5.26.2014

E le banche fanno festa

In arrivo il Quantitative Easing europeo.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

In Europa è in arrivo il Quantitative Easing (QE). In ogni occasione internazionale il governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ripete che “siamo determinati a mantenere un alto grado di ‘monetary accomodation’ e di agire con risolutezza qualora fosse necessario”. Ciò significa il mantenimento del tasso di interesse al livello attuale, o addirittura più basso, per un prolungato lasso di tempo, con l’aggiunta di un QE “alla europea”.

L’urgenza di un intervento non convenzionale, secondo la Bce, sarebbe dettata dalla debilitante stagnazione economica e dal rischio di deflazione. C’è infatti la possibilità che il tasso di inflazione diventi negativo per effetto della caduta dei prezzi e della domanda interna.

Negli Usa la Fed nel 2012 iniziò ad inondare i mercati con una liquidità aggiuntiva di ben 85 miliardi di dollari ogni mese, che adesso è stata ridotta a 55, con effetti limitati per l’economia statunitense ma destabilizzanti per il resto del mondo, in particolare per i Paesi emergenti.

La Fed acquistava, e acquista, titoli di stato e asset-backed security (abs). Questi sono in gran parte titoli cartolarizzati, cioè derivati finanziari il cui sottostante è costituito da altri titoli, in particolare da ipoteche.

Secondo il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, la Bce avrebbe già fatto delle simulazioni per studiare l’effetto di un QE, pari a 1.000 miliardi di euro, sia su investimenti e consumi che sul tasso d’inflazione in Europa.

In Europa la stragrande maggioranza del credito passa attraverso i canali bancari. Negli Usa invece esso passa attraverso il mercato dei capitali e le borse. Perciò mentre in America il credito arriva direttamente ai settori dell’economia reale attraverso i mercati dei capitali, in Europa esso dipende dallo stato di salute del sistema bancario.

La Bce, stante le attuali regole, non può acquistare titoli di stato. Perciò essa “intende pilotare” il suo QE verso l’acquisto di abs emessi dalla banche europee che cartolarizzano i prestiti concessi e le ipoteche accese in particolare nei confronti delle Pmi.

Draghi, consapevole del fatto che sono stati proprio i derivati come gli abs a scatenare negli Usa e nel resto del mondo la più devastante crisi finanziaria ed economica della storia, sta facendo opera di convinzione sulla qualità degli abs europei.

Secondo noi la vera questione è un'altra. Perché si è obbligati a passare soltanto dal sistema bancario per dare il credito alle attività produttive? Non ci sono altre alternative?

Il sistema bancario ha indubbiamente un ruolo importante nei processi economici, solo quando funziona bene, però. Ma le grandi banche sono state, e lo sono tuttora, al centro della finanza speculativa e di altre distorsioni sistemiche.

Le riforme necessarie, quali la separazione bancaria, il prosciugamento della palude dei derivati Otc, l’attacco alle speculazioni, ecc., non sono mai state attuate. Perciò i maggiori controlli e l’aumento della quota del capitale di base previsti da Basilea III speriamo non siano dei meri palliativi.

Si tenga conto che anche con l’operazione LTRO, il piano di rifinanziamento a lungo termine effettuato dalla Bce, sono stati concessi 1.000 miliardi di euro di prestiti alle banche europee al tasso dello 0,5% che, anziché essere erogati come credito alle Pmi, sono stati utilizzati per acquistare titoli di stato in scadenza e sono rimasti parcheggiati presso la stessa Bce. In sintesi non si è lontani dal vero se si afferma che in 3 anni le banche beneficeranno di circa 100 miliardi di profitti!

Tutto ciò ci porta a concludere che occorre considerare la Bce non come un “vitello d’oro” dove tutto è già definito ed immutabile. Invece che sulle proposte di Draghi di sviluppare il mercato degli abs, perché non lavorare per identificare nuovi strumenti e istituti che, bypassando l’attuale sistema bancario, che deve ancora fare “ i suoi compiti a casa”, assicurino alle Pmi e alle famiglie direttamente il credito? Perché invece degli abs, non si privilegiano i project bond? Perché invece del sistema bancario privato non si utilizzano, ad esempio, le banche di sviluppo, quali gli sportelli delle Casse Depositi e Prestiti europee?

Siamo convinti che il credito sarebbe più veloce e più efficace con beneficio dell’intera economia.

 

5.15.2014

Stimoli monetari o riforme di sistema?

