6.24.2013

Attenti al Trattato

 Forse ad ottobre il Congresso americano potrebbe ratificare il più grande e importante  trattato di libero scambio mai

approvato, il cosiddetto “Trans-Pacific Partnership”.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Sotto la guida degli Stati Uniti verrebbero coinvolti 12 Paesi: il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Malesia, il Vietnam ed il Brunei per la parte asiatica, il Cile, il Perù, il Messico e il Canada per il continente americano. Paesi che rappresentano il 40% del commercio mondiale.

    E’ un evidente mutamento geopolitico e strategico che di fatto può porre in seconda fila sia l’Europa che i Paesi del Brics. E’ un accordo che si pone in aperta alternativa rispetto al ruolo economico e politico della Cina. Per gli Stati Uniti, quindi,  il ventunesimo secolo sarà imperniato più sul Pacifico che sull’Atlantico.

    Purtroppo in Europa l’evento è di fatto sottaciuto, Tutt’al più  se ne parla nei circoli di esperti. Ciò dimostra la debolezza politica dell’Unione europea e la mancanza di una autonoma visione strategica dello sviluppo globale.

    Nel campo economico e commerciale il nuovo processo provocherà sicuramente degli sconvolgimenti. Ciò potrebbe accadere anche per le questioni riguardanti gli aspetti geopolitici e militari, ma di ciò è opportuno parlarne in altra sede.

    In passato i trattati di libero scambio, come quello del Nafta per l’area del Nord America, sono stati presentati come accordi di liberalizzazione commerciale che avrebbero fatto aumentare il commercio a beneficio di tutti i partecipanti. La realtà purtroppo è stata ben diversa. Sono stati sconvolti il mondo delle produzioni e quello del lavoro in tutti i Paesi coinvolti. Sono state effettuate, infatti, vaste operazioni di outsourcing che hanno determinato massicci spostamenti di produzioni fuori dai confini nazionali alla ricerca di una bassa tassazione e di un ridotto costo del lavoro.

    Si pensi, ad esempio, che nel 1993 quando fu approvato il Nafta, gli Usa avevano un surplus commerciale di 1,6 miliardi di dollari con il Messico. Nel 2012 essi avevano un deficit commerciale (solo merci senza i servizi) di  61 miliardi. Nel frattempo lungo il confine messicano sono sorte decine di migliaia di fabbriche di assemblaggio in regime di duty free, le maquilladoras, con condizioni di lavoro ottocentesche, e milioni di messicani hanno dovuto abbandonare i loro paesi per cercare fortuna negli Usa come migranti illegali.

    Simili accordi di libero commercio con la Cina hanno portato gli States dal pareggio commerciale del 1985 ad un deficit di ben 315 miliardi di dollari nel 2012! Lo stesso è avvenuto con il Sud Corea. Come i sindacati americani giustamente lamentano, tali scelte portano inevitabilmente a drammatiche riduzioni di posti di lavoro, soprattutto nelle industrie. Nel 2000 gli americani che lavoravano nelle manifatture erano 17 milioni. Oggi sono meno di 12 milioni.

    Con il sistema degli accordi gli Usa hanno tentato di mantenere “artificialmente” alti i livelli di vita americani, accumulando però dal 1975 un deficit commerciale di ben 8 trilioni di dollari!

    Alcuni negli Usa sono perciò giustamente preoccupati per le ricadute economiche e sociali. Diversi membri del Congresso, come il senatore democratico Ron Wyden, da tempo lamentano il fatto che i dettagli del trattato siano ignorati dai parlamentari, mentre ben  600 corporation americane sarebbero state coinvolte nella elaborazione di specifici aspetti dell’accordo.

    Il TPP potrebbe diventare lo spartiacque nella storia del nuovo secolo. I Paesi europei rischiano di subire gli effetti di un’ulteriore liberalizzazione commerciale e di una competizione senza regole e prima o poi si troveranno a rincorrere processi economici destabilizzanti senza avere alcuna voce in capitolo.

    E’ quindi una ragione di più per realizzare speditamente una effettiva unione politica dell’Europa.

