Finanziamento pubblico: Siate seri, per favore! di Giuseppe Tamburrano La proposta di Letta di introdurre il finanziamento pubblico dei partiti sul 2 per mille nella dichiarazione dei redditi è caduta. Ora “studiano un altro sistema”. Se ci è permesso di aiutarli, ne proponiamo uno semplice ed efficace. Nel 1993 un referendum abrogò il finanziamento pubblico fondato sul contributo dello Stato. Bisogna tornare a quel sistema, modificandolo, perché non incorra nell’ira degli elettori. Il principio è lo stesso: il contributo dello Stato, ma un contributo congruo che non “obblighi” i partiti a chiedere soldi sporchi (Tangentopoli 2). La seconda modifica fondamentale riguarda i controlli che debbono essere severi, fermi. Si dia ai partiti, architrave della nostra repubblica, quanto è necessario per funzionare, si dia applicazione all’art. 49 della Costituzione che riconosce l’importanza fondamentale dei partiti ma ne chiede la regolamentazione e si introducano controlli all’entrata e soprattutto accuratissimi all’uscita delle spese dei partiti con un sistema di revisione esterna, capillare, per accertare se i partiti hanno speso di più di quanto hanno incassato, con accurate, oculate pezze d’appoggio. Diamo l’incarico all’orco della Agenzia delle Entrate? Per capirci: quando mia moglie mi manda a fare la spesa pretende gli scontrini: e le spese debbono corrispondere alle somme che mi ha dato (aiutando anche la lotta all’evasione!). |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it Crisi, Ue: «In Italia crolla la produzione industriale» Lo afferma il rapporto sulla competitività in via di approvazione a Bruxelles. Siamo ancora sopra rispetto alla media, ma nel nostro paese lo smantellamento corre più velocemente che altrove. Passi avanti solo in Germania. Produttività, ci supera anche la Spagna Dal 2007 l'Italia vive una forte deindustrializzazione, uno smantellamento tra i più veloci dell'Eurozona. E se il nostro paese resta ancora sopra la media Ue, l'indice della produzione industriale ha perso 20 punti percentuali negli ultimi cinque anni. Lo afferma il rapporto sulla Competitività in via di approvazione da parte della Commissione europea, i cui contenuti sono stati anticipati dall'Adnkronos e dall'Ansa. Secondo il dossier anche nel resto d'Europa è in corso la deindustrializzazione. A perdere terreno, accanto all'Italia, c'è anche la Finlandia. Bruxelles segnala che in termini di competitività l'Europa ha fatto progressi, tuttavia restano ancora molte sfide da superare. La maggior parte dei paesi mostra infatti problemi, eccezion fatta per la Germania che registra buoni risultati. A pesare, per gli altri paesi, sono gli gli alti costi dell'energia, la burocrazia, la scarsa spesa in ricerca e innovazione e i problemi di accesso al credito. L'altro dato riguarda la produttività: l'Italia è l'unico paese dell'Eurozona che, insieme alla Finlandia, l'ha peggiorata, superata nelle ultime rilevazioni anche dalla Spagna. |
LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it Telecom-Telefónica, una scalata «inquietante» La scalata spagnola a Telecom Italia turba i sindacati e la politica. Per la Cgil si tratta di "un'operazione dai contorni inquietanti" che può aggravare i problemi di sottocapitalizzazione di Telecom. Zanonato e Bernabè: azienda non diventa spagnola Telecom-Telefónica, operazione «inquietante» - La scalata spagnola a Telecom Italia inquieta i sindacati e turba il dibattito politico. Per la Cgil si tratta di “un'operazione dai contorni inquietanti” nei confronti della quale il governo deve intervenire convocando “immediatamente gli azionisti di riferimento di Telecom Italia e le Parti Sociali per verificare quale sia il progetto industriale su Telecom”. “Nel mentre il Presidente del Consiglio tenta di promuovere l’Italia all’estero e nel totale silenzio della politica - si legge in una nota congiunta delle segreterie nazionali Cgil e Slc -, è strato raggiunto l’accordo per l’acquisto della quota di controllo di Telecom Italia da parte di Telefónica. E’ la prima volta che un asset strategico per il futuro del Paese è acquisito da un’impresa straniera, senza che ci sia stata una preventiva discussione pubblica sulle ricadute e sugli interessi del Paese e, in assenza di un deciso cambio di passo, quanto avvenuto è destinato a ripetersi fin dalle prossime settimane”. Per il sindacato “siamo in presenza di un’operazione i cui contorni sono inquietanti perché i problemi di sottocapitalizzazione di Telecom e l’ingente debito che ne paralizza le capacità d’investimento sono tutt’altro che risolti, anzi potrebbero essere aggravati dalla situazione finanziaria di Telefónica a sua volta caratterizzata