9.26.2013

LAVORO E DIRITTI

Finanziamento pubblico:

Siate seri, per favore!

 

di Giuseppe Tamburrano

 

La proposta di Letta di introdurre il finanziamento pubblico dei partiti sul 2 per mille nella dichiarazione dei redditi è caduta. Ora “studiano un altro sistema”. Se ci è permesso di aiutarli, ne proponiamo uno semplice ed efficace.

    Nel 1993 un referendum abrogò il finanziamento pubblico fondato sul contributo dello Stato. Bisogna tornare a quel sistema, modificandolo, perché non incorra nell’ira degli elettori. Il principio è lo stesso: il contributo dello Stato, ma un contributo congruo che non “obblighi” i partiti a chiedere soldi sporchi (Tangentopoli 2).

    La seconda modifica fondamentale riguarda i controlli che debbono essere severi, fermi. Si dia ai partiti, architrave della nostra repubblica, quanto è necessario per funzionare, si dia applicazione all’art. 49 della Costituzione che riconosce l’importanza fondamentale dei partiti ma ne chiede la regolamentazione e si introducano controlli all’entrata e soprattutto accuratissimi all’uscita delle spese dei partiti con un sistema di revisione esterna, capillare, per accertare se i partiti hanno speso di più di quanto hanno incassato, con accurate, oculate pezze d’appoggio.

    Diamo l’incarico all’orco della Agenzia delle Entrate? Per capirci: quando mia moglie mi manda a fare la spesa pretende gli scontrini: e le spese debbono corrispondere alle somme che mi ha dato (aiutando anche la lotta all’evasione!).

   

 

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

Crisi, Ue: «In Italia crolla

la produzione industriale»

 

Lo afferma il rapporto sulla competitività in via di approvazione a Bruxelles. Siamo ancora sopra rispetto alla media, ma nel nostro paese lo smantellamento corre più velocemente che altrove. Passi avanti solo in Germania. Produttività, ci supera anche la Spagna

 

Dal 2007 l'Italia vive una forte deindustrializzazione, uno smantellamento tra i più veloci dell'Eurozona. E se il nostro paese resta ancora sopra la media Ue, l'indice della produzione industriale ha perso 20 punti percentuali negli ultimi cinque anni. Lo afferma il rapporto sulla Competitività in via di approvazione da parte della Commissione europea, i cui contenuti sono stati anticipati dall'Adnkronos e dall'Ansa.

    Secondo il dossier anche nel resto d'Europa è in corso la deindustrializzazione. A perdere terreno, accanto all'Italia, c'è anche la Finlandia. Bruxelles segnala che in termini di competitività l'Europa ha fatto progressi, tuttavia restano ancora molte sfide da superare. La maggior parte dei paesi mostra infatti problemi, eccezion fatta per la Germania che registra buoni risultati.

    A pesare, per gli altri paesi, sono gli gli alti costi dell'energia, la burocrazia, la scarsa spesa in ricerca e innovazione e i problemi di accesso al credito. L'altro dato riguarda la produttività: l'Italia è l'unico paese dell'Eurozona che, insieme alla Finlandia, l'ha peggiorata, superata nelle ultime rilevazioni anche dalla Spagna.

       

 

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

Telecom-Telefónica,

una scalata «inquietante»

 

La scalata spagnola a Telecom Italia turba i sindacati e la politica. Per la Cgil si tratta di "un'operazione dai contorni inquietanti" che può aggravare i problemi di sottocapitalizzazione di Telecom. Zanonato e Bernabè: azienda non diventa spagnola

 

Telecom-Telefónica, operazione «inquietante» - La scalata spagnola a Telecom Italia inquieta i sindacati e turba il dibattito politico. Per la Cgil si tratta di “un'operazione dai contorni inquietanti” nei confronti della quale il governo deve intervenire convocando “immediatamente gli azionisti di riferimento di Telecom Italia e le Parti Sociali per verificare quale sia il progetto industriale su Telecom”. “Nel mentre il Presidente del Consiglio tenta di promuovere l’Italia all’estero e nel totale silenzio della politica - si legge in una nota congiunta delle segreterie nazionali Cgil e Slc -, è strato raggiunto l’accordo per l’acquisto della quota di controllo di Telecom Italia da parte di Telefónica. E’ la prima volta che un asset strategico per il futuro del Paese è acquisito da un’impresa straniera, senza che ci sia stata una preventiva discussione pubblica sulle ricadute e sugli interessi del Paese e, in assenza di un deciso cambio di passo, quanto avvenuto è destinato a ripetersi fin dalle prossime settimane”.

    Per il sindacato “siamo in presenza di un’operazione i cui contorni sono inquietanti perché i problemi di sottocapitalizzazione di Telecom e l’ingente debito che ne paralizza le capacità d’investimento sono tutt’altro che risolti, anzi potrebbero essere aggravati dalla situazione finanziaria di Telefónica a sua volta caratterizzata da un elevatissimo tasso di indebitamento. E’ evidente, che se i contorni di un possibile piano industriale fossero la vendita di Tim in Brasile e Argentina, riorganizzando l’azienda attraverso la cessione di assets strategici quali le attività di customer e quelle dell’informatica per poi procedere alla fusione per incorporazione di Telefónica e Telecom Italia saremmo in presenza di un’operazione che fa uscire l’Italia dal settore delle telecomunicazioni, togliendo al Paese la possibilità di indirizzare gli investimenti e potenziare la rete, condizioni imprescindibili per il rilancio dell’economia. In tal caso le ricadute occupazionali sull’attuale perimetro di Telecom Italia potrebbero essere incalcolabili”.

    La situazione determinatasi, continua la nota, “conseguenza diretta degli errori commessi durante la privatizzazione le cui conseguenze negative hanno portato Telecom Italia a passare da 5° operatore mondiale di telefonia con 120.000 dipendenti a un’azienda sottocapitalizzata e indebitata in misura spropositata, deve vedere una pronta reazione al fine di evitare i rischi per il Paese e ridare un quadro di certezze e di trasparenza nei confronti dei 46.000 dipendenti diretti e delle altre decine di migliaia di lavoratori indiretti che dipendono dall’azienda stessa”.