Senza presunzione riteniamo che la Bce di Draghi dovrebbe considerare con grande attenzione quanto segue anziché limitarsi a imitare le politiche monetarie della Fed.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

“Sono passati più di 5 anni dall’esplosione della crisi finanziaria globale, ma l’economia globale sta ancora lottando per superare la debolezza cronica del dopo crisi”. Una debolezza che si manifesta in tanti modi: trend deludenti della produzione e della produttività; disoccupazione oltre ai livelli pre-crisi; rischi di deflazione; crescita del 30% del debito privato dei settori non finanziari rispetto al Pil; un settore finanziario ancora in riassestamento; i mercati finanziari in crescita e sempre più dipendenti dalle banche centrali; deficit di bilancio crescenti mentre scendono gli introiti fiscali; una politica monetaria che ha raggiunto i suoi limiti.

Forse è sorprendente, ma tale disanima è di Jaime Caruana, il direttore generale della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, e non di qualche economista o politico “pessimista” in cerca di sensazioni forti. Questa analisi è condivisa da molti esperti e da istituti economici internazionali che dibattono sull’efficacia della politica monetaria a sostegno della ripresa economica finora applicata in Occidente.

Di fatto si stanno scontrando due diagnosi contrapposte. Una si basa sulla caduta della domanda (shortfall of demand), l’altra invece sulla recessione provocata dalla crisi dei bilanci (balance sheet recession) dei vari attori economici.

Nel primo caso, caratterizzato da choc provocati da una domanda negativa, a sua volta alimentata dai meccanismi interni di riduzione del debito e dal credit crunch, la risposta dovrebbe concentrarsi in azioni di stimolo soprattutto monetario all’economia. In tal caso le politiche monetarie accomodanti sarebbero essenziali, anche se potrebbero diventare contro produttive, se protratte nel tempo.

Nel secondo caso invece si privilegiano le riforme strutturali e la ristrutturazione dei bilanci dissetatati dall’incontrollato boom finanziario favorito dal laissez faire pre-crisi. Si sostiene che la crisi non sarebbe un effetto esogeno bensì l’inevitabile collasso di una bolla finanziaria e speculativa insostenibile. Perciò si dovrebbe anzitutto ripulire i bilanci dai debiti e dai titoli inesigibili. I settori finanziari e anche le borse dovrebbero perciò essere sgonfiati perché l’economia possa riprendere a crescere.

Tutto ciò è necessario affinché il credito già anemico non venga assorbito dai cicli meramente finanziari invece di arrivare a quelli produttivi. In simili situazioni di recessione, più che l’ammontare del credito, è decisamente più importante la sua destinazione.

Il secondo approccio conferma con dati alla mano che le crisi bancarie sistemiche si accompagnano con cadute permanenti delle produzioni. Per cui i rimedi presuppongono la riduzione delle posizioni debitorie e la realizzazione delle riforme strutturali del sistema per far si che gli stimoli economici siano mirati al sostegno di nuovi investimenti e di posti di lavoro.

Recentemente lo stesso FMI ha dovuto prendere atto che le misure di stimolo del quantitative easing non hanno generato un aumento degli investimenti produttivi. Al contrario, dal 2008 al 2013 nei Paesi cosiddetti avanzati vi è stata una riduzione del 2,5% del rapporto tra investimenti e Pil. Il Fondo teme che in molti di questi Paesi un ritorno ai livelli pre-crisi non si vedrà per almeno un quinquennio, tanto che parla addirittura di “stagnazione secolare” soprattutto se “nuovi choc dovessero colpire queste economie o se le politiche non dovessero affrontare come dovuto le cause della crisi”.

Persino nel Federal Reserve System americano crescono i dubbi sull’efficacia delle politiche finora attuate. Uno studio della Fed di Saint Louis, per esempio, è arrivato addirittura a confrontare le politiche dei Paesi occidentali con quelle realizzate dalla Cina. Le conclusioni sono davvero sorprendenti: lo stimolo monetario delle economie avanzate avrebbe fallito l’obiettivo mentre la politica cinese, basata su misure fiscali e sul credito per lo sviluppo, ha prodotto dei risultati positivi.

 

5.08.2014

Grande prova di democrazia

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

Nel giorno di apertura del congresso nazionale della Cgil Susanna Camusso analizza il percorso compiuto fino all'assise di Rimini. Oltre 200mila interventi di delegati e delegate nelle assemblee. L'Italia è un Paese “regredito, ma che prova a difendersi".