 

LAVORO E DIRITTI - La crisi fa bene ai ricchi

a cura di www.rassegna.it

Secondo il 'World Wealth Report 2013' nel 2012 il numero dei "paperoni" (da almeno un milione di dollari) ha raggiunto quota 12 milioni nel mondo e i loro patrimoni hanno toccato il record di 46.200 miliardi. L'Italia è al decimo posto con 176mila ricchi

La crisi fa bene ai ricchi che nella pessima congiuntura economica mondiale continuano a crescere. Soprattutto grazie alla spinta in Nord America e in Asia. A favorire l'incremento c'è l'andamento positivo dei corsi borsistici e del valore degli immobili, così il numero dei paperoni (parliamo di persone che vantano un patrimonio di almeno un milione di euro, senza contare le residenze private) nel 2012 è passato da 11 a 12 milioni nel mondo e i loro patrimoni hanno toccato il record di 46.200 miliardi di dollari, mentre nel 2007 (cioè prima dell'inizio della crisi) i 10,1 milionari possedevano complessivamente 40.700 miliardi di dollari. E' quanto emerge dal 'World Wealth Report 2013' della la società di consulenza Capgemini e della Royal Bank of Canada (Rbc).

    L'Italia si classifica al decimo posto al mondo per numero e ricchezza dei 'paperoni'. Nel corso del 2012 il numero di individui con un patrimonio di almeno un milione di dollari, escluse residenze private e oggetti da collezione, è aumentato del 4,5%, arrivando a quota 176mila, posizionandosi al decimo posto al mondo, stabile rispetto all'anno precedente. E la ricchezza detenuta dai 'paperoni' in Italia si attesta a 336 miliardi di dollari, con un incremento del 4,5% sul 2011.

    Il Nord America si conferma nel 2012 l'area con la maggiore ricchezza, dopo il sorpasso nell'anno precedente da parte dell'area 'Asia Pacific'. I 3,73 milioni di 'paperoni' nordamericani superano i 3,68 milioni della regione asiatica, con una ricchezza complessiva di 12.700 miliardi di dollari rispetto ai 12mila miliardi della regione 'Asia Pacific'. L'aumento della ricchezza investibile a livello mondiale, si sottolinea nel report, è stata guidata dagli ultra-ricchi, che sono cresciuti per ricchezza e per numero di circa l'11%, dopo i cali registrati nel 2011.

 

6.15.2013

Le spinte protezionistiche Usa

A margine dell'Astana Economic Forum tenutosi alla fine di maggio nella capitale del Kazakhstan, l'economista e premio Nobel, Robert Mundell, ha auspicato che gli Stati Uniti introducano misure protezionistiche a sostegno delle proprie manifatture e dei propri prodotti. Secondo noi sarebbe un errore.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