    Cgil e Slc chiedono così un intervento dell'esecutivo. “Il governo - affermano - deve convocare immediatamente gli azionisti di riferimento di Telecom Italia e le Parti Sociali per verificare quale sia il progetto industriale su Telecom, come si pensi di affrontare il tema della sottocapitalizzazione e degli investimenti necessari a rinnovare la rete, elemento strategico per l’ammodernamento dell’intero Paese. Nel caso non vi fossero gli elementi di chiarezza necessari, i ministeri competenti dovranno esercitare i poteri previsti dalla golden share per dettare tutte le condizioni necessarie a salvaguardare gli interessi generali e le tutele occupazionali di migliaia di lavoratori. La stabilità non può rappresentare un valore a prescindere da quel che accade all’economia reale del Paese, e l’Italia non può permettersi di perdere ulteriori opportunità per poter tornare a crescere. Il sindacato - conclude la nota - è determinato a mettere in campo tutte le iniziative necessarie per evitare che ulteriori errori facciano pagare ai dipendenti e al Paese un ulteriore prezzo che riteniamo insopportabile quanto ingiustificato”.

    Le rassicurazioni di Zanonato e Bernabè - Chiamato in causa, il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, spiega che è "difficile sostenere che, con la salita di Telefónica in Telco, Telecom Italia diventi spagnola". Parlando con i giornalisti, il ministro ha spiegato che "c'è molta confusione su queste cose".

    "La Telco, che possiede un 20% di Telecom Italia era già a maggioranza Telefónica, che passerà dal 46 al 61%. Mi pare che sia dura sostenere che Telecom diventa spagnola", ha dichiarato.

    Nella nota di Telefónica si legge però che la compagnia spagnola potrà acquistare il 100% di Telco a partire dal 1 gennaio 2014.

    "Telecom Italia non diventa spagnola" perché "l'operazione riguarda Telco". Cosi' il presidente esecutivo del gruppo telefonico italiano, Franco Bernabè, ha commentato l'intesa sulla holding che controlla la compagnia. L'accordo, ha osservato Bernabè, "cambia l'assetto azionario di Telco e non di Telecom. Telecom non diventa spagnola, e' solo Telco che ha avuto un riassetto azionario”.

    Pd: governo riferisca in Parlamento - Parole che non rassicurano la politica, dove con umore bipartisan sia Pd che Pdl bocciano l’operazione. Il Pd chiede in aula alla Camera che il governo riferisca sul caso Telecom. Andrea Martella, spiega che la situazione "e' densa di incognite e di conseguenze tutte da verificare perlomeno rischiose. Riteniamo opportuno che il governo intervenga in aula e riferisca al piu' presto". Martella chiede al presidente di turno Luigi Di Maio "di farsi promotore della richiesta al governo, nei tempi piu' rapidi possibili, perché nelle prossime ore possa tenersi l'informativa". "In attesa che siano formalizzati i dettagli dell'operazione, la cessione di Telecom Italia agli spagnoli è un segnale preoccupante per il capitalismo italiano e per il nostro Paese. La circolazione di capitali è in genere un fatto positivo, ma quello che allarma sono i passaggi di proprietà, specie di asset strategici, sempre dall'Italia verso l'estero e mai viceversa. Ci auguriamo che quanto meno questa vendita non intacchi gli attuali e i futuri livelli occupazionali ". Lo ha dichiarato, infine, il presidente dei senatori del Pdl, Renato Schifani.

    Il controllo Antitrust - L’operazione è di quelle che meritano “attenzione” da parte dell’Autorità garante della concorrenza. Il regolamento sembra prevedere una competenza dell’Antitrust europea, ha detto il portavoce Ue alla concorrenza, Antoine Colombani, ma la Commissione lascerà valutare alle aziende. "E' compito delle imprese coinvolte di adeguarsi ai loro obblighi e stabilire a quale autorità della concorrenza debbano notificare un'operazione," ha detto Colombani.

       

 

Economia

 

La Fed stampa dollari

I Brics comprano oro

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Se bastasse creare dal nulla liquidità per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, saremmo da tempo nel Paese di Bengodi, soprattutto negli Usa. Ma così non è.

    Pertanto la recente decisione assunta della Federal Reserve di continuare a immettere nel sistema nuova liquidità rivela semplicemente che essa non è più in grado di staccare la spina dell’alimentatore di risorse ad un sistema sempre più “drogato”. Certo le borse hanno risposto in modo vivace con l’aumento dei listini, ma non è detto che ciò sia un reale segnale positivo.

    Infatti, la stessa Fed, dopo il meeting del suo Open  Market Committee, ha dovuto ammettere che “se dovesse continuare l’irrigidimento delle condizioni finanziarie (con l’aumento dei tassi di interesse), osservato nei mesi recenti, il processo di miglioramento dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rallentare.”

    L’inevitabile conseguenza di tale “filosofia”è che negli Usa si proseguirà con la “politica monetaria accomodante”, immettendo 85 miliardi di dollari al mese per comprare nuovi titoli del Tesoro e derivati asset-backed-security.

    Anche il governatore Bernanke, il cui mandato sta per scadere, ha ribadito che i quantitative easing continueranno fino a che negli Usa il tasso di disoccupazione non scenderà sotto il 6,5%. E questo si spera avvenga entro la fine del 2014, nel frattempo avremmo però circa 1.500 miliardi di nuovi dollari sui mercati internazionali.

    Anche il bollettino trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali di settembre solleva forti dubbi sugli “effetti benefici” dei quantitative easing e dettaglia invece le sue riverberazioni nefaste in particolare nelle economie emergenti.

    La BRI ricorda che quando lo scorso maggio la Fed ventilò appena l’ipotesi di un cambiamento di politica monetaria, gli interessi obbligazionari ebbero un’impennata con effetti negativi in molti settori finanziari e in varie parti del mondo. Vi fu una “corsa alla svendita” di titoli con una conseguente caduta dei prezzi. Il ritiro di capitali dai mercati emergenti provocò, come noto, una forte svalutazione di alcune loro monete.

    L’analisi della Bri sottolinea che, anche dopo le assicurazioni date dalla Fed, dalla Bce e dalla Bank of England lo scorso luglio, l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo è continuato in quanto i mercati si attendevano una stretta nelle condizioni finanziarie a livello mondiale.

