12.17.2014

Le padrone delle commodity - Nuova indagine sulle banche USA. Nuovo grande scandalo mondiale.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Le grandi banche sono state pizzicate a speculare alla grande sulle   commodity, sulle materie prime, sui cereali e su altri prodotti alimentari.

    La Commissione d’Indagine del Senato americano, diretta dal democratico Carl Levin e dal repubblicano John McCain, ha pubblicato un dossier di 400 pagine dal titolo “Wall Street bank involvement with physical commodities” per denunciare con dovizia di dettagli come le banche “too big to fail” stiano manipolando, ovviamente a loro vantaggio, i mercati delle commodity. Naturalmente tutto ciò con riverberi sui mercati internazionali.

    Per due anni la Commissione ha indagato sui casi più eclatanti che evidenziano come “il massiccio coinvolgimento di Wall Street nelle commodity mette a rischio la nostra economia, le nostre imprese e l’integrità dei nostri mercati. Bisogna reintrodurre - continua la Commissione - la separazione tra banca e commercio per prevenire che Wall Street utilizzi informazioni non di pubblico dominio a suo profitto e a spese dell’industria e quindi dei cittadini”. Ciò non vale soltanto per gli Stati Uniti ma per il mondo intero.

    La Commissione sta procedendo con delle audizioni pubbliche per dimostrare come alcune banche abbiano fatto aumentare artificialmente i prezzi delle materie prime e speculato in derivati sulle stesse, sfruttando gli “effetti provocati” dalle manipolazioni. Il senatore Levin avverte anche di possibili futuri rischi sistemici per l’economia dovuti al fatto che le banche sono coinvolte in imprese esposte ad alti rischi di catastrofi ambientali.

    Sono state analizzate in particolare le attività delle solite maggiori banche americane, tra cui la Goldman Sachs, la JP Morgan Chase, la Morgan Stanley e la Bank of America.

    La Goldman avrebbe “assunto” il controllo del mercato dell’alluminio. Nel 2010 ha acquistato la Metro International Trade Services di Detroit, che gestisce lo stoccaggio certificato dalla London Metal Exchange, la principale borsa mondiale dei metalli. Nei suoi magazzini ci sarebbe l’85% di tutto l’alluminio contrattato alla borsa di Londra per il mercato americano. Trattasi di 1,6 milioni di metri cubi di alluminio pari al 25% dell’interno consumo annuale in Nord America. La banca ha aumentato la sua proprietà diretta di alluminio passando da una quantità pari a 100 milioni di dollari a 3 miliardi. Possiede, tra l’altro, anche un’impresa che commercia uranio e due grandi miniere di carbone in Colombia!

    Il meccanismo messo in atto sembra piuttosto semplice. Attraverso varie manipolazioni e fittizi spostamenti di ingenti quantità da un magazzino all’altro la Goldman Sachs sarebbe riuscita a determinare ritardi nelle consegne del metallo alle industrie acquirenti. Invece dei 40 giorni necessari nel 2010, lo scorso settembre il tempo di consegna è stato di ben 600 giorni! Ovviamente ciò ha prodotto un aumento sul costo dello stoccaggio, la cui percentuale su quello totale è passata dal 6% del 2010 al 20% di oggi. Naturalmente tutto a beneficio di Metro-Goldman. La conseguenza è stata un’impennata dei prezzi dell’alluminio tanto che molte imprese colpite hanno denunciato la manipolazione, tra cui la Coca Cola. Sembra che al “giochetto degli spostamenti” abbiano partecipato anche altre banche come la Deutsche Bank e l’hedge fund inglese Red Kite,

    I profitti realizzati con l’aumento dei prezzi di stoccaggio per la Goldman sono stati soltanto una piccola parte del guadagno. Il vero business lo hanno fatto con le speculazioni sui future dell’alluminio e con altri derivati costruiti in base alla manipolazione dei prezzi e alla posizione di monopolio dello stoccaggio.