Mundell è noto per essere stato uno dei fautori della reaganomics, nota per i tagli di bilancio e le riduzione delle tasse. E' uno dei preminenti paladini del "free trade", cioè delle politiche di liberalizzazione commerciale. In verità più recentemente è diventato anche il "padre spirituale" dell'euro.
Il professore canadese riconosce che le politiche di stimolo non sono in grado di rimettere in funzione il motore della ripresa economica americana. Ciò è dovuto in particolare alla politica di "outsourcing", che ha portato le imprese americane a cercare lavoro a basso costo fuori dai confini degli Usa, in particolare nel Messico, e in molti paesi asiatici, a cominciare dalla Cina. Naturalmente con la conseguente bassa professionalità.
Tale politica ha indebolito la struttura portante di molti settori come quello aeronautico assai rilevante. Tanto che la Boeing, per esempio, avendo assegnato importanti commesse nel campo elettronico ad altre imprese internazionali, si trova spesso in difficoltà ad affrontare le emergenze relative al surriscaldamento delle batterie in quanto i propri ingegneri non sono utilizzati in questo comparto.
Mundell sostiene che gli Usa sono come una "donna nuda" rispetto al resto del mondo che opera attraverso coperture protezionistiche. Auspica quindi delle contromisure, soprattutto nei confronti della Cina, del Giappone e della Germania. Non propone delle vere e proprie tariffe doganali, in quanto ciò porterebbe ad uno scontro aperto. Suggerisce interventi più soft ma non meno efficaci, quali il Buy American, in particolare per le commesse statali.
A nostro avviso si tratta di segnali molto pericolosi che rivelano la mancanza di una visione strategica e aggravano i rischi di una competizione senza regole.
In pratica si vorrebbe puntare il dito contro gli altri, mentre si tende a negare che l'immissione di 100 miliardi di dollari al mese nel sistema economico americano è diventata di fatto la più grande misura protezionistica. In questo modo gli Usa mantengono artificialmente alti i consumi e le produzioni interne e al contempo pagano parte delle importazioni con risorse create dal nulla. Inoltre, la gran parte dell'enorme budget militare e di altri settori strategici è strettamente orientata verso i prodotti interni. Solo una parte viene "pilotata" verso Paesi dell'alleanza militare per ragioni geopolitiche.
Anche il recente aumento della produzione di combustibile ottenuto attraverso i nuovi metodi del fracking (la fratturazione idraulica di scisti bituminosi) non è stato orientato dal governo verso l'export, pur avendo i produttori la possibilità di ottenere alti profitti vendendo il gas in Europa dove il prezzo è di un 1/3 superiore.
In verità gli Usa non sono nuovi a risposte protezionistiche in situazioni di crisi. Nel 1930 la legge Hawley-Smoot cercò di rispondere alla crisi del '29 con alti dazi su 20.000 prodotti di importazione che invece di rilanciare la produzione interna esacerbarono gli effetti della Grande Depressione a livello mondiale.
Per i Paesi emergenti, invece, certe misure protezionistiche trovano una giustificazione perché altrimenti non riuscirebbero in tempi brevi a realizzare un programma di industrializzazione se schiacciati dalla concorrenza in grado di imporre qualità e prezzo.
Dopo essere stati i primi responsabili della crisi finanziaria globale, gli Stati Uniti non possono pretendere di spostare il peso della crisi e dei loro tentativi di ripresa sui Paesi più poveri e su quelli emergenti.
E' evidente che gli effetti della crisi sono globali e che le scelte e le regole per fronteggiarli devono essere globali. Dopo il 2007 il crollo delle produzioni e del commercio, in particolare nel mondo Occidentale, è stato attutito dalla crescita rilevante delle economie del Brics e di altri Paesi emergenti. Recentemente però anche l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha dovuto rivedere molto al ribasso le aspettative per il 2013 del commercio mondiale.
Tra le riforme da affrontare vi è certamente quella del WTO. La cosa più deleteria sarebbe una competizione commerciale dura e senza esclusione di colpi che porterebbe il mondo in una spirale di guerre protezionistiche e monetarie.

6.11.2013

La prospettiva di Latouche e i suoi limiti

Da MondOperaio

www.mondoperaio.net/

 Serge Latouche, nei suoi ultimi libri (Limite e Usa e getta), torna ad ammonirci sul fatto che la “condizione umana è inscritta dentro dei limiti”, e che l’andare oltre è la conseguenza del dominio di un modello di sviluppo planetario che ignora ogni confine naturale, geopolitico, etico, antropologico e simbolico. Il peccato di dismisura, sanzionato dagli antichi, si è rovesciato in un furore prometeico.

 di Gianfranco Sabatini

 Alla tracotanza autodistruttiva dell’universalismo liberoscambista Latouche contrappone un demos formato da uomini emancipati che, facendosi carico della loro autonomia, si danno delle frontiere costitutive di un mondo comune eco-compatibile nel quale rinverdire i veri legami che creano la società.

    Si tratta del solito sermone latouchiano, nel quale viene sottolineato che l’introduzione di un limite alla logica della crescita illimitata è strettamente correlata alla necessità del buon funzionamento dell’organizzazione sociale e dell’adozione di norme che evitino agli uomini d’essere prigionieri della dismisura e dell’illimitatezza. Il problema è, riconosce Latouche, che ogni limite è arbitrario, e che la sua determinazione lascia sempre margini di incertezza. L’arbitrarietà sta nel limite della ragione, per sottrarsi al quale la cultura dell’Occidente è pervenuta alla conclusione della sua inesistenza; in tal modo la cultura moderna ha denunciato la “dimensione tragica della dimensione umana, stretta tra l’impossibilità di definire norme razionali e quella di vivere senza norme”.