Intervista a Susanna Camusso

A cura di Guido Iocca

“Una straordinaria prova democratica. Un esito che fa piazza pulita di tutti i timori con cui avevamo affrontato il congresso. Penso in particolare alla preoccupazione che le nostre assise venissero accolte come altro rispetto alle priorità dei lavoratori e dei pensionati, delle donne e degli uomini che rappresentiamo. E invece non è stato così”. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, fa con Rassegna un bilancio di quanto emerso dall’intero percorso congressuale, analizzando anche i principali temi che sono stati al centro del dibattito tra i delegati. “Ritengo che aver svolto più assemblee rispetto al congresso precedente – prosegue la numero uno di corso d’Italia – sia un risultato importantissimo, dovuto in particolare alla generosità dei nostri delegati, delle leghe dei pensionati e dei nostri militanti. Un risultato alla vigilia quasi impensabile, se si considera che per alcune categorie il suo raggiungimento ha significato moltiplicare gli sforzi, perché nel frattempo si era frantumato il ciclo produttivo e si erano esternalizzate le attività”.

Siamo in grado di quantificare la portata di questa partecipazione?

Camusso Un dirigente della Cgil ha fatto una stima dell’insieme degli interventi che si sono succeduti – lungo l’articolato iter congressuale – a opera dei nostri delegati, quantificandoli in più di 200.000. Tutte persone che hanno preso la parola nelle assemblee nei luoghi di lavoro e nelle assise successive. Credo si tratti, oltre che di un’importante prova di democrazia, della conferma che nel nostro paese c’è ancora una grande voglia di partecipazione, di discussione e di confronto, che spesso non trovano i luoghi per essere esercitati. Per quanto ci riguarda, è il segno incontrovertibile di una grande vitalità dell’organizzazione. Un radicamento profondo che tuttavia non deve impedirci di analizzare, sul piano meramente quantitativo, ogni aspetto che concerne la partecipazione.

A cosa ti riferisci?

Camusso Al fatto che se uno si sofferma esclusivamente sui numeri, risulta evidente uno scarto tra il dato che riguarda gli iscritti all’organizzazione e quello relativo a chi ha partecipato alle assemblee. Quello di come colmare tale gap è un problema che ci dobbiamo porre, e ci poniamo, ogni volta in occasione dei nostri congressi. Perché una cosa è valutare positivamente quanto si è fatto e un’altra dare per scontato che non si possa realizzare di più e meglio.

A parte il dato della partecipazione, che congresso è stato?
Camusso Abbiamo visto e vissuto un congresso anche molto diverso dalla rappresentazione che ne è stata fatta: un congresso che poco ha discusso degli orientamenti e delle opinioni dei singoli dirigenti e molto invece dei temi che maggiormente stanno a cuore ai nostri iscritti, facendo riferimento per un lato ai documenti elaborati e proposti e per un altro facendo emergere le inquietudini che attraversano il mondo del lavoro e dei pensionati.

Un congresso aperto e di ascolto, volto a favorire una discussione vera, per emendamenti, costruita sui contributi dei lavoratori e delle lavoratrici, così come dei pensionati e dei giovani precari. Questa, nelle intenzioni del suo gruppo dirigente, la cifra del XVII congresso della Cgil. Ha funzionato la sperimentazione?
Camusso Ha funzionato in parte. Come sempre succede con le sperimentazioni, ci si deve confrontare con comportamenti differenti l’uno dall’altro. Non c’è dubbio che una parte delle assemblee non si è misurata con lo strumento innovativo degli emendamenti, vissuti più come una componente del dibattito interno al gruppo dirigente che come una vera interlocuzione, alla portata di tutti. È anche vero tuttavia che se guardiamo a oggi, al dato complessivo, le proposte provenienti da gruppi di lavoratori e di delegati sono state numerose. La novità insomma è stata, tutto sommato, compresa. Certo con modalità e sensibilità diverse, ma non possiamo neanche affermare che il dibattito congressuale sia rimasto confinato nell’ambito dei documenti messi a punto a livello nazionale. Tutte le proposte vanno guardate naturalmente con attenzione e nel rispetto della loro articolazione: in alcuni casi si tratta di rivendicazioni proprie di un territorio, in altri si rilanciano grandi questioni di portata generale.

Doveva essere, dopo le dure contrapposizioni degli anni passati, un congresso con un’impostazione sostanzialmente unitaria. Cosa non è andato?