    La situazione è estremamente volatile. Nonostante questo aumento già di per sé destabilizzante, gli interessi a lungo termine restano comunque bassi e spingono la finanza a cercare prodotti e operazioni ad alto rischio. Di conseguenza è cresciuta l’immissione di bond e di prestiti nei settori finanziari più esposti e rischiosi. Proprio come accadde subito prima dell’esplosione della crisi finanziaria globale. Ad esempio, la percentuale dei leveraged loans, molto simili ai subprime, e cioè qui crediti concessi a soggetti già altamente indebitati e di dubbia affidabilità, ha già raggiunto il 45% del mercato dei “finanziamenti in pool” (quelli elargiti da un gruppo di banche). Si noti che tale percentuale è superiore del 10% rispetto ai precedenti massimi registrati prima del crac della Lehman.

    In controtendenza, bisogna osservare che le politiche monetarie dei Paesi del Brics e di altri importanti Paesi emergenti mirano ad aumentare le proprie riserve auree.

    Si stima che nel 2013 la sola Cina dovrebbe comprare almeno 1.000 tonnellate di oro. Cina, Russia e India assieme potrebbero quindi acquistare circa il 70% di tutto l’oro prodotto nel 2013. Si rammenti che già nel 2012 la Russia ha aumentato le sue riserve aure dell’8,5% portandole a un totale di circa 1.000 tonnellate.

    Non si tratta di una strana infatuazione per il metallo prezioso, ma di una coerente strategia monetaria e geo-economica. La maggioranza dei Paesi del mondo sa che il dollaro diventa ogni giorno più debole e instabile proprio per la continua creazione di nuovi biglietti verdi.

    Siamo alla resa dei conti? Si arriverà in tempi brevi al famoso paniere di monete e di oro proposto dai Brics in sostituzione del dollaro? E l’Europa cos’ha da dire?

 

9.25.2013

Ma Berlino non ci ha rimesso

La crisi euro ha fatto risparmiare 40 miliardi alla Germania

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

In questi anni di profonda crisi dell'euro, la Germania complessivamente non ci ha rimesso. Anzi ci ha guadagnato e non poco. Non c'è lo dice uno dei tanti analisti europei con il dente avvelenato per le troppe polemiche tedesche sull'utilizzo delle loro finanze per salvare altri Paesi europei in deficit e con elevato debito pubblico.
E' direttamente il ministero delle Finanze di Berlino a fornire dati precisi e incontrovertibili.
Secondo il settimanale Der Spiegel, il governo tedesco, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, ha dichiarato che, calcolando costi e benefici, al netto avrebbe speso la modica cifra di 599 milioni per sostenere il sistema dell'euro!
Secondo il ministero delle Finanze però, dal 2010 al 2014 la Germania risparmierà ben 40,9 miliardi di euro, solo per minori pagamenti di interesse sui suoi titoli di Stato.
Questo è il risultato di una forte domanda di obbligazioni tedesche, dagli investitori ritenute titoli sicuri e rifugio nella crisi generalizzata dei debiti pubblici europei. Di conseguenza il tasso di interesse di tutte le nuove obbligazioni emesse in Germania è sceso di circa un punto percentuale.
La combinazione del risparmio sui tassi di interesse e dell'aumento degli introiti fiscali nazionali generati da una economia in crescita ha fatto anche scendere il livello del nuovo debito pubblico tanto che per il periodo 2010-12 la riduzione è stata di 73 miliardi di euro.
Un altro importante effetto favorevole per la Germania è stata la progressiva trasformazione del proprio debito pubblico da breve a più lunga scadenza. Nel 2009 le obbligazioni con scadenza inferiore ai tre anni erano il 71% del totale. Nel 2012 sono scese al 51%. Ciò ha un naturale ed enorme effetto stabilizzante sulle finanze di un qualsiasi Paese.
Questi risultati certamente non sono una "colpa" ma un merito e un vanto per l'economia tedesca.
La Germania ha un'economia all'avanguardia nelle nuove tecnologie. E' presente come "sistema-Paese" sui mercati internazionali e nei grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo in tutti i continenti. E' da tempo seriamente impegnata nella promozione dell'apprendistato e dell'occupazione giovanile ma anche nella tutela dei lavoratori che perdono il posto o che necessitano di una riqualificazione professionale.
Detto ciò però non è accettabile la retorica di chi continua a sentirsi defraudato da Paesi che vivrebbero al di sopra delle loro possibilità. Non si può pretendere di portare Stati e popolazioni in crisi fino alla disperazione con l'imposizione di politiche di solo rigore.
Si ricordi che, del resto, molti miliardi stanziati per aiutare l'Irlanda, la Grecia o la Spagna sono serviti a coprire i buchi di banche europee, anche di quelle tedesche, detentrici di titoli di debito dei Paesi "aiutati".
La persistente depressione economica in molti Paesi dell'Europa e la crescente instabilità politica e sociale metterebbero in discussione l'intero processo di unità europea con inevitabili ripercussioni negative anche per i Paesi con economie più solide, come la Germania. Perciò servirebbe invece promuovere una grande visione europea e una serie di azioni comuni per superare le attuali difficoltà.
Le sfide certamente non sono poche ne vanno ignorati i rischi ancora persistenti di altre crisi finanziarie globali.
La Bundesbank di recente ha affermato che potrebbe rivedere la politica di tassi di interesse vicino allo zero. Certo ciò ha una ragione anche interna in quanto, se lo Stato ha risparmiato sugli interessi, i risparmiatori tedeschi ricevono tassi negativi, al netto dell'inflazione. Ciò potrebbe determinare destabilizzanti cambiamenti nelle loro decisioni finanziarie.
La Banca centrale tedesca si sta inoltre opponendo alla politica delquantitative easing della Federal Reserve di immettere sempre più liquidità e a tassi bassissimi nel sistema. E' da tempo che la Fed cerca di spingere anche la Bce sulla stessa strada.
Noi riteniamo che si tratti di una politica monetaria pericolosa in quanto fomenta vecchi comportamenti, rischiosi e speculativi, e si creano le condizioni per fiammate inflazionistiche.
In conclusione, il nodo, ancora una volta, è squisitamente politico: l'Europa deve operare con un'unica voce per una vera riforma del sistema finanziario ed economico internazionale e per le politiche economiche interne.

9.24.2013

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

Def, bozza governo: nel 2014 rapporto debito/Pil al 132,2%

 

Anticipazioni dell'Ansa sul Def: nel 2014 il debito

arriverà "secondo le previsioni al 132,2% del Pil"

 E' quanto si legge nella bozza del Programma nazionale di riforma in arrivo con l'aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza), anticipato dall'Ansa. Qui si individua la riduzione "dell'elevatissimo rapporto debito/Pil" come uno degli obiettivi da perseguire “in via prioritaria".

