5.25.2009

La sfida Fiat tra disoccupazione e riconversione

La Fiat ha lanciato sulla crisi dell'automobile la sua grande sfida. E’ una grande sfida anche per l’Italia. E per il governo. Ma non è forse una strada obbligata segnata dalla crisi globale più grave della storia?

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Il 23 febbraio scorso il New York Times pubblicava un editoriale con un titolo molto diretto "Why can’t Cerberus foot the bill?" (Perché Cerberus non paga il conto?) in cui invitava i padroni della Crysler e della General Motors, in primis il fondo di investimento Cerberus, a mettere sul tavolo i soldi necessari a salvare le due fabbriche automobilistiche, senza elemosinare ulteriori aiuti dello stato e della collettività.
Cerberus Capital Mangement è uno dei più agguerriti e spregiudicati equity fund, specializzato nel "metodo spezzatino", cioè quello di acquisire il controllo di un’impresa, eventualmente in difficoltà, spolparla, prendere il filetto e lasciare pelle e ossa (e debiti) agli altri, in particolare allo stato. Non ha potuto portare a termine questo programma in quanto la crisi globale ha drammaticamente cambiato le carte in tavola.
In aprile 2007 Cerberus aveva preso il 51% della GMAC, la fortezza finanziaria della GM con un portafoglio crediti al consumo (auto) pari a 1.400 miliardi di dollari e un anno dopo aveva acquistato l’80% della Chrysler. Cerberus, nome appropriato che si riferisce al mostro canino a tre teste che fa da guardiano all’inferno ricordato nella "Divina Commedia", è anche un colosso internazionale immobiliare e dei mutui sub prime, delle ipoteche e dei crediti facili e quindi è stato un attore primario nella crisi finanziaria globale.
Lo scorso dicembre nel mezzo della bancarotta, il governo americano aveva dato 13 miliardi di dollari alla GM e 4,3 alla Chrysler, poi a febbraio, dopo drastici tagli nell’occupazione e nella produzione e un inevitabile aggravamento della crisi finanziaria, GM e Chrysler avevano chiesto rispettivamente altri 17 e 5,3 miliardi di dollari in aiuti. A quel punto il New York Times aveva sfidato Cerberus a venire allo scoperto.
Come si sa la dimensione dell’intreccio è complicata dal fatto che GM, che è in procinto di chiedere il Chapter 11, cioè di dichiarare bancarotta, controlla la tedesca Opel, anch’essa alla vigilia di una "amministrazione fiduciaria temporanea" da parte del governo di Berlino.
Abbiamo riportato questi fatti perché prima di procedere con il petto gonfio di un certo "orgoglio nazionale"a buon prezzo, è doveroso farsi questa domanda: quale è l’accordo finanziario vero sottostante la possibile acquisizione della Chrysler da parte della Fiat e la joint venture con la Opel? Fino ad ora si sono sentite solo garanzie verbali secondo cui l’acquisizione non costerà niente, anzi la Fiat ci guadagnerebbe in mercato e in riduzione di costi di scala. In una situazione in cui tutti chiedono aiuti e piangono perdite e miseria, sorge qualche sospetto quando si pretende che la crisi all’improvviso crei delle opportunità che farebbero bene a tutti!
I dubbi infatti sono tanti anche perché pochissimi anni fa, fino alla primavera del 2005, era la Fiat in crisi che doveva essere assorbita dal gigante GM. Certamente la crisi finanziaria globale ha evidenziato i conti truffaldini delle case americane e i buchi vertiginosi in tutte le altre, ma ha anche prodotto un crollo nelle produzioni e nei consumi, settore auto incluso. Per evitare ulteriori nuove sorprese è quindi necessario conoscere in dettaglio gli accordi finanziari di cui poco si dice.
Inoltre, è vero che, dallo sconquasso provocato dalla crisi, in verità si sapeva già da prima, nel mondo emergeranno solamente 4-5 grandi gruppi industriali dell’auto. Entriamo quindi in un inevitabile fase di "mega alleanze" dove è auspicabile una Fiat attiva più che reattiva. Ma è altrettanto vero che, anche con una stabilizzazione della crisi, il mercato automobilistico occidentale vedrà un ridimensionamento almeno del 20%. Perciò la seconda domanda che dobbiamo consapevolmente porci è: cosa succederà con gli "esuberi" di mano d’opera e di macchinari?
Il problema non è soltanto la bravura e la riuscita delle trattative di Marchionne, le cui capacità manageriali non sono in discussione. La discussione in Italia ha finora evitato accuratamente di affrontare il problema dei livelli di occupazione e della cassa integrazione.
E’ poi reale il rischio di un pericolosissimo scontro tra lavoratori sia a livello nazionale che internazionale. Si parla di salvare i posti degli italiani a scapito di quelli della Opel tedesca e viceversa.
Perciò per mantenere ed espandere l’occupazione e il settore dell’auto è necessario mettere in campo un vasto progetto industriale anche di riconversione. Se produrremo meno auto, potremmo produrre altri beni necessari allo sviluppo di nuovi mezzi di trasporto pubblico e più in generale di macchinari, turbine, ecc. per altri settori tecnologici, ad esempio quelli legati alle grandi infrastrutture e all’ambiente. Crediamo che non manchino alla Fiat le competenze necessarie a preparare un simile programma.
E’ una grande sfida per la Fiat, per l’Italia e per il governo. Ma non è forse una strada obbligata segnata dalla crisi globale più grave della storia?