Camusso Il congresso era partito in un modo, ma si è rapidamente trasformato in qualcos’altro e questo è successo, prima ancora che per il Testo unico sulla rappresentanza, quando si sono cominciati a produrre i materiali congressuali e si è fatta largo in una parte della Cgil l'idea che gli emendamenti non fossero parte della discussione, ma essi stessi alternativi, tali da mutare lo stesso titolo del congresso. Un errore grave. Se poi ci vogliamo limitare ai fatti, dobbiamo osservare che l’argomento Testo unico non è stato granché discusso nelle assemblee; è stata materia di confronto di una parte dei dirigenti di alcune categorie, ma non sicuramente al centro del dibattito delle assemblee di base e degli altri congressi. Dopo di che, mi sembra giusto sottolineare che, nonostante il travaglio che in parte c’è stato, alla fine abbiamo condotto un’ampia consultazione degli iscritti. E nel momento in cui si chiude la consultazione, il tema diventa come ci attrezziamo a gestire l’accordo, come lo traduciamo nei contratti nazionali, come recuperiamo l'elemento di coordinamento delle categorie, come proviamo a renderlo anche migliore.

Da un congresso all’altro. Abbiamo deciso di titolare così questo speciale di Rassegna, che – avvalendosi del contributo di studiosi, docenti ed economisti – si interroga sui cambiamenti intercorsi nel paese in questi ultimi quattro anni. La stessa domanda la rivolgo a te: quanto è cambiata l’Italia e quanto la Cgil dal maggio del 2010?

Camusso Il paese è cambiato moltissimo, com’era inevitabile, avendo avuto quattro anni di recessione, di politiche di austerità, di tagli, di crescente disoccupazione, di progressiva esclusione dei giovani dal mercato del lavoro, con il riproporsi di nuovi fenomeni migratori in entrata e in uscita. Dal 2010 l’Italia si è impoverita. Si è impoverita anche quella parte del paese che ha un lavoro o una pensione, e l'impoverimento porta con sé il cambiamento delle abitudini. Un paese meno ricco della stessa idea di istruzione e di cultura, che ha rinsecchito le sue radici e le sue speranze. Allo stesso tempo, però, è un paese che ha resistito. Una delle contraddizioni che, per fortuna, abbiamo vissuto in questi anni è stata quella di essere contemporaneamente in una stagione di divisione del sindacato e di sottoscrizione di migliaia di accordi aziendali unitari finalizzati a contrastare la crisi, a ridefinire un processo, a salvaguardare l'occupazione, a difendere il suo insediamento industriale. Il bilancio è dunque quello di un paese che è sicuramente regredito, ma che ha provato a tenere aperta una prospettiva, a difendersi, tant’è che oggi mostra questa ansia di cambiamento, addirittura gettando a volte il cuore oltre l'ostacolo.

Quanto alla Cgil?

Camusso È ovvio che un’organizzazione sindacale come la nostra si misura con tutte le difficoltà che sta attraversando il paese, con l'esclusione di tanti uomini e donne dal mercato del lavoro, con una precarietà che è cresciuta e che rischia ancora di crescere. Nessuno di noi si è fatto travolgere dall'idea, oggi tanto in voga, che ormai non c'è più bisogno del sindacato. Al contrario: proprio nei congressi che si sono svolti in tutta Italia abbiamo registrato un grande bisogno di sindacato. A riprova di ciò, ci sono i numeri, che dicono che anche durante la crisi abbiamo sindacalizzato. Ma penso anche all’enorme e difficile lavoro che hanno fatto – e che continuano a fare – i nostri servizi, alle prese quotidianamente con migliaia di persone, assai spesso in difficoltà. Se c'è invece un difetto evidente, che dal congresso scorso a oggi non siamo riusciti a correggere, è l’eccessivo irrigidimento dell’organizzazione. Abbiamo dato, ed era giusto e necessario farlo, una veste organizzata alle nostre pluralità interne, le quali si sono però progressivamente trasformate da dialettica plurale in arroccamento delle posizioni. Allora, forse, in questo congresso si doveva affrontare un tema che né le scorse assise e nemmeno l’ultima conferenza di organizzazione è riuscita ad affrontare fino in fondo: se si vuole – e si deve – rafforzare la nostra democrazia interna va fatto innanzitutto dal basso, alimentando, favorendo e costruendo le condizioni per cui la partecipazione dei delegati, così come la loro presenza nel dibattito e nelle decisioni dell’organizzazione, sia molto più ampia. Ho usato nel mio intervento al recente congresso della Fiom la definizione della Cgil come “casa comune”, in contrapposizione a quella di “condominio”. Alla fine del congresso sono sempre più convinta che una delle principali questioni che dobbiamo affrontare sia proprio questa: se vogliamo rafforzare la nostra democrazia dobbiamo tornare a essere una casa comune e non tanti spazi diversi che tendono a sommarsi. La casa produce sintesi, il condominio litigiosità. La Cgil deve perciò essere quel luogo in cui tutti si sentono a casa e in cui tutti contribuiscono a farla crescere.