    “Proseguire gli sforzi” per “porre le basi per una crescita solida e sostenibile”. Questo un altro passaggio del governo, che presenterà Un'agenda per la crescita. La bozza del Def, sempre secondo l'Ansa, sottolinea che la strategia di crescita dovrà puntare su imprese e lavoro. 

    Spostare il carico fiscale da “lavoro e capitale a consumi, beni immobili e ambiente”, ridurre “il cuneo fiscale, rivedere l'ambito di applicazione delle esenzioni e aliquote ridotte dell'Iva e delle agevolazioni fiscali dirette”, adeguare catasto ai valori di mercato. Sono alcune priorità delle riforme contenute nella bozza del Def, anticipata ieri (16 settembre) dall'Ansa

 

Grecia: scuole e ospedali, scioperi a raffica

 

(Adnkronos/Dpa) - Dipendenti pubblici ancora in sciopero in Grecia contro i tagli dei posti di lavoro richiesti dalla troika Ue-Fmi-Bce per ottenere la nuova tranche del piano di salvataggio. Agli insegnati delle scuole superiori, che hanno iniziato a manifestare lunedi', si sono uniti quelli delle elementari e i docenti universitari. In piazza anche i medici e il personale degli ospedali pubblici, che eseguiranno solo operazioni d'emergenza, netturbini e gli addetti ai servizi di sicurezza sociale.

Sospeso inoltre per diverse ore il servizio della metropolitana, tra cui la tratta per l'aeroporto di Atene, mentre i voli non dovrebbero subire variazioni. Il governo dovrebbe tagliare 25mila posti di lavoro quest'anno e 15mila entro la fine del 2014.

   

9.16.2013

G20 di San Pietroburgo e investimenti di lungo termine nelle infrastrutture

Nonostante i venti di guerra sulla Siria e le pericolose conseguenze militari e geopolitiche, sono state assunte alcune rilevanti e innovative decisioni assunte dal recente Summit del G20 di San.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista


Nel documento finale del G20 di Pietroburgo è stata posta, per la prima volta, la questione del finanziamento degli investimenti di lungo termine nelle infrastrutture e nei progetti industriali e di ricerca delle Pmi. Nel documento finale si sottolinea inoltre la necessità di creare un clima favorevole agli investimenti di lungo termine per mobilitare anche i capitali privati.
Un lavoro particolare di preparazione al rilancio delle strategie industriali e di sviluppo nel lungo termine è stato svolto dall'Ocse e dalle varie banche di sviluppo internazionali, tra cui la nostra Cassa Deposti e Prestiti, organizzate nel Long Term Investors Club.
Il G20 sollecita, perciò, i vari governi a facilitare gli investitori istituzionali e a promuovere politiche e progetti di investimento e di infrastrutture adeguati, organici e coerenti.
Nuovi strumenti finanziari non speculativi dovrebbero essere individuati anche per convogliare il risparmio privato verso gli investimenti produttivi e le infrastrutture. A tal proposito si indicano percorsi anche per creare partenariati pubblico-privati (PPP) e per la costruzione di fondi di sviluppo e di investimento.
Sembra che si vada oltre le solite buone intenzioni. Infatti, il rilancio degli investimenti di lungo periodo di fatto prende le distanze dalle scellerate politiche finanziarie speculative di breve periodo che, come noto, hanno "pervertito" il processo economico privilegiando la finanza fine a se stessa e altamente rischiosa elevandola fino agli altari del dio denaro.
Novità significativa è il riferimento alla necessità di ricondurre il risparmio ed il sistema bancario al loro ruolo indispensabile di ancelle del credito per le imprese e gli investimenti. In merito notevole è stata la spinta impressa dai Paesi del Brics che hanno posto il problema dell'occupazione, della disoccupazione e dei giovani al centro della Dichiarazione finale.
Rispetto al passato anche più recente quando si privilegiavano i parametri numerici del Pil a discapito di quello dell'occupazione, si registra una inversione di tendenza. Del resto sarebbe illusorio pensare ad una ripresa economica mentre continua la disoccupazione. Questa è una visione economica settecentesca dove produzione e profitto erano organizzati contro il lavoro; era però un mondo dove vigeva la legge del più forte senza alcuna responsabilità sociale.
Dopo 5 anni dalla costituzione del G20, i vecchi centri di potere economico e finanziario occidentale devono prendere atto del ruolo sempre più incisivo esercitato dai Paesi del Bric. Se il mondo intero non è del tutto sprofondato in una grande depressione economica, molto lo si deve alla dinamicità e alle politiche economiche dei Paesi emergenti.
Il Summit ha dovuto anche riconoscere che le politiche monetarie non convenzionali (la liquidità facile della Fed e di altre banche centrali) protratte nel tempo rappresentano gravi rischi per la tenuta del sistema finanziario a causa degli effetti negativi, come la volatilità nei flussi finanziari e disordini nei movimenti dei tassi di cambio in particolare nelle economie emergenti, da essi generati.
Per fronteggiare tali rischi, a latere del summit i Paesi del Brics hanno stanziato ben 100 miliardi di dollari in un fondo specifico per la sicurezza e la protezione delle loro monete e dei loro mercati.
Rispetto al passato si ha la sensazione che vi sia una maggiore consapevolezza dei problemi globali, non solo quelli della finanza, ma anche quelli del commercio e della governance degli organismi internazionali, a partire dalla distribuzione delle quote di controllo del Fmi che dovrebbe essere rivista all'inizio del 2014
Il riordino del sistema monetario diventa urgente anche in relazione al fatto che sempre più spesso gli accordi commerciali tra i Paesi emergenti vengono stipulati non in dollari ma nelle monete nazionali.

9.12.2013

Centenario di Ettore Cella-Dezza

 di Andrea Ermano

 La Federazione Socialista Italiana in Svizzera – proprietaria di questa testata dalla sua fondazione – ha dedicato la Tessera 2013 al centenario di Ettore Cella-Dezza, già presidente dell'organizzazione, nato a Zurigo il 12 settembre 1913 e morto presso Winterthur il 1° luglio del 2004.

    Ettore è stato un grande regista e attore, teatrale e cinematografico, nonché un personaggio radio-televisivo assai celebre nel mondo di lingua tedesca per le sue indimenticabili fatiche e anche per i suoi meriti culturali, tra cui ricordiamo qui "solo" l'introduzione di Pirandello in Germania e di Brecht in Italia. Fu Ettore, tanto per dire, a promuovere l'alleanza artistica tra Bertolt Brecht e Giorgio Strehler.

