.000 miliardi di oggi. Secondo il Dipartimento del Tesoro, nello stesso periodo l’indebitamento verso l’estero è passato da 3.072 miliardi a 5.292 miliardi di dollari con un incremento del 72,3%! Numeri che farebbero agitare senza fine i “mercati” se fossero davvero indipendenti e sovrani.

    Molto indicativa dei grandi rivolgimenti internazionali in atto è la drastica riduzione della quota di debito pubblico americano in mano cinese. A giugno 2011 Pechino deteneva 1.315 miliardi di dollari di debito americano.  A giugno 2012 sono scesi a 1.165 miliardi.

    La svolta della Cina non si può proprio ignorare, anche se nei citati dodici mesi il Giappone ha aumentato l’acquisto dei bond Usa sopperendo così al buco lasciato aperto dai cinesi.

    Alcuni spiegano ciò con il rallentamento della crescita economica interna alla Cina. Altri mettono la svolta di Pechino in rapporto a un più deciso orientamento dei paesi Brics verso la creazione di un nuovo sistema monetario basato su un più vasto paniere di monete, in alternativa al vecchio e decadente “sistema del dollaro”.

    Certamente non è più pensabile che il sistema globale possa continuare con le regole attuali.

    In questo contesto è rilevante notare che, sotto la spinta dei Brics, anche la politica monetaria africana sta cambiando radicalmente. Dall’inizio dell’anno prossimo l’Angola imporrà alle multinazionali petrolifere il pagamento dei tributi e contratti stipulati nella moneta locale. Lo stesso che in Monzambico e nello Zambia, dove le transazioni in dollari sono già proibite. Il Ghana ha votato nuove leggi bancarie con controlli più stringenti sui conti correnti in dollari e sui trasferimenti di capitali all’estero.

    Anche la Russia si sta preparando ad un aggravamento della crisi economica e finanziaria globale. Lo ha sottolineato recentemente il presidente Putin in un incontro con i dirigenti regionali cui ha detto che la crescente crisi del debito nell’eurozona e le difficoltà finanziarie e del debito pubblico in Usa “causano un certo allarme”. Mosca spera che questi problemi non esplodano in una nuova crisi generale. Ma sta accantonando delle riserve per questa evenienza. Sembra che il ministero delle Finanze russo stia ipotizzando nuovi assetti del bilancio interno in relazione a eventuali cali molto forti del prezzo del petrolio.

    Sarebbe davvero grave se i maggiori attori economici e politici mondiali dovessero affrontare una nuova emergenza economica sistemica marciando ciascuno al suono della sua fanfara, mentre diventa sempre più impellente decidere a livello di G20.



Europa e Usa 2 - Wall Street contro la City. Scontro vero?


Se la newyorkese Wall Street e la City di Londra, i due pesi massimi della finanza e della speculazione mondiale, si scontrano, vuol dire che è suonata la campanella dell’ultimo round per il sistema finanziario? E’ troppo presto per affermarlo. Da tempo tra i due templi della finanza c’è un crescendo di colpi per la supremazia.

    Dall’inizio della crisi negli Usa indagini parlamentari e giudiziarie hanno portato a galla i giochi sporchi della finanza speculativa, come dimostrano le vicende dei mutui subprime, dei derivati Otc e di tutte quelle operazioni ad alto rischio fatte dalle grandi banche americane. Alcune, come la Lehman Brothers, sono fallite; altre, come la Wachovia Bank, sono state assorbite da altre. Fallimenti e acquisizioni spesso hanno coperto il grande marcio dei loro bilanci. Naturalmente hanno anche così dissolto le responsabilità penali per le grandi truffe dei derivati della Lehman e per il riciclaggio dei soldi della droga della Wachovia.

    Sono emerse le responsabilità delle “too big to fail”, come la JP Morgan o la Goldman Sachs, in azioni speculative e anche fraudolente. Il tutto messo a tacere con alcune dimissioni di manager e con il pagamento di multe che in realtà sono una piccola percentuale dei guadagni illeciti.

    Indubbiamente, Wall Street ha accusato il colpo. Ha perso la sua centralità basata sul fatto che la gran parte delle operazioni finanziarie erano fatte in dollari. Ha licenziato operatori e persino tagliato bonus. Ha ridotto le sue attività. Ma nel contempo ha lottato contro le riforme volute da Obama fino a neutralizzarle in gran parte.