    Da parte sua la JP Morgan Chase ha ammassato grandi quantità di materie prime per un valore di mercato di 17,4 miliardi di dollari pari al 12% del suo capitale di base, il cosiddetto Tier 1. Poiché sono stati superati abbondantemente i limiti permessi, la banca furbescamente ha sottostimato di quasi due terzi tale valore prima di rendicontarlo alla Federal Reserve. E’ arrivata anche a possedere fino al 60% di tutto il rame negoziato sui mercati mondiali. Nel campo energetico possiede 25 milioni di barili di petrolio e controlla 19 centri di immagazzinamento di gas.

    La Morgan Stanley invece controlla 58 milioni di barili di petrolio. Possiede 100 petroliere e circa 8.000 km di oleodotti. E’ padrona di 18 centri di immagazzinamento di gas. Contemporaneamente sta costruendo la propria centrale di compressione del gas ed è la fornitrice privilegiata di carburante per alcune grandi compagnie aeree.

    La Bank of America ha 35 centri di stoccaggio di petrolio e 54 di gas.

    In altre parole, all’ombra di una troppo abusata “globalizzazione” che tutto giustifica, le banche fanno sempre meno gli istituti di credito e, forti anche dei capitali ottenuti a tassi di favore dal governo, si mettono in diretta competizione con le imprese che operano nei settori dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, della lavorazione e dello sfruttamento delle materie prime fino a determinarne i comportamenti e la stessa sopravvivenza.

    Appare chiaro l’intreccio perverso tra banche e organismi di controllo che evidentemente non hanno fatto il loro dovere.

    Avviata l’indagine senatoriale, la Goldman Sachs si è affrettata a licenziare due suoi importanti operatori coinvolti nelle manipolazione. Si è scoperto però che prima essi avevano lavorato per la Federal Reserve di New York. Del resto è noto che l’attuale capo della Fed di New York, William Dudley, è stato un alto dirigente della Goldman fino al 2005

    E’ certamente importante che la Commissione d’Indagine del Senato lavori su questi casi specifici. In passato la stessa Commissione in verità aveva denunciato le responsabilità delle grandi banche americane nella crisi finanziaria globale dei mutui subprime, dei derivati Otc e dei titoli tossici. Il fatto che, a distanza di anni, si debba ancora denunciare simili gravi comportamenti, dovrebbe suonare come un vero allarme sui rischi sistemici di una finanza che purtroppo continua a ritenersi l’agnello d’oro da adorare sempre.

    Ci saremmo aspettati che a Brisbane si fosse parlato anche di ciò.

 

12.09.2014

Un’iniziativa globale per le infrastrutture?

Alcuni interessanti aspetti del G20 di Brisbane

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Abbiamo imparato a non aspettarci dai summit del G20 cambiamenti significativi e di importanza sistemica per l'economia soprattutto per  la finanza. Anche da Brisbane in Australia, purtroppo, è arrivato lo stesso messaggio. Si ammette però che "l'economia globale è vulnerabile a futuri choc, resta la fragilità finanziaria e i rischi esistenti sono esacerbati da tensioni geopolitiche".

   Tuttavia dal comunicato finale del meeting di novembre emergono alcuni passaggi interessanti.

    In un mondo dove i Paesi del Brics risultano essere le uniche locomotive della ripresa è intollerabile che dal 2010 gli Stati Uniti continuino a bloccare la riforma delle quote di controllo del Fondo Monetario Internazionale e quindi quella della governance mondiale.

    Per questa ragione Brisbane ha dato tempo fino alla fine del 2014 per ratificare quanto concordato, dopo di che si dovrebbe procedere alla realizzazione dei nuovi assetti.

    In una economia globale ancora dominata dai paradisi fiscali e da "sistemi bancari ombra", che permettono a tutte le grandi multinazionali private di scegliersi i posti fiscalmente più convenienti per la domiciliazione delle proprie attività, il G20 afferma di voler lavorare unitariamente per una riforma del sistema fiscale internazionale. In futuro "i profitti dovrebbero essere tassati  dove operano le attività economiche che li producono e dove il valore viene creato". Si tratta di una dichiarazione di buona volontà, come una delle tante registrate in passato, attesa però alla prova dei fatti.

