7.04.2011

Frontalieri oggetto di scambio?

NO DEI SINDACATI ITALIANI ALLA SCELTA DEL CONSIGLIO DI STATO TICINESE

 

Il Consiglio di Stato ticinese ha deciso di "congelare" il 50 % dei ristorni delle imposte alla fonte versate dai frontalieri italiani in Canton Ticino; della quota di 55 milioni di franchi (all'incirca 44 milioni di euro) quindi verrà versata all'Italia solo la metà .

    Il Consiglio di Stato si è impegnato a liberare la trattenuta non appena i Governi svizzero ed italiano daranno vita al negoziato.

    Se da un lato le motivazioni che stanno alla base del clamoroso atto sono ben conosciute e condivise, le organizzazioni sindacali italiane sono nettamente contrarie ai contenuti e alle modalità della decisione.

    La stessa Presidente della Confederazione Elvetica Micheline Calmy-Rey nei giorni scorsi aveva affermato che "sospendere i riversamenti non è opportuno".

    La necessità di riavviare i contatti tra i Governi svizzero e italiano non può più essere rimandata; è urgente che si riallaccino i rapporti in modo da definire in  maniera bilaterale nuovi accordi per evitare la doppia imposizione, accordi che la Svizzera ha già firmato con numerosi Paesi, ad esclusione dell'Italia.

    Utilizzare i frontalieri come "oggetto di scambio" per dirimere questioni ben più complesse non è corretto. Le conseguenze di questo atto sono gravissime per tutti i Comuni di frontiera italiani, specialmente per i più piccoli, che sarebbero costretti a ridimensionare in maniera totale o parziale tutti i servizi alla popolazione.

    Le organizzazioni sindacali italiane quindi chiedono con forza che si dia continuità alle mozioni approvate alla Camera dei Deputati nelle settimane scorse, volte appunto ad una normalizzazione dei rapporti tra Italia e Svizzera; inoltre chiedono al Consiglio Federale svizzero di intervenire immediatamente per il rispetto di una Convenzione bilaterale sottoscritta tra due Stati sovrani.

 

Claudio Pozzetti, Gianmarco Gilardoni e Pancrazio Raimondo

Per CGIL-CISL-UIL Frontalieri

Come nella parabola dei Talenti

Economia

a cura di ItaliaOggi

 

Valorizzare l'oro di Bankitalia e i soldi delle Poste aiuterebbe molto a risanare i conti senza deprimere ulteriormente l'economia

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi) e Paolo Raimondi, Economista

 

La Commissione europea, come noto, ha raccomandato all'Italia di mettere i conti a posto, di diminuire il debito pubblico e di azzerare il deficit entro il 2014. In soldoni questo vuol dire un taglio di 45 miliardi entro la data indicata. Non si tratta di imporre austerità all'Italia e all'Europa, dice Bruxelles, ma «l'insostenibilità delle finanze pubbliche sta limitando il nostro potenziale di crescita».

    Ancora una volta abbiamo il vecchio e irrisolto dilemma: viene prima l'uovo o la gallina? Prima tagliare le spese come condizione per ripartire oppure rilanciare subito l'economia per abbattere il debito?

    La Commissione Ue da sempre privilegia i tagli di bilancio come se fosse il toccasana per fermare il crescente debito pubblico. È la storica deformazione di considerare tutto come costi, siano essi gli interessi passivi, le spese correnti o gli investimenti.

    Noi pensiamo che debba essere la crescita dell'economia a «guidare» il risanamento dei conti. Riteniamo che il freno del rigore possa essere tirato senza intaccare le capacità produttive del paese, i livelli di vita dei cittadini e i diritti dei lavoratori. Può sembrare un'eresia, ma non lo è.

    Si possono risparmiare 10-15 miliardi con i tagli ai costi della politica, a partire dal finanziamento pubblico dei partiti e dagli emolumenti più scandalosi nel pubblico e nel parapubblico e da una riforma fiscale che riduca le aliquote soprattutto per i redditi bassi e medi, razionalizzando e riducendo gli enti pubblici, standardizzando i costi nella sanità e nei ministeri per effetto del federalismo e della informatizzazione digitale. Si possono e si devono ricuperare miliardi di euro dall'evasione fiscale, dal sommerso e dall'economia criminale. I grandi evasori sono ancora troppi!.

    Non bisogna vendere i «gioielli di famiglia» per tappare i buchi del debito. L'esperienza delle privatizzazioni fatte a partire dal 1992, mentre la lira si svalutava sotto l'attacco della speculazione internazionale, è stata deleteria e dovrebbe averci insegnato qualcosa. Le privatizzazioni non sono un male, ma sono un processo delicato e complesso che non bisogna mai sperimentare nei momenti di difficoltà e di crisi. I rapaci sono sempre pronti ad approfittare.

    Da tempo si parla anche di vendere parte delle riserve di oro della Banca d'Italia per abbattere il debito pubblico. Si vorrebbe alienare un bene con un valore reale in cambio di una momentanea illusione numerica di miglioramento della nostra situazione debitoria.

    Secondo noi invece uno dei problemi di fondo del sistema economico italiano è la mancanza di uno strumento istituzionale capace di creare e assicurare credito agli investimenti, alla modernizzazione e allo sviluppo. Le risorse non mancano e neanche le capacità.

    Si pensi che a fine 2010 la Banca d'Italia deteneva riserve auree per 2.412 tonnellate con un valore di oltre 83 miliardi. Oggi sarebbero circa 90 miliardi. Anziché venderlo, una parte di questo tesoro potrebbe diventare il capitale di base per un «Fondo Nazionale di Investimento» al fine di emettere credito a basso tasso di interesse e di lungo periodo per progetti e investimenti in infrastrutture leggere (ricerca, istruzione) e pesanti (trasporti, acqua, smaltimento rifiuti), di modernizzazione industriale e tecnologica e per sviluppare, senza guasti ambientali, seri interventi nell'energia pulita.

    Come nella parabola dei talenti, l'oro sarebbe messo a frutto. Creerebbe attività produttive, ricchezza, lavoro ed entrate fiscali per lo Stato che potrà utilizzarle anche per abbattere il debito.

    In quest'ottica la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe essere riformata e orientata per mettere a frutto la «grande riserva di risparmi» dei cittadini italiani. Ci sono ben 210 miliardi provenienti dalla raccolta postale. Una piccola parte è già destinata al sostegno della Pmi e al finanziamento delle opere pubbliche degli enti locali. Il resto sta a garanzia dei conti dello Stato per situazioni di emergenza.

    Si potrebbe mettere a frutto una parte di esso, non per abbattere di un 1-2% il debito pubblico del paese, ma per creare uno specifico Fondo equity (20-30 miliardi di euro) destinato agli investimenti per le infrastrutture e lo sviluppo in grado di sollecitare anche la partecipazione dei privati.