    Tuttavia gli uomini moderni, approdati al Rinascimento, hanno preteso di riscattarsi da questa condizione, liberandosi da qualsiasi limite per abbandonarsi a una “caccia all’infinito”. Inoltre la loro ingegnosità sfrenata, acquisita attraverso i progressi scientifici e tecnologici, li ha spinti a pensare di poter risolvere tutti i problemi, liberandosi dai principi etici degli antichi.

    Questo processo ha trovato la sua piena affermazione col “progetto dei Lumi”; l’illuminismo, infatti, per Latouche, ha inteso liberare gli uomini dalla soggezione alla trascendenza, alla tradizione e alla rivelazione, ma anche assicurar loro il controllo razionale della natura traverso l’economia. In questo modo gli uomini hanno edificato una società la più eteronoma (guidata, cioè, da principi ad essa esterni) della storia, soggetta alla dittatura dei mercati e alla mano invisibile dell’economia. Con l’artificializzazione del mondo, conseguenza dell’illimitatezza tecno-scientifica, gli uomini sono arrivati a pensare di poter manomettere la propria identità biologica, per liberarsi dai vincoli inerenti il loro condizionamento genetico.

    Se anche riuscissero a rompere il “cerchio di ferro della finitezza”, gli uomini non potranno certo, secondo Latouche, risolvere i propri problemi sociali generati dall’illimitatezza; ciò perché l’antinomia tra ragione razionale e ragione ragionevole non può essere risolta dalla ragione stessa. La sola autorità che può risolverla è il demos, ossia gli uomini emancipati che si fanno carico della loro autonomia e si danno delle frontiere costitutive di un mondo comune che contiene diversi mondi comuni.

    In origine, conclude Latouche, la prospettiva della decrescita si proponeva più modestamente di far fronte alla dismisura economica, ma oggi si deve constatare che progressivamente questa dismisura è divenuta il veicolo di tutte le altre; di conseguenza, la prospettiva della decrescita assume oggi una dimensione più generale, in quanto è una questione che si pone per l’individuo, ma ancora di più per l’essere collettivo. Quest’ultimo perciò deve sapersi dare una norma del sufficiente; Latouche, citando non del tutto a proposito André Gorz, sottolinea che in mancanza di un riferimento alla tradizione la norma va definita politicamente.

    Questa sua conclusione è la contraddizione di sempre di Latouche, vittima di un’ideologa che lo spinge a pensare che un pensiero astratto possa avere una rilevanza politica concreta. Ipotizzare un ruolo politico per un demos costituito da uomini quali erano nel lontano passato significa mancare di realismo e, sulla base di una concezione tragica della vita qual è quella di cui Latouche stesso è portatore, rifiutare gli uomini in carne, ossa e cultura di oggi.

Non che non sia necessario, oggi più di ieri, rifiutare la logica dell’ “usa e getta” tanto in voga nei sistemi sociali ad economia industriale avanzata, evitando l’ “obsolescenza pianificata dei beni” (quella determinata da una svalutazione tecnica intenzionale delle produzioni), quale si ha, ad esempio, con l’introduzione di una “nuova generazione” di macchine utensili prima ancora che quelle della generazione precedente siano rese obsolete anche dal punto di vista economico (perché totalmente usurate dall’impiego). Oppure che non sia necessario evitare l’ “obsolescenza simbolica” (quella determinata da una svalutazione delle produzioni realizzata attraverso la pubblicità a sostegno di stati di bisogno solo esteriori o appariscenti). Tuttavia occorre tener conto dell’improponibilità di un ritorno a modelli di consumo del passato senza valutarne le conseguenza negative dal punto di vista del funzionamento del sistema economico e della tenuta della stabilità sociale.

    E’ a questo tipo di conseguenze negative che Gorz riferisce la sua prospettiva riformista della società capitalista, mentre Latouche, facendo appello a categorie antropologiche e politiche fantasiose, propone il superamento radicale del progressismo illuminista e dei difetti della società industriale che da esso ha tratto origine.

    André Gorz, però, pur riconducendo la causa della crisi del capitalismo alla sua struttura e all’organizzazione istituzionale che la sorregge, sino a prefigurare la crisi stessa come anticipazione di una sua prossima fine irreversibile (come fa Latouche) propone osservazioni critiche che, a differenza di quelle di Latouche, sono di grande attualità, per la loro apertura alla possibilità di riformare il capitalismo in positivo, di contro a ogni teoria della fine della storia dell’umanità, o quanto meno di un ritorno dell’umanità stessa alla sua origine.

