10.28.2015

Volkswagen: uno scandalo, tanti interrogativi


È difficile pensare che l'intera operazione sia stata ideata solo da un paio di tecnici. Le responsabilità dell'azienda, ma anche dei membri del Consiglio di sorveglianza. A rischio 20mila posti di lavoro nella produzione di componenti per motori a gasoli
 
di Roberto Goldin
 
Ci vorrà sicuramente molto tempo per dare una risposta plausibile a tutti i quesiti aperti dallo scandalo Volkswagen, che ha rivelato al mondo la manipolazione delle emissioni delle auto con il motore diesel EA 189 EU5 e con una cilindrata di 1,2, 1,6 e 2,0. E non tanto per quanto riguarda il profilo tecnico dell'affare. Come funziona il meccanismo fraudolento impostato da un software che entra in funzione solo in occasione dei controlli dei gas di scarico in laboratorio (in particolare l'ossido di azoto), abbassandone considerevolmente i valori, è stato già chiarito.
    Come pure è ormai palese perché tale sistema manipolativo sia stato installato, già a partire dal 2008, in milioni di vetture in tutto il mondo (11 per la precisione), di cui 8 nell'Unione europea e 2,8 in Germania. Se si fossero rispettati i limiti dei valori dei gas di scarico imposti dalla normativa, i costi di produzione sarebbero stati eccessivi rispetto a quelli della concorrenza, è stato detto. Chi invece abbia dato il via definitivo all'istallazione non è ancora stato accertato del tutto: molti sospetti ricadrebbero su Ulrich Hackenberg, allora e da molti anni capo del reparto Sviluppo (attualmente è nella direzione dell'Audi). Alcuni presunti responsabili sono stati temporaneamente sospesi dal lavoro. Ma potrebbero essere i classici capri espiatori.
    E comunque è difficile pensare che l'intera operazione sia stata opera solo di un paio di tecnici "criminali". Dovevano essere in molti a conoscenza della cosa, compresi i vertici dell'azienda. Che però – visto che la soluzione adottata sembrava aver avuto successo – hanno probabilmente chiuso un occhio, fingendo di non sapere nulla. Sarà difficile dimostrare il contrario. La conseguenza a questo punto è che a essere messa in dubbio è la sopravvivenza stessa del gruppo. Lo ha ammesso lo stesso presidente del consiglio di sorveglianza testé nominato, sia pure provvisoriamente (c'è bisogno dell'approvazione dell'Assemblea generale), Hans Dieter Pötsch, che finora aveva avuto il ruolo di responsabile delle finanze di Volkswagen.
    A conclusione del suo intervento all'assemblea del gruppo, Pötsch si è dichiarato ottimista, purché – ha aggiunto – "tutti facciano la loro parte". A proposito di Pötsch, molti analisti hanno osservato che egli non rappresenta affatto la scelta ideale per far ripartire VW con uno spirito nuovo, essendo un rappresentante del vecchio sistema e intimo di Martin Winterkorn, l'ad obbligato a dimettersi pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo e successivamente costretto a rinunciare a tutte le cariche che aveva nelle varie holding collegate alla VW. Certo, Pötsch ha una perfetta conoscenza dei 12 marchi del gruppo, ma è lui uno dei responsabili della scelta di informare con colpevole ritardo l'opinione pubblica (il che è illegale), e quindi gli azionisti di VW, su quali erano le accuse mosse dall'agenzia americana Epa alla casa automobilistica tedesca.
    Già a inizio settembre i vertici dell'azienda erano a conoscenza della faccenda, ma hanno riconosciuto la vera ampiezza dello scandalo solo tre settimane dopo. La ritardata confessione provocherà richieste di risarcimenti per vari miliardi di dollari – si parla di 18 – da parte degli investitori. Ma sono da mettere in conto pure i costi per il ritiro delle auto, e molto altro ancora. Ovviamente, al di là dei vertici aziendali, esistono altri responsabili dello scandalo. Non ultimo il governo, il quale ha quasi sempre agito secondo il motto: sta male l'industria automobilistica, sta male la Germania. Il che significa ignorare certe realtà, impedire l'applicazione di regole troppo severe per calcolo, opportunismo, amicizia. Un po' come avviene a Bruxelles e in molte altre parti del mondo.
    E che dire della responsabilità degli altri membri della presidenza del Consiglio di sorveglianza, di cui facevano parte Bernd Osterloh, da 10 anni presidente del Consiglio di fabbrica e aspirante (già da maggio) capo del personale, e il presidente ad interim Berthold Huber (il cui incarico si è concluso lo scorso 8 ottobre con la nomina di Pötsch), ex segretario del sindacato metalmeccanico IG Metall? È una circostanza piuttosto insolita quella di avere un sindacalista a capo del Consiglio di sorveglianza – pur nel quadro della Mitbestimmung tedesca, il sistema di codeterminazione che caratterizza le relazioni industriali in Germania –, circostanza dovuta alle dimissioni di Ferdinand Piëch di qualche mese fa. Anche per loro ci si chiede quanto sapessero della manipolazione. Osterloh nega e addossa l'intera responsabilità al management…
 
