5.11.2020

AGENZIE DI RATING, MERCATI E STABILITÀ FINANZIARIA

 Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco nel meeting di primavera del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, tenutosi per via telematica, ha affermato che senza liquidità e sostegno alle imprese, alle famiglie e ai lavoratori, il mondo rischia un default di massa. Non solo l'Italia, quindi. E ha aggiunto che "poiché la crisi è globale, la risposta deve essere globale". È necessario, perciò, preservare la "funzionalità dei mercati finanziari e la stabilità del sistema finanziario".

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Non è la prima volta che le istituzioni italiane e i loro massimi rappresentanti si distinguono per chiarezza e lungimiranza in contesti e incontri internazionali. La puntualizzazione sull'aspetto finanziario merita, però, qualche riflessione aggiuntiva. Non per sminuire la gravità della situazione economica italiana, ma per meglio contestualizzarla nella ben più complessa e difficile situazione globale. 

    Per prima cosa intendiamo evidenziare l'importanza e le rilevanti ripercussioni della decisione della Banca centrale europea di "mettere fuori gioco" le agenzie di rating. Fino a qualche giorno prima, la Bce, sulla base di un singolare regolamento, accettava in garanzia da parte degli Stati membri soltanto titoli e obbligazioni con la pagella della tripla A fornita dalle agenzie di rating. Oggi la Bce si è "liberata" da questo obbligo e intende acquistare qualsiasi titolo pubblico, anche quelli sotto il rating "BBB-", cioè 'junk', i cosiddetti titoli spazzatura. La mossa ha, tra l'altro, neutralizzato le solite superficiali valutazioni di rating nei confronti dell'Italia e di altri Paesi. Rating che solitamente abbassano la fiducia nei titoli dei debiti pubblici e che fanno aumentare i tassi di interesse da pagare. Ci auguriamo che questa decisione della Bce non valga solo fino a settembre 2021 ma che sia definitiva e che metta dette agenzie fuori dalla porta. 

    Si tenga presente che le tre sorelle del rating, Standard&Poor's, Moody's e Fitch, da anni non hanno più voce in capitolo negli Usa. Non si permettono più di esternare valutazioni critiche sui titoli di stato americani. Già ci fu un sonoro ceffone da Obama, adesso Trump sicuramente le "deporterebbe su un'isola deserta", se osassero commentare negativamente l'andamento dell'economia americana. In Italia e in Europa, purtroppo, sono ancora le benvenute.

    Forse è sfuggito agli autorevoli commentatori italiani il film-documentario "Inside Job" recentemente trasmesso nel programma "Atlantide" de La7. Esso evidenzia in modo efficace le storture finanziarie sistemiche, le perversioni della speculazione, il ruolo dei derivati e l'interessata complicità delle agenzie di rating nel provocare la Grande Crisi del 2008. Il documentario è basato sui dati raccolti dalla Commissione del Senato americano: "Wall Street and the financial crisis: Anatomy of a financial collapse". Fonte, tra le più autorevoli, spesso citata nei nostri articoli. 

    Un'altra riflessione merita di essere fatta sul ruolo presente e futuro del mercato. Si pensi al petrolio e ai suoi andamenti di borsa. Nei giorni passati si è assistito, attoniti e in silenzio, a un fatto storico gravissimo e senza precedenti: i contratti future sul petrolio venduti a un prezzo negativo! Il che significa che chi vendeva petrolio ha dovuto pagare per farlo comprare. Il petrolio pompato sarebbe stato così tanto che, sia per gli altissimi costi di stoccaggio sia per la mancanza di spazio per conservarlo, le compagnie petrolifere hanno o avrebbero dovuto pagare i loro clienti per prenderlo. Pura pazzia. Frutto di speculazioni finanziarie e di irresponsabili "giochi geopolitici globali" in un momento economicamente già molto pericoloso. 

    Occorre sapere che la stragrande maggioranza dei contratti future sono solo virtuali e speculativi, non prevedono cioè alcuna vera compravendita di greggio o di altre materie prime o di generi alimentari e, quindi, nessun loro passaggio fisico dal venditore al compratore. È evidente che non c'è alcun vantaggio per l'economia e neanche per la formazione del cosiddetto giusto prezzo di mercato. 

    La crisi odierna, per fortuna, sta facendo apprezzare il ruolo dell'economia reale e dello Stato. Non servono perciò straordinarie e complicate regole. Basterebbe imporne una: chi va sul mercato per qualsiasi business deve impegnarsi a portarlo a termine fisicamente. I veri operatori si comportano così. Per scoraggiare gli altri, cioè coloro che, invece, intendono soltanto lucrare sulla differenza di prezzo, dovrebbe essere loro imposto un significativo deposito di garanzia. 

    Lo stesso, ovviamente, dovrebbe essere fatto per tutte le operazioni finanziarie allo scoperto. Per esempio, vendere virtualmente un titolo qualsiasi per poi ricomprarlo a una certa scadenza, o viceversa. La finanza speculativa ha sempre giustificato simili operazioni come il toccasana dell'equilibrio di mercato. Non è così. La pandemia e il conseguente lockdown produttivo ci hanno insegnato empiricamente che contano le produzioni, i beni, e non le speculazioni. Queste ultime, così come i derivati otc, si basano anche su un'elevata leva finanziaria, cioè quel sistema che può generare enormi masse finanziarie sulla base di un piccolo capitale realmente a disposizione. In alcuni paesi europei, compresa l'Italia, tali operazioni allo scoperto sono state bandite per 3 mesi. A nostro avviso dovrebbe essere una misura definitiva da parte della Consob.