    Recentemente anche Bloomberg News ha scritto che Wall Street dovrebbe ulteriormente ridurre i suoi team di 3.000 unità mentre la City si preparerebbe ad assumere altri 9.000 operatori finanziari. Sono dati eloquenti.

    Intanto, l’annacquata riforma “Dodd-Frank” dei mercati finanziari americani starebbe per introdurre dei nuovi regolamenti che, seppur molto limitati, potrebbero portare gli speculatori e gli altri operatori a disertare Wall Street per non essere “schedati” e sottoposti ai controlli delle agenzie americane.

    In verità, anche la City ha subito colpi pesanti, ma si è tenuta sotto traccia. La City è un tutt’uno con il sistema di potere politico e oligarchico britannico.

    Ecco perché, a parte qualche denuncia verbale, Londra non ha ancora presentato un’indagine seria sulle malefatte speculative della City. Eppure è proprio nella City che ha sede l’80% di tutti gli hedge funds mondiali ed è sempre qui che una grande mole di derivati Otc viene contrattata con modalità altamente opache

    D’altra parte è noto che la City rappresenta almeno il 10% dell’intero Pil inglese. I rapporti con il potere politico britannico sono stati resi palesi al summit di Bruxelles dello scorso 9 dicembre quando il premier David Cameron si rifiutò di sottoscrivere l’accordo europeo che tra l’altro ventilava l’idea della Tobin tax sulle transazioni finanziarie.

    Dopodiché i problemi per la City sono arrivati dall’altra sponda dell’Atlantico. Sulla scia di certe indagini aperte in Europa, i Dipartimenti di Giustizia di New York e del Connecticut hanno accusato la Barclays di aver guidato per anni la manipolazione del LIBOR (cioè il “London Interbank Offered Rate”, tasso di riferimento in uso alla City per i mercati finanziari, ndr). E’ vero che anche due banche americane sono coinvolte, la Jp Morgan e la Citigroup, ma per la grande stampa americana la responsabilità è soprattutto inglese ed europea.

    Come da noi già evidenziato tempo fa, una commissione del Senato americano ha accusato la Hong Kong & Shanghai Banking Corporation (Hsbc) di riciclaggio di soldi sporchi della droga tra gli Usa  e il Messico. Inoltre, il procuratore di New York, Ben Lawsky, ha denunciato una banca storica inglese, la Standard Chartered, di aver “lavato” 200 miliardi di dollari iraniani contravvenendo alle sanzioni americane contro Tehran.

    Secondo il New York Times la denuncia riguarderebbe anche la Deutsche Bank che sarebbe coinvolta in business con i cosiddetti “stati canaglia”, quali la Corea del Nord, la Siria, il Sudan, Cuba e l’Iran. Anche altre cinque banche europee – le olandesi Abn Amro e Ing, le britanniche Barclays e Lloyd nonché il Credit Suisse – sono accusate di condurre affari con Corea del Nord, Cuba e Iran, che a loro volta finanzierebbero terrorismo e traffico di droga.

    Ciò dimostra che sono aperti molti fronti.

    Anche da queste accuse, denunce e scandali il quadro dell’intero sistema finanziario mondiale risulta fortemente compromesso. Del resto era già noto che parte della speculazione si basava anche su traffici illeciti.

    Ci auguriamo che finalmente la verità sulla crisi sistemica emerga in tutta la sua portata.

    Wall Street e la City sono due “lupi famelici” che per il momento si azzannano tra di loro per la supremazia e per i resti della carcassa del sistema finanziario.

    Ma l’Europa dovrebbe vigilare seriamente perché essa stessa potrebbe alla diventare la preda sulla quale i lupi insieme potrebbero infine accanirsi.



Europa e Usa 3 - Bernanke: la Fed di fatto è una bad bank


Che la Federal Reserve fosse di fatto una bad bank è noto da tempo. Adesso anche il capo stesso della FED, Ben Bernanke, lo ammette, e anzi lo presenta come la nuova teoria monetaria. La Fed è diventata una grande “bad bank” che compra a man bassa titoli tossici dalle banche in crisi.

    Lo ha annunciato ufficialmente a Jackson Hole, nello stato del Wyoming, durante l’ultimo simposio bancario annuale organizzato dalla Fed di Kansas City.

    Bernanke ha ricordato che nell’agosto del 2007, all’inizio delle crisi finanziaria globale, i tassi di interesse della Fed erano del 5,25% mentre oggi sono dello 0-0,25%. Di conseguenza i tradizionali strumenti di politica monetaria e finanziaria della banca centrale americana, in primis le manovre restrittive o espansive sul tasso di sconto e l’estensione temporale dei termini di prestito, non funzionano più.