 

 

Cgil, Cisl e Uil a Piazza San Giovanni

IPSE dixit

Non si chiede il sacrificio - «Ricordando Matteotti, non si chiede il sacrificio della vita a nessuno, ma onestà e coerenza, sì.» – Gianna Granati

 

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 Manifestazione 22 giugno

Cgil, Cisl e Uil a Piazza San Giovanni

 Mobilitazione unitaria dei sindacati sotto lo slogan "Lavoro è Democrazia" per rivendicare provvedimenti "urgenti" e "indispensabili" per favorire gli investimenti, la redistribuzione del reddito e la ripresa dei consumi

 Il tema del lavoro deve tornare al centro delle scelte politiche ed economiche perché 'Lavoro è Democrazia'. I sindacati confederali ne sono convinti e il 22 giugno lo ribadiranno in occasione della manifestazione nazionale che si terrà a Roma in Piazza San Giovanni. Intanto, in tutta Italia, si stanno svolgendo numerose iniziative unitarie a livello territoriale, regionale e di categoria in preparazione della mobilitazione nazionale, così come deciso dagli organismi direttivi di Cgil, Cisl e Uil.

    Secondo i sindacati non c'è più tempo per aspettare, bisogna frenare la caduta libera dell'economia del nostro Paese. La manifestazione del 22 giugno - come si legge sul portale Cgil.it - rappresenta per le tre confederazioni un ulteriore momento per invocare provvedimenti “urgenti” e “indispensabili” che possano favorire gli investimenti, la redistribuzione del reddito e la ripresa dei consumi, per questo hanno deciso di promuovere un percorso di mobilitazione unitaria.

    Per uscire dalla recessione e per tornare a crescere, Cgil, Cisl e Uil rivendicano innanzitutto misure adeguate per affrontare l'emergenza disoccupazione a partire dal finanziamento degli ammortizzatori in deroga (almeno per tutto il 2013) e l'effettiva salvaguardia degli esodati. E' necessario provvedere all'immediata riduzione delle tasse per i lavoratori dipendenti, i pensionati e le imprese che faranno assunzioni nel prossimo biennio, e al rilancio di politiche anticicliche, prevedendo la possibilità per i Comuni, che hanno risorse, di fare investimenti e di avviare i cantieri già deliberati fuori dal Patto di Stabilità.

    I sindacati chiedono, inoltre, la riduzione dei costi della politica, perché spiegano è “la condizione per buone istituzioni e buona politica” e l'ammodernamento e la semplificazione della Pubblica Amministrazione, che dovrà realizzarsi “non attraverso tagli lineari, ma con la riorganizzazione e l'efficacia del suo funzionamento, con il contenimento della legislazione concorrente ed eliminando tutte le formalità che rallentano le decisioni”. É fondamentale, per sostenere la crescita, investire nella scuola pubblica, nell'università, nella ricerca pubblica e nell'innovazione e prorogare i contratti precari nella Pubblica Amministrazione e nella Scuola in scadenza.

    Tra le 'ricette' indicate da Cgil, Cisl e Uil per far ripartire la crescita: la definizione di una politica industriale che sappia rilanciare le produzioni, valorizzando le imprese che investono in innovazione e ricerca e che salvaguardano l'occupazione e le competenze, individuare uno strumento di contrasto alla povertà e il finanziamento della non autosufficienza, correggere le iniquità della legge Fornero sulle pensioni. Infine, applicare la riforma dell'Imu esonerando solo i possessori di un'unica abitazione, con un tetto riferito al valore dell'immobile.

    Per sostenere queste rivendicazioni Cgil, Cisl e Uil saranno in piazza San Giovanni, sabato 22 giugno, la manifestazione sarà conclusa dagli interventi dei segretari generali delle tre confederazioni, Camusso, Bonanni e Angeletti.

 

6.03.2013

AAA Regole cercansi

Dalla Banca dei Regolamenti Internazionali: presto un’inversione nelle politiche monetarie “accomodanti”.

 di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

La Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea annuncia che a breve potrebbe esserci una virata nelle politiche monetarie delle banche centrali. Si porrebbe fine ai tassi d’interesse vicini allo zero.