5.05.2009

Commercio internazionale

I recenti sforzi dell'amministrazione Obama per salvare la Chrysler hanno portato a una serie di accordi sul nuovo assetto societario. Se gli accordi andranno a buon fine, i lavoratori potranno detenere una quota del 55 per cento della società, la Fiat il 35 per cento, il governo e i creditori di Chrysler il restante 10 per cento. Ieri il governo ha annunciato che è stato raggiunto anche un accordo preliminare con le quattro banche che hanno finanziato più del 70 per cento del debito di Chrysler, un patto che potrebbe salvare la casa automobilistica dalla bancarotta.

The Washington Post, Stati Uniti
http://www.washingtonpost.com:80/wp-dyn/content/article/2009/04/28/AR2009042801241_pf.html



L’Africa in ginocchio

Emergenza commercio internazionale

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Costretto ad una terminologia negativa anche quando vorrebbe prospettare un po’ di ottimismo, come "la velocità di declino dell’economia si è rallentata", il summit dei ministri delle Finanze e dei governatori delle Banche Centrali del G7 del 25-26 aprile a Washington rivela di essere ossessionato dall’emergenza finanziaria e dalla necessità di dare risposte alle insolvenze dei banchieri.

    Liquidità a tutti i costi, sembra essere il programma che dalla Federal Reserve si propaga in tutti i centri decisionali dell’economia mondiale. Ma qual è l’effetto sull’economia reale?

    Il G20 di Londra e il G7 di Washington si sono anche impegnati a "realizzare l’iniziativa di immettere almeno 250 miliardi di dollari per finanziare il commercio". E’ una piccola percentuale a confronto con i trilioni di dollari di impegni finanziari per i salvataggi delle banche in crisi, ma può essere comunque un passo importante se viene realizzato subito, prima che prodotti, merci e tecnologie restino impantanate nelle sabbie mobili della recessione.

    Intanto alcuni settori chiave del commercio mondiale hanno già perso più del 20%, come i traffici commerciali aerei. Ci sono centinaia di navi porta container ferme in vari porti. Il commercio marittimo rischia il collasso totale, con crolli dei prezzi, fallimenti di armatori, paralisi dei trasporti per mancanza di merci da trasportare. Per il 2009 il WTO prevede una contrazione del 9% del commercio mondiale, mentre per l’OCSE la perdita di commercio sarà del 13,2%.

    Nei dieci mesi che vanno da aprile 2008 a febbraio 2009 il commercio internazionale – secondo il premio Nobel ed economista americano Paul Krugman - ha subito un crollo di gran lunga superiore a quello che si ebbe in un simile periodo durante la crisi del ’29.

    A rimetterci drammaticamente sono innanzitutto i paesi più poveri. I ministri dell’economia dei paesi africani riuniti lo scorso fine settimana nella sede del Fondo Monetario Internazionale a Washington hanno dato una quadro devastato e allarmante delle loro economie.

Dall’inizio della crisi l’Africa, e in particolare quella sub-sahariana, sta soffrendo per i cambiamenti nella domanda globale, per il tracollo dei prezzi delle materie prime e per l’ulteriore scarsità di investimenti e di fondi verso il continente.

    L’Africa ha perso importanti produzioni per l’export in quanto i mercati dei paesi cosiddetti avanzati si sono contratti. La Costa d’Avorio ha perso il 22,4 % del suo commercio, soprattutto del legno; la Tanzania ha 25% in meno di ordini per la sua produzione di cotone e in forte diminuzione è anche il caffè e altri prodotti agricoli; il Ghana chiude miniere di rame e di altre materie prime, mentre un terzo del suo budget annuale scompare nei pagamenti degli interessi sul debito estero.

    Di conseguenza sono crollati la produzione, l’occupazione e i già precari livelli di vita. La Banca Mondiale ha denunciato che nel mondo, dall’inizio della crisi, i poveri con meno di 1,5 dollari al giorno sono aumentati di 50 milioni che si aggiungono al miliardo di persone che vivono nell’indigenza estrema. "L’economia globale si è deteriorata drasticamente. I paesi in via di sviluppo sono di fronte a conseguenze serie, mentre la crisi finanziaria ed economica si sta trasformando in una calamità umana."

    Quando si parla di nuove regole non ci si può limitare alla finanza ma occorre ridefinire un nuovo modello di sviluppo economico e sociale che non lasci nessuno ai margini.

Negli Anni Quaranta l’incipiente guerra fredda aveva lasciato i paesi del blocco sovietico e i paesi in via di sviluppo fuori dagli accordi di Bretton Woods e dalla ricostruzione e cooperazione internazionale.

    Guai se la nuova Bretton Woods escludesse i paesi più deboli che sono poveri di potere ma ricchi di quelle risorse e materie prime tanto ambite dai grandi paesi. Se non si affronta contestualmente al problema finanziario anche la "questione Africa"si rischia un altro fallimento sistemico che perpetuerebbe squilibri e ingiustizie!