da un elevatissimo tasso di indebitamento. E’ evidente, che se i contorni di un possibile piano industriale fossero la vendita di Tim in Brasile e Argentina, riorganizzando l’azienda attraverso la cessione di assets strategici quali le attività di customer e quelle dell’informatica per poi procedere alla fusione per incorporazione di Telefónica e Telecom Italia saremmo in presenza di un’operazione che fa uscire l’Italia dal settore delle telecomunicazioni, togliendo al Paese la possibilità di indirizzare gli investimenti e potenziare la rete, condizioni imprescindibili per il rilancio dell’economia. In tal caso le ricadute occupazionali sull’attuale perimetro di Telecom Italia potrebbero essere incalcolabili”. La situazione determinatasi, continua la nota, “conseguenza diretta degli errori commessi durante la privatizzazione le cui conseguenze negative hanno portato Telecom Italia a passare da 5° operatore mondiale di telefonia con 120.000 dipendenti a un’azienda sottocapitalizzata e indebitata in misura spropositata, deve vedere una pronta reazione al fine di evitare i rischi per il Paese e ridare un quadro di certezze e di trasparenza nei confronti dei 46.000 dipendenti diretti e delle altre decine di migliaia di lavoratori indiretti che dipendono dall’azienda stessa”. Cgil e Slc chiedono così un intervento dell'esecutivo. “Il governo - affermano - deve convocare immediatamente gli azionisti di riferimento di Telecom Italia e le Parti Sociali per verificare quale sia il progetto industriale su Telecom, come si pensi di affrontare il tema della sottocapitalizzazione e degli investimenti necessari a rinnovare la rete, elemento strategico per l’ammodernamento dell’intero Paese. Nel caso non vi fossero gli elementi di chiarezza necessari, i ministeri competenti dovranno esercitare i poteri previsti dalla golden share per dettare tutte le condizioni necessarie a salvaguardare gli interessi generali e le tutele occupazionali di migliaia di lavoratori. La stabilità non può rappresentare un valore a prescindere da quel che accade all’economia reale del Paese, e l’Italia non può permettersi di perdere ulteriori opportunità per poter tornare a crescere. Il sindacato - conclude la nota - è determinato a mettere in campo tutte le iniziative necessarie per evitare che ulteriori errori facciano pagare ai dipendenti e al Paese un ulteriore prezzo che riteniamo insopportabile quanto ingiustificato”. Le rassicurazioni di Zanonato e Bernabè - Chiamato in causa, il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, spiega che è "difficile sostenere che, con la salita di Telefónica in Telco, Telecom Italia diventi spagnola". Parlando con i giornalisti, il ministro ha spiegato che "c'è molta confusione su queste cose". "La Telco, che possiede un 20% di Telecom Italia era già a maggioranza Telefónica, che passerà dal 46 al 61%. Mi pare che sia dura sostenere che Telecom diventa spagnola", ha dichiarato. Nella nota di Telefónica si legge però che la compagnia spagnola potrà acquistare il 100% di Telco a partire dal 1 gennaio 2014. "Telecom Italia non diventa spagnola" perché "l'operazione riguarda Telco". Cosi' il presidente esecutivo del gruppo telefonico italiano, Franco Bernabè, ha commentato l'intesa sulla holding che controlla la compagnia. L'accordo, ha osservato Bernabè, "cambia l'assetto azionario di Telco e non di Telecom. Telecom non diventa spagnola, e' solo Telco che ha avuto un riassetto azionario”. Pd: governo riferisca in Parlamento - Parole che non rassicurano la politica, dove con umore bipartisan sia Pd che Pdl bocciano l’operazione. Il Pd chiede in aula alla Camera che il governo riferisca sul caso Telecom. Andrea Martella, spiega che la situazione "e' densa di incognite e di conseguenze tutte da verificare perlomeno rischiose. Riteniamo opportuno che il governo intervenga in aula e riferisca al piu' presto". Martella chiede al presidente di turno Luigi Di Maio "di farsi promotore della richiesta al governo, nei tempi piu' rapidi possibili, perché nelle prossime ore possa tenersi l'informativa". "In attesa che siano formalizzati i dettagli dell'operazione, la cessione di Telecom Italia agli spagnoli è un segnale preoccupante per il capitalismo italiano e per il nostro Paese. La circolazione di capitali è in genere un fatto positivo, ma quello che allarma sono i passaggi di proprietà, specie di asset strategici, sempre dall'Italia verso l'estero e mai viceversa. Ci auguriamo che quanto meno questa vendita non intacchi gli attuali e i futuri livelli occupazionali ". Lo ha dichiarato, infine, il presidente dei senatori del Pdl, Renato Schifani. Il controllo Antitrust - L’operazione è di quelle che meritano “attenzione” da parte dell’Autorità garante della concorrenza. Il regolamento sembra prevedere una competenza dell’Antitrust europea, ha detto il portavoce Ue alla concorrenza, Antoine Colombani, ma la Commissione lascerà valutare alle aziende. "E' compito delle imprese coinvolte di adeguarsi ai loro obblighi e stabilire a quale autorità della concorrenza debbano notificare un'operazione," ha detto Colombani. |