    A Londra recentemente, il direttore generale della Bri, Jaime Caruana, ha affermato che, sebbene siano trascorsi cinque anni dallo scoppio della crisi, la ripresa non c’è ancora e l’attività economica complessivamente è ancora inferiore rispetto al livello pre-crisi.

    In questo periodo le banche centrali dei paesi del G20 hanno abbandonato il fondamentale criterio del controllo dei prezzi instaurato dopo le ondate inflative degli anni settanta.

    Esse invece hanno adottato politiche non convenzionali ma “accomodanti” con l’immissione di una quantità impressionante di nuova liquidità. Il direttore Caruana, sa che ciò “ha impedito che il sistema finanziario implodesse trascinando con sé anche l’economia reale”, ma ciò ha anche “ridotto grandemente la percezione del rischio finanziario”.

    Dal 2007 ad oggi il debito totale, pubblico e privato, del settore non finanziario dei Paesi del G20 è aumentato di oltre 30 trilioni di dollari! Questo dato contraddice in modo eclatante i tanti impegni e le tante promesse di ridurre (deleveraging) il livello del debito.

    Inoltre nello stesso periodo le attività e i bilanci delle banche centrali del G20 sono aumentati di ben 10 trilioni di dollari! Esse hanno comprato obbligazioni e una montagna di derivati e di altri titoli tossici! Lo hanno fatto, secondo noi irresponsabilmente, stampando moneta.

    Il direttore della Bri fa notare giustamente che questa liquidità finora si è riversata sulle Borse  facendo levitare i listini a volte fino ai massimi livelli come a Wall Street e alla City. Non si può escludere però che in seguito essa possa determinare un aumento dei prezzi dei beni, dei servizi e delle stesse derrate alimentari a livello mondiale.

    Purtroppo di fronte a tale rischio c’è ancora chi rivendica un “più forte attivismo nella politica monetaria” con un’ulteriore riduzione dei tassi nonché una maggiore infusione di liquidità, come da tempo fa la Fed di Bernanke.

    Una tale scelta è ritenuta “ingiustificata” da Caruana che afferma: “Se la medicina non dà l’effetto desiderato, non è necessariamente perché il dosaggio è stato troppo basso. Forse l’intero trattamento e il ruolo della medicina in esso dovrebbero essere riconsiderati. Forse c’è bisogno di qualche altra cosa.”

    Del resto la politica di stimolo monetario ha spinto tutti, dalle istituzioni finanziarie ai governi, a continuare con il business as usual. E’ oggettivamente aumentato il rischio di inflazione. Sono accresciuti i flussi monetari verso i paesi emergenti creando gravi squilibri interni a causa del forte aumento del credito non produttivo e anche dell’inflazione. Si sono ridotti in modo non giustificato i rendimenti dei titoli dei Paesi cosiddetti avanzati spingendo di conseguenza molti operatori finanziari a cercare profitti in settori ad alto rischio. La stessa credibilità delle banche centrali sarebbe messa in gioco.

    Perciò Caruana sostiene che “le politiche monetarie accomodanti non sono efficaci quando bisogna riparare i bilanci del settore privato. Quando il problema è il debito troppo alto e gli attori economici sono in ritirata non è realistico pensare che la politica monetaria possa generare una forte crescita attraverso l’abbassamento dei tassi di interesse”.

    In sintesi la Bri prospetta una inevitabile inversione di rotta nella politica monetaria che, dopo gli eccessi menzionati, potrebbe non essere indolore. Si ricordi che una gran parte dei titoli di debito sono stati emessi a bassi tassi di interesse. Se questi dovessero crescere e le banche centrali riducessero i loro consistenti acquisti di titoli, i mercati finanziari potrebbero entrare nuovamente in fibrillazione.

    Purtroppo il direttore della Bri fornisce una disanima precisa del malessere finanziario, economico e monetario del sistema ma non propone alcuna riforma dello stesso.

    Noi non ci stancheremo mai di ripetere che i governi rappresentati nel G20 devono adottare regole stringenti e condivise per il settore finanziario nonché sottoscrivere nuovi accordi che riequilibrino le politiche di sviluppo mondiale e rivedano anche le attuali norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.