    Ettore è stato anche un importante esponente dell'emigrazione socialista, fino all'ultimo, fino alle lunghe e travagliate operazioni di salvataggio del Centro estero di Zurigo, dopo il crollo del Psi craxiano in Italia.

    Sempre incredibilmente attivo, anche da novantenne, aveva però dovuto farsi operare al femore in seguito a una brutta caduta; e gli strascichi dell'intervento lo costrinsero a una degenza abbastanza lunga, che lo andava rapidamente consumando.

    Negli ultimi mesi era ricoverato in un'ampia e linda camera dell'ospedale di Winthertur. Mi chiamava spesso al telefono. Voleva che andassi a trovarlo, cosa che facevo volentieri, compatibilmente con i vari impegni. Era sempre in uno stato di straordinaria lucidità, ma anche biblicamente "stanco di giorni" e non lo nascondeva: "La forza fisica è finita", ripeteva con sorriso velato. "Io posso pensare quel che mi pare, ma è come se il corpo non rispondesse più ai comandi".

    Allora io gli manifestavo la mia ammirazione per una vita così stracolma di soddisfazioni.

    Ci accomunava la ferma volontà a impedire che la nostra vecchia e gloriosa istituzione socialista democratica venisse messa a ferro e a fuoco dal nemico, nuovamente scatenato. Il "Centro estero" doveva continuare a stare lì, sfidando il tempo e l'arroganza del potere, per altri cent'anni. Nella musicalità della nostra bella lingua italiana, parole come "socialista" o "socialdemocratico" erano tornate a fungere da insulto. E noi buttavamo dunque il sangue in una battaglia del tutto inutile, ai fini convenzionali del tornaconto e del prestigio.

    Perché?! "Pe' tigna", riassunse una volta, con formula magnificamente antieroica, Giuseppe Tamburrano.

    Dal 1997 era toccato a chi scrive di assumere la guida dell'organizzazione socialista d'emigrazione, in uno dei momenti neri, come tanti altri ne erano capitati prima. Tra i miei predecessori il padre di Ettore, Enrico Dezza, l'aveva avuta ben più difficile, trovandosi per esempio a traghettare l'organizzazione attraverso due guerre mondiali, e ciò mentre un decreto di espulsione gli stava sospeso sopra la testa, come una spada di Damocle. Rischiava ogni momento di venire estradato in una galera fascista.

    Forse Ettore mi voleva al suo capezzale perché gli rappresentavo il padre approdato a Zurigo quand'era giovane, in fuga dall'asfissia dell'Italietta feroce e militar-clericale di Bava Beccaris. Io ero scappato, più modestamente, dallo smog metropolitano e dai furori degli ultimi anni Settanta. Ma, nonostante che un secolo o quasi separasse la mia generazione da quella di suo padre, c'era aria di famiglia.

    Ettore mi parlava di tutto: del suo apprendistato politico e intellettuale presso Silone prima della guerra; delle missioni speciali di guerra partigiana, travestito da novizio, nell'Emilia o nella Val d'Ossola. Poi il dopoguerra, la fondazione della tv, la vibrante personalità di Maria Callas che lui aveva diretto a Monaco in un memorabile allestimento dell'Aida, e i compagni: Brecht e Ragaz, Modigliani e la Balabanoff, Gorni e Canevascini. Ma anche le infinite diatribe interne, iniziate a Parigi, tra nenniani e saragattiani.

    Una volta mi raccontò di quando, negli anni Trenta, aveva introdotto il dialetto alla radio svizzera, per rompere con il purismo nazista. Fu un successo straordinario.

    Un altro giorno risalì con il ricordo fin sulla cima dell'epoca in cui era quasi ancora un ragazzino. Accennò ai suoi tentativi di intercettare una carriera piccolo-borghese, "normale".

    Dopo il noviziato domenicano, era rientrato a casa intraprendendo diversi lavori tra cui il soffiatore di cristalli. Gli piaceva, ma dovette abbandonare per un rischio di silicosi.

    A un certo punto confessò a suo padre la propria omosessualità, nonché la decisione di diventare attore drammatico.

    L'omosessualità – mi spiegava guardingo – era in quell'epoca lontana un partito diviso in due fazioni contrapposte: la fazione del "piacer mio" e quella della "amicizia". Disse "piacer mio" con rabbia e "amicizia" con un tono di voce che si appellava all'intellezione di un ideale. Ideale che si manifestava anzitutto e soprattutto nell'impegnarsi seriamente per offrire al proprio compagno occasioni di crescita culturale e umana.

    Quel vegliardo, che aveva convissuto cinquantatré anni con il suo partner, Richard Lenggenhager, mi disse cose riecheggianti passi di dialoghi platonici, filosofemi che fino ad allora si rubricavano per me sotto la voce dotta di "amor greco" con annessa nozione che di esso coltivava l'alta aristocrazia ateniese del quarto secolo avanti Cristo.

    Ma nella bruciante esperienza novecentesca quell'etica platonica riemergeva con ben altre valenze di significato esistenziale.

    Ettore Cella-Dezza aveva rischiato di finire ad Auschwitz per via di un'inclinazione sessuale diversa da quella di noi cosiddetti normali. Me ne rendevo conto?

    Una volta, mentre enumeravo a scopo terapeutico le ragioni di bellezza e di ricchezza della sua vita straripante soddisfazioni, lui m'interruppe per dirmi che però aveva due grandi rimpianti.

    "Il primo rimpianto" – disse – "è che non abbiamo potuto aiutare di più quegli Ebrei che erano arrivati nel nostro quartiere con quei loro grandi colbacchi".

    Perché aveva posto l'accento sui vistosi copricapi degli israeliti ortodossi? Considerai inopportuno domandargliene senza aver prima riflettuto sul punto. Gli chiesi qual era il secondo rimpianto.

    E lui: "Non aver mollato due cazzotti in più a qualche fascista che so io".

    Alcuni mesi dopo si spense. Da allora sono trascorsi quasi dieci anni, ma la memoria di quei colloqui è costantemente rimasta ben viva nella mia mente e mi ha aiutato non poco nei miei tentativi di comprensione delle umane vicende.

    Ed eccoci dunque al centenario dalla nascita di Ettore Cella-Dezza. Mi sono chiesto quale testo pubblicare sull'ADL per l'occasione. Da mesi stiamo lavorando alla riedizione bilingue di Nonna Adele, ma su ciò torneremo a lavoro concluso, quando pubblicheremo.