    Il passo avanti più significativo ci sembra sia il riconoscimento della mancanza di investimenti globali nelle infrastrutture che riteniamo sia il vero freno per la ripresa.

    Perciò il G20 promuove la "Global Infrastructure Initiative" (GII), un programma pluriennale di grandi lavori per migliorare la qualità degli investimenti infrastrutturali pubblici e privati. Si consideri che la necessità mondiale di infrastrutture è stimata in 57 trilioni di dollari e gli investimenti richiesti potrebbero essere di 3 trilioni di dollari all'anno.

    A Brisbane si è deciso di aggiornare i canali di informazione sui vari programmi e progetti e di creare nuovi meccanismi di finanziamento di lungo termine per coinvolgere sia gli investitori istituzionali che le reti di PMI. Secondo noi è la strada maestra per indirizzare i flussi finanziari verso l'economia reale, a partire dalle infrastrutture di base, e toglierli alla speculazione finanziaria che, come è noto, opera nel breve periodo.

    E quindi i Paesi del G20 hanno deciso anche di creare un "Global Infrastructure Hub", una piattaforma di coordinamento tra i governi, il settore privato, le banche di sviluppo e le altre organizzazioni internazionali per realizzare i grandi lavori e le grandi infrastrutture nel mondo, nonché gli investimenti nei settori delle PMI.

    Il succitato Hub opererà da Sidney con un mandato di 4 anni ed un budget di 10-15 milioni di dollari all'anno che saranno sottoscritti volontariamente da tutti i Paesi, anche non del G20, da organizzazioni internazionali e da privati. Sarà una "centrale" privata ed indipendente, controllata da un consiglio direttivo di fatto in mano ai rappresentanti del cosiddetto mondo avanzato. In ogni caso, se dovesse funzionare in modo corretto, le sue potenzialità non sarebbero irrilevanti.

    Nel contesto il G20 di Brisbane ha anche avallato la recente iniziativa della Banca Mondiale per un "Global Infrastructure Facility", di fatto un progetto molto simile, se non un doppione dell'Hub menzionato.

    Sarebbe opportuno prima di tutto chiarire se la GII del G20, visto che avrà una strutturazione molto privata, sia la stessa "Global Infrastructure Initiative" lanciata due anni fa dalla McKinsey & Company insieme ad altre entità private americane e internazionali.

    In merito quindi sorgono legittimi dubbi sulle vere intenzioni operative e degli Stati Uniti e dell'Ue.

    Mentre si ricordi che finora sono stati i Paesi del Brics ad avviare a realizzazione in modo concreto e indipendente una serie di importanti infrastrutture. Si tratta dei grandi corridoi di sviluppo terrestre, ma anche marittimo, avviati dalla Cina, dalla Russia, dall'India. Il Brasile per altro verso sta lavorando per una moderna infrastrutturazione dell'interno continente latino americano. Purtroppo la grande sfida rimane ancora l'Africa.

    Per finanziare i vari progetti i Brics hanno creato una Banca di Sviluppo con 100 miliardi di dollari di capitale. Inoltre stanno sorgendo anche delle banche di sviluppo regionale come la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB).

    Non vorremmo che la Facility della Banca Mondiale ed in particolare la GII fossero, più che promotrici di iniziative, solo strumenti per  "incapsulare" le attività dei Brics in un controllo più stringente da parte del cosiddetto mondo occidentale. Sarebbe di fatto un sabotaggio e un atto assai grave. Occorre grande consapevolezza delle necessità globali e occorre il coraggio di governanti "visionari" per battere le logiche egoistiche del passato e guardare all'universo mondo nell'ottica di un vero sviluppo diffuso e pacifico.