   

Buona per i media, meno per l'Italia

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

  

Legge di stabilità: manca il tema dell’equità. Sul piano comunicativo si percepisce la riduzione del carico fiscale per le famiglie. Ma l'impatto espansivo dov'è? Con il rischio che, non coniugando crescita e tassazione, si finisca per ricadere negativamente sulla capacità produttiva…

 

di Giuseppe Travaglini, Professore Economia Università di Urbino

 

Vi è un pregiudizio sfavorevole verso chi esprime dubbi sull’atteso impatto espansivo della legge di stabilità 2016. Ed esiste un secondo pregiudizio, altrettanto negativo, verso chi si interroga sugli effetti positivi dell’azzeramento delle imposte sulla prima casa, architrave, per le famiglie, dell’attuale manovra finanziaria del governo. Il fatto è che ogni azione di bilancio pubblico va valutata avendo due stelle polari come riferimento: l’impatto sulla crescita economica, da una parte, e la distribuzione e dunque l’equità del carico fiscale dall’altra. È l'ago della manovra posto tra questi due estremi che dà la misura di quanto un intervento di finanza pubblica privilegi l’uno o l’altro capo del binomio, oppure una loro combinazione economicamente e socialmente sostenibile.

    Detto ciò, è indubbio che nei termini in cui è stata presentata, la manovra finanziaria è in discontinuità rispetto ai quattro anni precedenti. È una manovra di complessivi 27 miliardi, di cui 13 incideranno sull’aumento del deficit, da 1,4% al 2,2% del Pil. E potrebbe arrivare a 30 miliardi, se Bruxelles autorizzerà l'anticipo dei 3,2 miliardi della clausola migranti (da utilizzare per ridurre l’Ires già dal 2016). Ma se sul piano della dimensione è formalmente espansiva, su quello della distribuzione del carico fiscale, e dell'impatto complessivo determinato dall'intreccio tra il moltiplicatore dei saldi e la distribuzione del carico, la valutazione è meno ottimistica. Dunque, come valutare?

    È una comune eredità dell’economia del benessere e della politica sociale l’opinione secondo cui entro i limiti del possibile in un mercato i punti di partenza degli individui debbano essere ravvicinati per evitare distorsioni nella disuguaglianza e per scongiurare avvitamenti verso il basso nella crescita economica. Già le recenti pagine di Thomas Piketty su crescita e disuguaglianza hanno contribuito a rilanciare, e chiarire, il ruolo della distribuzione della ricchezza nella crescita. Distribuzione della ricchezza e del reddito, aggiungiamo noi, che – per usare un'immagine di Luigi Einaudi – deve essere governata con equità distributiva attraverso l’abbassamento delle “punte” e l'innalzamento dal “basso”, affinché la produzione di ricchezza ne tragga complessivamente vantaggio. Un tema cioè, quello dell’equità, che coinvolge non solo quello della distribuzione e del contrasto alla povertà, ma anche il tema della crescita economica. Insomma, questioni cruciali che non rappresentano solo il punto di vista delle socialdemocrazie (“Noi non combattiamo la ricchezza, ma la povertà”), ma anche quello di una moderna visione liberale dell’economia e della società.

   Alla luce di queste considerazioni, quale valutazione possiamo dare dell’attuale legge di stabilità? Come accennato sopra il piatto forte è il taglio di Tasi e Imu sulla prima casa (pari a 3.700 milioni di euro). Certamente, sul piano mediatico, la percezione della riduzione del carico fiscale per le famiglie è immediata se paragonata ad altre forme di riduzione di imposta. Tuttavia, anche secondo la Banca d’Italia, l’eliminazione di Imu e Tasi “potrebbe avere effetti circoscritti sui consumi”, in quanto non contribuisce ad accrescere il reddito disponibile da cui dipendono i medesimi. Non solo. L'abolizione dell’Imu-Tasi sulla prima casa rende esente anche le abitazioni di grande valore e, dunque, i grandi patrimoni a cui afferiscono. Per evitare ciò, si sarebbe potuto valutare una rimodulazione dell’imposta sulla prima casa, che mantenendo la no tax-area per quelle meno pregiate (ed eventualmente i redditi più bassi), e rimodulando l'incidenza sugli immobili di medio valore, avesse lasciato inalterato il contributo “delle punte”…

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