    Oggi mi torna alla mente l'ultimo suo discorso pubblico, che tenne nella città di Frauenfeld, nel Canton Turgovia, sede dell'ormai tradizionale Pink Apple Film Festival, un'importante rassegna internazionale del cinema gay. Per l'edizione del 2002 l'indirizzo di saluto inaugurale venne affidato a Ettore Cella-Dezza. Qui sotto ne riportiamo il testo integrale in versione italiana.

 

 

CON LA FORZA DELLA RAGIONE CON LE ARMI DELL’ONESTÀ

 

Ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve. Lottare per la libertà e l’emancipazione con i mezzi pacifici della ragione e dell’onestà non è inutile.

 di Ettore Cella-Dezza (1913-2004)

 (Frauenfeld 25.4.2002) - Se oggi prendo la parola, qui a Frauenfeld, di fronte a voi, inaugurando il Pink Apple Film Festival 2002, penso che l’indubbio onore riservatomi consegua da quattro ragioni che proverò a enumerare. La prima deriva, credo, dal prestigioso Premio cinematografico assegnatomi dalla Città di Zurigo pochi mesi fa. Zurigo è vicina e nelle sue sale verrà replicato il nostro programma odierno. La seconda ragione sta, forse, nell’esperienza e nel vissuto di un’ottantottenne al quale l’età tuttavia non ha ancora tolto per nulla la passione del proprio lavoro. E qui permettetemi senz’altro di aggiungere, in terzo luogo, che non si finisce mai d’imparare. In quarto e ultimo luogo vi sono, direi, le mie opinioni sulla sessualità e sull’amore: binomio tutt’oggi controverso, spesso avvolto da dubbie forme d’interesse morboso, e quasi universalmente considerato un tabù.

    Diciamo subito che a causa di questo tabù l’umanità, o almeno una “minoranza” in essa, vuoi di sesso femminile che di sesso maschile, soffre dai tempi mosaici. Nell’Antico Testamento, e segnatamente nel Levitico, si legge il seguente precetto:

 

Non giacerai con un ragazzo come con una donna,

ché è cosa abominevole. (Lev. 18:22)

 

E certamente un siffatto giacere è abominevole: circonvenzione e violenza, comportamenti entrambi che, e a buon diritto, vengono tutt’oggi sanzionati dalla legge. Ma amare esclude ogni circonvenzione e ogni violenza. L’amore è tutt’altra cosa. Sì, io credo che amare sia tutt’altra cosa e credo che nessuno, amando senza circonvenzioni e violenze, possa compiere – o anche solo percepirsi nell’atto di compiere – qualcosa di abominevole. No, davvero, non penso che si possa parlare di abominio quando due persone adulte si amano. E, anzi, se mai qualcuno di voi, care amiche e cari amici, percepisse come abominio l’espressione del proprio amore, sarebbe bene per lei o per lui cercare qualche ausilio terapeutico.

    Nondimeno, fin dai tempi arcaici la storia ci racconta di leggi che vietano e di sanzioni che puniscono l’amore, soprattutto il nostro amore, fino all’estremo supplizio. Occorre attendere la venuta di un popolo intelligente e straordinario come fu quello greco affinché uno spirito di maggiore libertà incominci a soffiare tra gli esseri umani.

    Di questa libertà i grandi padri e le grandi madri della cultura greca, nonché del pensiero e della letteratura universali – da Saffo a Socrate, da Platone ad Aristofane a tanti altri – ci hanno lasciato per altro  testimonianze perenni. Parlo di capolavori eterni, che però vennero originariamente concepiti e recepiti nella cornice quotidiana di splendide città e anfiteatri. E permettetemi di sottolineare, con tutto l’orgoglio di un vecchio uomo di spettacolo, che un tratto caratteristico della cultura greca fu proprio la sua dimensione pubblica, simboleggiata dal teatro.

    Non a caso fu per effetto dell’onda culturale ellenistica che – dalla Persia alla Tunisia da Epidauro ad Atene a Siracusa – nacquero teatri grandiosi, che potevano ospitare fino a sedicimila spettatori. Nasce di qui la robusta civiltà teatrale dell’Occidente, nasce di qui la capacità del teatro di motivare anche dopo il tramonto delle poleis greche ulteriori generazioni di artisti, e non tra i peggiori, che seppero proseguire su questa via. Di qui nacquero l’entusiasmo e la passione che condussero a edificare altri grandi anfiteatri – a Taormina e a Verona, a Pompei e ad Avenches – dove venivano rappresentate le commedie di un Plauto e di un Terenzio, e dove avevano luogo anche dispute su argomenti di pubblico interesse, agoni di poesia, vere e proprie olimpiadi dello spirito e dell’intelletto.

    Nelle egloghe di Virgilio, nelle liriche di Saffo, nei metri e nelle rime di non pochi letterati antichi ci restano testimonianze altissime tanto del sentimento amoroso quanto di invidiabile autonomia intellettuale.

    E poi? Cos’è successo, poi? Poi, fino a ieri o all’altro ieri, è successo che tanto l’uno quanto l’altra, tanto il sentimento quanto l’intelletto, ci sono stati interdetti per lunghi secoli: sia nell’ambito della vita quotidiana, sia in quello della letteratura e del teatro. Lo stesso si potrebbe affermare, in tempi più recenti, della radio, della televisione e del cinema, giacché – lasciatemelo dire a chiare lettere – è soprattutto di silenzio censorio, non d’altro, che sono fatti a tutt’oggi i nostri media.

    Parlo di un silenzio censorio che viene da lontano; che inizia con la traduzione biblica, la cosiddetta “Itala”, del 195 d.C. e poi, ancor di più, con la versione approntata da Girolamo nel 392; parlo di una attitudine censoria e repressiva che inizia insomma con la “cristianizzazione” dell’Occidente; parlo di un processo storico che sicuramente non ebbe luogo all’insegna del comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”, ma che tutt’altrimenti recò in sé il segno curiale e romano di una chiesa ormai totalmente dominata dalla propria sete di potere.

    Durante tutta l’epoca tardo-antica e durante tutto il medioevo la chiesa ha letteralmente messo a ferro e a fuoco ogni libertà sessuale. Né, va detto, la pratica della tortura e del rogo cessarono con l’avvento della cosiddetta età umanistica o della cosiddetta età dei lumi. No, care amiche e cari amici, interdizione e persecuzione sempre: dal passato remoto fino al tempo presente.