 

La svolta di Salvini e la crisi della democrazia

Da CRITICA LIBERALE

 

 

di Paolo Bonetti

 

La crisi economica non sembra avere soluzioni, se non in tempi lunghi o lunghissimi, mentre aumenta il disagio sociale non solo di operai e pensionati, ma anche di quella vasta classe media (che è poi, in realtà, un coagulo di ceti diversi) che costituisce la vera spina dorsale dell’economia e della società italiana. Artigiani, piccoli e medi imprenditori, commercianti, liberi professionisti, partite Iva e lavoratori autonomi dei più diversi settori professionali, tutti costoro cominciano a disperare del proprio avvenire, a perdere il gusto del rischio e dell’innovazione, a ripiegare su scelte di prudenza e di rinuncia, convinti ormai che la ripresa non ci sarà o sarà lenta e debolissima. Tutti costoro costituiscono la grande maggioranza del paese, assai più di una classe operaia che si è venuta progressivamente riducendo, man mano che avanzavano i processi di terziarizzazione del tessuto economico e si veniva imponendo, anche in Italia come in tutti i paesi avanzati, un’economia dei servizi. Per di più anche il nostro capitalismo abbandonava anno dopo anno gli investimenti produttivi per rifugiarsi nel più lucroso campo della speculazione finanziaria.

    Dovrebbe essere noto che gli scioperi funzionano e migliorano le condizioni economiche delle classi subalterne, quando l’economia è in crescita e ci sono utili da redistribuire. Ma oggi, in Italia, siamo in piena recessione e gli investimenti non decollano. Bisognerebbe incrementare la domanda interna, ma c’è da dubitare che, nell’attuale condizione di depressione psicologica oltre che economica, essa servirebbe davvero a far ripartire il ciclo produttivo per creare nuova occupazione. Il capitalismo italiano, abituato da sempre a vivere e prosperare con le protezioni e i sussidi statali e con la periodica svalutazione della moneta, sembra aver alzato bandiera bianca di fronte alle difficoltà e ai rischi del mercato globale. S’invoca (lo ha fatto recentemente D’Alema) un nuovo massiccio intervento dello Stato, ma questo Stato (inteso come l’insieme delle pubbliche amministrazioni) ha ampiamente dimostrato di non saper spendere neppure quei denari che la Comunità europea gli ha messo a disposizione. Scioperare potrà anche essere una riaffermazione di identità e di ruolo del sindacato, ma alla fine sarà soltanto un’ulteriore perdita della ricchezza nazionale e, in molti casi, un maggiore disagio per i cittadini-utenti.

    In questa situazione di crescente disgregazione sociale, non esiste alcuna alternativa di sinistra all’attuale governo e questo va detto anche a costo di urtare le convinzioni e la suscettibilità di molti. Non è un’alternativa la sinistra ondivaga e inconcludente del partito democratico, come non lo sono la demagogia di Sel o le astrattezze ideologiche dei partitini che ancora si richiamano al comunismo. In quanto al M5S, il guaio di questa ancora numericamente consistente forza politica è che essa non sa letteralmente che cosa fare e in che direzione muoversi: la confusione è totale e il rischio di una diaspora, che si tradurrebbe poi nella subordinazione ad altre forze politiche, è più che mai incombente.

    E veniamo allora a Salvini e alla sua nuova Lega di cui si parla nel titolo di questo articolo. Nello sfaldamento sociale e anche culturale in atto, Salvini, come il Front National in Francia e l’Ukip in Gran Bretagna, sta trovando il terreno più favorevole per una crescita che si sta gonfiando mese dopo mese. Messa da parte la fisima del federalismo, il capo leghista ha furbescamente capito che nell’intera società italiana, da Nord a Sud, ci sono una sofferenza economica e uno sbandamento morale che possono permettere lo sfondamento elettorale di una forza politica nazionalpopulista capace di far leva sulla rabbia e sulla vera e propria disperazione di ceti sociali che non riescono più a individuare per se stessi motivi credibili di rassicurazione e di speranza. Se i metalmeccanici di Landini si agitano nei cortei, la variegata e sempre più sofferente piccola borghesia italiana resta più silenziosa, ma comincia ancora una volta a pensare che della democrazia si può fare a meno, se la democrazia è soltanto tasse, corruzione politica e inefficienza burocratica.