    Dal 2007 la Fed lavora con “nontraditional policy tools”, con armi monetarie non convenzionali basate anzitutto sulla gestione del “balance sheet”, cioè sull’espansione del suo stato patrimoniale.

    Dopo aver provato una serie di operazioni per sostenere il sistema finanziario in default, la Fed è passata all’acquisto diretto dei titoli del debito pubblico e di altri titoli più tossici in possesso delle cosiddette imprese sponsorizzate dal governo (GSE), come i colossi immobiliari dei mutui subprime, Fannie Mae e Freddie Mac. Per far ciò ovviamente ha fatto lavorare a tempo pieno le rotative per stampare dollari.

    Dal Novembre 2008 e in poco più di due anni, Bernanke ha dettagliato di aver comprato titoli, molti dei quali non più appetibili, per un totale di 3.350 miliardi di dollari!

    Tali operazioni sono state anche chiamate “quantitative easing”. Per cui nei libri contabili della Fed ora vi sono anche 850 miliardi di dollari di mortgage backed securities (mbs), cioè derivati tossici emessi sulla base di ipoteche impagabili.

    Quando si cercavano delle soluzioni alla crisi, tra l’altro si ipotizzò la creazione di “bad bank” dove “parcheggiare” i titoli tossici, insieme ad altre riforme per rendere illegale i meccanismi della “loro produzione”. Nessuna banca privata ha fatto tale scelta per paura di perdere credibilità. La Fed invece lo ha fatto con i soldi pubblici nell’interesse della finanza privata!

    A Jackson Hole Bernanke ha cercato di difendere tale decisione e la sua teoria economica proprio come fanno quei cuochi in televisione che danno le ricette sul momento. “Impariamo facendo”, ha detto. Se il piatto sarà una schifezza lo si saprà solo dopo. Mentre si cucina, invece, si tessono le lodi del cuoco, si decantano l’atmosfera e i colori, evitando attentamente di parlare del sapore.

    Uno degli effetti positivi derivanti dalla politica della Fed sarebbe, secondo alcuni studi, l’abbassamento del tasso di interesse dei bond decennali del Tesoro dello 0,8-1,2%. Misera cosa per una valanga di nuova liquidità!

    Per Bernanke l’importante è il fatto che il Pil e l’occupazione negli Usa non siano crollati. Immettere ricchezza non prodotta sotto forma di nuova moneta è però come dare la droga ad un malato. All’inizio sembra che egli stia bene, ma successivamente starà peggio o per crisi di astinenza o per gli effetti collaterali sopravvenuti.

    Bernanke paragona la sua politica con l’acquisto di bond del Tesoro a lungo termine deciso dopo la Grande Depressione. E’ un paragone inaccettabile. Allora la Fed comprava titoli emessi dal governo per sostenere la ripresa e l’occupazione con grandi progetti di investimento e infrastrutture. Non comprava i titoli tossici mbs. Allora si avviò il New Deal…

    Comunque egli ha dovuto ammettere i rischi della nuova politica: la destabilizzazione dei mercati finanziari, la perdita di fiducia nella Fed in rapporto anche alla minaccia inflazionistica, la ricerca delle banche di nuove operazioni altamente rischiose e la possibilità di grosse perdite per la Fed stessa a seguito di possibili futuri aumenti del tasso di interesse.

    La seconda arma non convenzionale di Bernanke è l’informazione. Nella società della comunicazione e della pubblicità ha ovviamente puntato sull’elemento psicologico. Le aspettative diventano più importanti della stessa realtà. Per questo egli ha annunciato che la politica dei tassi a zero interessi rimarrà “almeno fino alla fine del 2014”.

    La grande stampa sta presentando una Fed interventista ed unica in grado di salvare l’economia. Purtroppo, secondo noi, non è così. Del resto anche l’autorevole Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea in un suo recente paper evidenzia i pericoli insiti nella politica della Fed. Sottolinea infatti che “le misure non convenzionali hanno fornito un supporto temporaneo alle economie. Questo però non vuol dire che  l’espansione dei balance sheets delle banche centrali avranno in generale degli effetti macroeconomici positivi”.

    Molti, in particolare gli Usa, vorrebbero che la Bce portasse avanti la stessa politica. Secondo noi invece Mario Draghi ha fatto bene a disertare Jackson Hole. Vogliamo credere che con un tale gesto, Draghi, la Bce e l’Europa abbiano voluto dare un segnale differente.