    La chiesa oggi moltiplica ovunque i suoi appelli affinché tutte le persone di buona volontà servano la pace tramite lo strumento del perdono: “perdona il tuo nemico!” Il che mi pare un’istanza in sé condivisibile. Ma alla chiesa stessa in duemila anni non sembra esser mai riuscito di dare seguito a questa sua istanza. Sicché si grida “pace pace”, ma la guerra continua. Perché? Forse perché la chiesa non osa mettere in questione alcuni pseudo-fondamenti sociali della propria dottrina. Ma anche per una certa incoerenza tra il piano delle parole e quello dei fatti.

     “Ama il prossimo tuo come te stesso” – il comandamento evangelico vale sì per tutti, ma, care amiche e cari amici, la chiesa sembra dimenticarsene quando si tratta di certe “minoranze” rispetto alle quali si rimane fermi alle giaculatorie di condanna: “Orsù, figliolo, tu devi... è proibito... è peccato grave!”

    Insieme al dito alzato, vagamente minaccioso, della morale tradizionale, resta in vigore il monito a non mai turbare il comune senso del pudore. Tanto più che ciò diffonderebbe solo insicurezza... Meglio, dunque, non parlarne, meglio imbavagliare, stroncare e sopire... Insomma, ecco a voi il tabù.

    Fortunatamente, anche all’interno della chiesa, aumenta il novero di religiose e religiosi – non necessariamente coinvolti nel nostro tema per vicende o travagli personali – cha hanno il coraggio e l’onestà di sostenere in santa coscienza una posizione diversa da quella ufficiale, anche al prezzo di venire a loro volta “silenziati”.

    La ragione di questo breve excursus storico è presto detta: ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve, che lottare non è affatto una cosa inutile. Se così non fosse, pensiamo a noi per un istante, che ce ne siamo oggi qui riuniti in questa bella sala della città di Frauenfeld per celebrare un festival del cinema gay. Lo possiamo fare in quanto oggi noi rappresentiamo una minoranza combattiva e aggregante, capace di evolversi e di indurre all’evoluzione anche i nostri media. Noi oggi rappresentiamo una minoranza che non intende, né deve più, accettare qualunque prepotenza.

    Tutto questo è oggi possibile qui, nel Paese che ospita questo festival, la Svizzera – e ciò sia detto senz’ombra di vanità o boria nazionale – perché in questo Paese  durante lo scorso secolo e anche in quello precedente hanno vissuto persone – cito tra tutti Hösli, Meyer e von Knonau –  che seppero spendere la loro intelligenza nella lotta. E che, così facendo, seppero imprimere un impulso all’intera società, pur tra mille sofferenze e al prezzo di sacrifici pagati in prima persona: sofferenze e sacrifici di cui noi, care amiche e cari amici, oggi profittiamo.

    Da tutto ciò dobbiamo trarre motivo per proseguire – con mezzi pacifici – la nostra lotta. Con mezzi pacifici: perché non è con le battaglie campali o con le operazioni di guerra che si risolvono i problemi dell’umanità. Ogni giorno sperimentiamo questa semplice verità, sebbene l’orda militarista non intenda prenderne nota. Eppure, le conseguenze della guerra sono – oltre agli immani cumuli di macerie sotto gli occhi di tutti – immani cumuli di menzogne e paure, di squallori e miserie, immani cumuli di tormenti per la morte di persone care. E furiosi desideri di vendetta. Come non vedere che tutto ciò rischia di alimentare nuove spirali di odio, innescando, prima o poi, il tragico circolo vizioso di nuove guerre?

    A chi vorrebbe tacitarci dicendo che, però, le guerre ci sono sempre state, io rispondo: non lasciatevi incantare da queste parole, non lasciatevi chiudere la bocca, fate che la pace non sia un tabù!

    Ecco, bisogna lottare con la forza della ragione, impiegando le armi dell’onestà, della rettitudine e dell’intelligenza. E in tal senso le possibilità offerteci dai mezzi di comunicazione sembrano oggi varie e numerose quanto basta. Ricordiamoci che nella storia non sono mai mancati donne e uomini capaci di raccogliere la sfida della lotta per la libertà e l’emancipazione, anche quando ciò comportava il prezzo di incomparabili sacrifici.

    Quanti di loro sono andati incontro alla discriminazione sul lavoro? o alla disoccupazione? o al licenziamento? Quanti sono finiti in carcere? Quanti i morti in campo di concentramento? O i costretti alla fuga onde evitare la morte? Quanti vennero indotti alla disperazione e al suicidio? E quanti ancor oggi cercano riparo nella folla anonima delle grandi metropoli, abbandonando il paese in cui sono nati, essendo loro impossibile condurvi liberamente una esistenza minimamente serena?

    Vorrei ricordare Magnus Hischfeld, che fu autore di uno studio scientifico su questo speciale aspetto dell’urbanesimo e che fondò a Berlino un centro di accoglienza. Dovette riparare in Svizzera per evitare la camera a gas.

    Vorrei ricordare, in quegli stessi anni, l’attore e scrittore turgoviese Karl Meier, noto anche come “Rolf”, che portava avanti assieme al lavoro una coerente militanza antifascista nel cabaret Cornichon, e che fondò la rivista Kreis come pure l’omonimo centro di cultura, con vasta risonanza presso l’opinione pubblica di tutto il mondo libero.

    Rivoluzionarie e paradigmatiche furono, nel secondo dopoguerra, Rosa von Praunheim, regista di pellicole sfrontate e sconcertanti, il sempre malfamatissimo Rainer Fassbinder e un Pier Paolo Pasolini continuamente bersagliato da querele a causa dei suoi film sessuo-politici che avevano conquistato un vastissimo pubblico, seppure a mio avviso su un piano talvolta meramente voyeuristico.

    Per ciò che concerne la letteratura non tento nemmeno di fare un elenco di tutti quelli che, dopo Whitman e Wilde – da Gide a Cocteau, da Genet a Sartre a White e Baldini e Vidal e Monicelli e cento altri –, hanno contribuito a combattere il pregiudizio.

    Ma giunti sin qui, quel che mi preme è sottolineare un punto a mio avviso essenziale: care amiche e cari amici, nella vita non si hanno soltanto dei diritti. Ci sono anche i doveri. Sì, doveri, che chiedono di essere osservati con coscienziosità, verità e amore.