Economia La Fed stampa dollari I Brics comprano oro di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista Se bastasse creare dal nulla liquidità per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, saremmo da tempo nel Paese di Bengodi, soprattutto negli Usa. Ma così non è. Pertanto la recente decisione assunta della Federal Reserve di continuare a immettere nel sistema nuova liquidità rivela semplicemente che essa non è più in grado di staccare la spina dell’alimentatore di risorse ad un sistema sempre più “drogato”. Certo le borse hanno risposto in modo vivace con l’aumento dei listini, ma non è detto che ciò sia un reale segnale positivo. Infatti, la stessa Fed, dopo il meeting del suo Open Market Committee, ha dovuto ammettere che “se dovesse continuare l’irrigidimento delle condizioni finanziarie (con l’aumento dei tassi di interesse), osservato nei mesi recenti, il processo di miglioramento dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rallentare.” L’inevitabile conseguenza di tale “filosofia”è che negli Usa si proseguirà con la “politica monetaria accomodante”, immettendo 85 miliardi di dollari al mese per comprare nuovi titoli del Tesoro e derivati asset-backed-security. Anche il governatore Bernanke, il cui mandato sta per scadere, ha ribadito che i quantitative easing continueranno fino a che negli Usa il tasso di disoccupazione non scenderà sotto il 6,5%. E questo si spera avvenga entro la fine del 2014, nel frattempo avremmo però circa 1.500 miliardi di nuovi dollari sui mercati internazionali. Anche il bollettino trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali di settembre solleva forti dubbi sugli “effetti benefici” dei quantitative easing e dettaglia invece le sue riverberazioni nefaste in particolare nelle economie emergenti. La BRI ricorda che quando lo scorso maggio la Fed ventilò appena l’ipotesi di un cambiamento di politica monetaria, gli interessi obbligazionari ebbero un’impennata con effetti negativi in molti settori finanziari e in varie parti del mondo. Vi fu una “corsa alla svendita” di titoli con una conseguente caduta dei prezzi. Il ritiro di capitali dai mercati emergenti provocò, come noto, una forte svalutazione di alcune loro monete. L’analisi della Bri sottolinea che, anche dopo le assicurazioni date dalla Fed, dalla Bce e dalla Bank of England lo scorso luglio, l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo è continuato in quanto i mercati si attendevano una stretta nelle condizioni finanziarie a livello mondiale. La situazione è estremamente volatile. Nonostante questo aumento già di per sé destabilizzante, gli interessi a lungo termine restano comunque bassi e spingono la finanza a cercare prodotti e operazioni ad alto rischio. Di conseguenza è cresciuta l’immissione di bond e di prestiti nei settori finanziari più esposti e rischiosi. Proprio come accadde subito prima dell’esplosione della crisi finanziaria globale. Ad esempio, la percentuale dei leveraged loans, molto simili ai subprime, e cioè qui crediti concessi a soggetti già altamente indebitati e di dubbia affidabilità, ha già raggiunto il 45% del mercato dei “finanziamenti in pool” (quelli elargiti da un gruppo di banche). Si noti che tale percentuale è superiore del 10% rispetto ai precedenti massimi registrati prima del crac della Lehman. In controtendenza, bisogna osservare che le politiche monetarie dei Paesi del Brics e di altri importanti Paesi emergenti mirano ad aumentare le proprie riserve auree. Si stima che nel 2013 la sola Cina dovrebbe comprare almeno 1.000 tonnellate di oro. Cina, Russia e India assieme potrebbero quindi acquistare circa il 70% di tutto l’oro prodotto nel 2013. Si rammenti che già nel 2012 la Russia ha aumentato le sue riserve aure dell’8,5% portandole a un totale di circa 1.000 tonnellate. Non si tratta di una strana infatuazione per il metallo prezioso, ma di una coerente strategia monetaria e geo-economica. La maggioranza dei Paesi del mondo sa che il dollaro diventa ogni giorno più debole e instabile proprio per la continua creazione di nuovi biglietti verdi. Siamo alla resa dei conti? Si arriverà in tempi brevi al famoso paniere di monete e di oro proposto dai Brics in sostituzione del dollaro? E l’Europa cos’ha da dire? |