    In molti paesi del mondo il nostro festival non potrebbe avere luogo. In 35 nazioni vige la pena di morte. E durante l’anno 2001 le agenzie di stampa hanno dato notizia di ottantuno tra decapitazioni e lapidazioni di persone accusate di: “omosessualità”.

   Il cammino da compiere, come si vede, è ancor lungo. Perciò, se un festival cinematografico ci può ben apparire una goccia su una pietra rovente, non di meno lasciateci sperare che prima o poi, perseverando, anche questa goccia peserà, conterà, contribuirà ad alimentare una pianta fertile che porterà i suoi frutti.

    Per noi qui i frutti iniziano anzitutto dalla ricchezza emozionale che il cinema sa regalarci: nel pianto, nel riso e nella riflessione.

    Perciò, un grazie a tutti coloro che hanno dedicato le loro energie  all’organizzazione di questo Pink Apple Film Festival di Frauenfeld e che meritano di raccogliere pieno successo.

    Vi auguro di non mollare mai e di continuare sempre a combattere con intelligenza e con onestà.

    Grazie della vostra attenzione.

 

 

Un’iniziativa della “Fabbrica” 

Che Ettore sia con noi !!!

 Centenario di Cella-Dezza: appuntamento cinematografico a Zurigo, giovedì 12.9.2013, ore 20, al “Punto d’Incontro”, Josefstrasse 102

 di Mattia Lento

 A 100 anni dalla nascita di Ettore Cella-Dezza la “Fabbrica” di Zurigo ha deciso di ricordarlo e rendergli omaggio con due proiezioni presso il Punto d’Incontro (Josefstrasse 102).

    Il 12 settembre, giorno dell’anniversario, e il 9 dicembre verranno mostrati infatti Bäckerei Zürrer e Hinter den sieben Gleisen, due film del grande regista elvetico Kurt Früh, in cui Ettore interpreta i due personaggi ormai leggendari di papà Pizzani e del venditore di banane Colonna.

    La visione dei due film sarà l’occasione per vedere le immagini dell'Aussersihl alla fine degli anni ‘50, quell’“Ettores Chreis” che ha segnato la storia di una città e dei suoi migranti.

    Questa breve retrospettiva, inoltre, rendendo omaggio a uno dei più illustri simboli dell’integrazione straniera a Zurigo, vuole essere di buon auspicio per l’iniziativa cantonale del 22 settembre per il diritto di voto straniero a livello locale. Che Ettore sia con noi !!!

 

9.09.2013

Quantitative Easing

La politica della Fed manda in tilt le economie emergenti

 di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 Quest’anno alla riunione informale dei banchieri centrali di Jackson Hole nello Stato del Wyoming  di fine agosto è stata la defezione del governatore delle Federal Reserve Ben Bernanke a fare notizia.

    Bernanke non ha potuto presentarsi perché tutti avrebbero chiesto lumi sulle azioni future della Fed in merito al “Quantitative Easing” (QE).

    Si ricordi che l’anno scorso, invece, il governatore teorizzò con grande enfasi la “teoria di una nuova politica monetaria non convenzionale”. Subito dopo si è concretizzata negli Usa con la terza operazione di QE e l’immissione di 85 miliardi di dollari al mese per l’acquisto da parte della Fed di nuove obbligazioni del Tesoro e di altri titoli bancari meno solvibili quali i derivati asset-backed-security.

    Tale scelta non può durare all’infinito, perciò il problema è: come fermare le rotative della Fed? Con quali conseguenze? In Europa, pur pagando un prezzo salato, si è capito che i danni di una finanza drogata sono enormi e hanno inciso non poco sul debito pubblico.

    Dopo un anno di tanta nuova e facile liquidità i risultati anche per l’economia americana di fatto sono quasi nulli. Però vi sono molti effetti destabilizzanti generati soprattutto nei Paesi emergenti.

    La liquidità confluita dai Paesi occidentali ha stimolato il grande appetito del rischio. Si sono così create bolle immobiliari, sacche di crediti facili, speculazioni su monete e su commodity, su materie prime e prodotti agricoli.

    In pratica la politica del “Quantitative Easing” si è rivelata una trappola che ha spinto i tassi di interesse vicino allo zero e prodotto addirittura una perdita, al netto dell’inflazione, per i tradizionali investitori.

    Non sono pochi, infatti, coloro che, persino nella dirigenza del Federal Reserve System, sostengono che tale politica non ha aiutato la ripresa interna. Altri rappresentanti della Fed hanno però ricordato che la Fed fa soltanto gli interessi degli Usa e che gli altri Paesi dovrebbero prenderne atto.

    Quando a maggio Bernanke ha appena accennato alla possibilità di uscire dal QE, i mercati sono entrati subito in fibrillazione. E’ quello che succede ad un drogato che, prima lo si è tenuto “sotto controllo” aumentando la dose, e poi si decide di non fornirne più.

    Nelle economie emergenti l’aspettativa di un cambiamento della politica monetaria della Fed sta scatenando una fuga di capitali tanto che si parla di una “crisi d’estate” per Paesi come l’India, il Brasile, il Sud Africa, la Turchia e l’Indonesia.

    Dall’inizio dell’anno a oggi le loro monete hanno subito impressionanti svalutazioni che vanno dall’8% per la rupia dell’Indonesia, al 15% per quella dell’India fino al 20% per il real brasiliano.

    Sembra che i governi interessati stiano approntando azioni di difesa. In particolare il banchiere centrale del Brasile ha dovuto disertare Jackson Hole proprio per preparare un programma di emergenza di ben 60 miliardi di dollari a sostegno della valuta nazionale.

        Dall’inizio di maggio le riserve delle banche centrali dei Paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari a causa di fughe di capitali e per interventi di stabilizzazione dei mercati valutari. Anche i loro mercati azionari avrebbero perso 1 trilione di dollari!

    A Jackson Hole la stessa direttrice del Fmi Christine Legarde, riferendosi alle nuove crisi nelle economie emergenti, ha dovuto ammettere che “siamo in una nuova pericolosa fase che potrebbe far deragliare la fragile ripresa” e che le attuali riverberazioni sui mercati finanziari “potrebbero ritornare dove hanno avuto origine”, cioè negli Usa. 

    Non è una bella prospettiva, perciò sarebbe opportuno che in tempi brevi i governi del G20, non solo Obama, riflettessero seriamente sul “che fare” e agissero di conseguenza.