    Da alcune settimane continuiamo ad assistere a evoluzioni delle borse così forti da far apparire come delle semplici altalene per bambini anche le più spericolate montagne russe. Non sorprende affatto che il mondo della finanza appaia indifferente. Ma è più che mai inaccettabile che le autorità politiche e quelle di controllo restino, impotenti o incompetenti, alla finestra. Sembra che in diversi paesi sia stato richiesto l'intervento delle autorità competenti. La Consob avrebbe voluto farlo ma ha scoperto di non averne il potere. 

    Riteniamo che l'emergenza pandemia ci insegni che l'interesse collettivo viene prima dell'interesse di parte. 

    Come ha affermato recentemente anche il direttore del Fondo monetario internazionale, la signora Kristalina Georgieva, i governi a livello mondiale si sono finora responsabilmente impegnati a sostenere le economie minate dal corona virus con circa 8.000 miliardi di dollari e le banche centrali sono disposte a fornire "liquidità illimitata". 

    Di fronte a questo straordinario impegno pubblico e a questa assunzione di responsabilità collettiva e condivisa non possiamo non chiederci perché ancora non si riformino i mercati e non si blocchino le speculazioni.


4.18.2019

Prospettive economiche italiane per il 2020

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

 

Nelle condizioni attuali, prospettare una “flat tax”, anche

solo in forma parziale, appare davvero da irresponsabili.

 

di Franco Cavallari 

 

La maggior parte degli osservatori economici concorda nel considerare le prospettive per il 2020 particolarmente problematiche; e da qualche settimana, anche i proclami del Governo in carica sulle magnifiche sorti di quest’anno e dell’anno venturo stanno lasciando il posto a qualche preoccupazione sul modo di affrontare l’aggiustamento dei conti pubblici. Il DEF di primavera relativo al bilancio 2019, necessariamente generico, non ha dato alcuna precisa indicazione su come la maggioranza intende correggere lo schema macroeconomico per il 2020 proposto a fine 2018.

    Gli obiettivi economici stabiliti in quella sede dopo lunga e penosa trattativa con l’UE prevedevano per il 2019 una crescita dell’1% ed un disavanzo del 2,04% del PIL; ma il loro conseguimento è ormai tramontato per lasciare il posto ad un più realistico tasso di crescita dello 0,2% ed un debito pubblico dell’ordine del 2,6-3,2% rispetto al PIL. Se il Governo dovesse sopravvivere al responso delle elezioni europee, com’è molto probabile, non è escluso che le intenzioni della maggioranza relativamente al complesso di una eventuale manovra correttiva intervengano in piena estate. Sarà quello, comunque, il momento in cui potrà iniziare un’attenta riflessione pubblica non solo con riferimento alla claudicante realtà economica dell’anno in corso, ma anche e soprattutto sulle prospettive per l’anno prossimo venturo.

    I parametri economici che si prospettano per il 2020 e che costituiranno la base per la formazione del bilancio lasciano emergere ombre molto più inquietanti di quanto non appaia in superficie. Come accennato, la Legge di bilancio per il 2019 confrontata con la realtà in essere presenta non poche criticità; accettata come appena sufficiente dalla Commissione dell’UE (che già allora prevedeva una crescita per il 2019 dello 0,2%) rappresentava una via di fuga per il Governo italiano, invischiato in una impasse che rischiava lo scontro frontale tra lo Stato italiano e le istituzioni comunitarie.

    Rispetto ai non ben calibrati parametri inseriti nel bilancio 2019, le nuove poste per il 2020 da inserire nella nuova Legge di bilancio dovranno fotografare un contesto in cui la crescita economica volge alla stagnazione, se non alla recessione. In primo luogo sarà necessario dare un riscontro all’esigenza di neutralizzare le clausole di salvaguardia che ammontano per il 2020 a ben 24 Mrd e che incombono sulla prospettiva di un pericoloso aumento dell’IVA. Come per il passato, una buona metà, circa 12 Mrd, potrà essere rinviata all’anno successivo, già carico per conto suo di clausole per 27 Mrd). Ci saranno poi da reperire i 18 Mrd di privatizzazioni inserite anche nel bilancio 2020 fin dai quadri prospettici delle finanziarie degli anni passati; tenuto conto delle rigidità e della lentezza già riscontrate in passato per questo tipo di operazioni. appare molto improbabile possano essere realizzate se non in misura minima, forse il 10%. Ci sono ancora altri 5-6 Mrd per i pensionamenti aggiuntivi (quelli del 2020) della “Quota 100”; infine lo stanziamento supplementare di circa 2 Mrd per il reddito di cittadinanza, il cui stanziamento nel 2019 si riferiva soltanto a otto mesi.

    Il totale di queste poste aggiuntive rispetto al bilancio 2019 ammonta a circa 62 Mrd per i quali sarà necessario trovare una fonte di finanziamento. Per il momento, stando alle dichiarazioni del Vice Presidente Salvini, le relative risorse dovrebbero provenire dalla crescita sperata; che però, per il 2020 è stimata dal Governo stesso intorno allo 0,8%, vale a dire non più di 14 Mrd. Su questo surplus di risorse provenienti dalla maggiore crescita, le entrate pubbliche, al tasso del 46% della pressione fiscale, risulterebbero intorno ai 6-7 Mrd. Mancherebbero all’appello più di 50Mrd, senza considerare le non poche perplessità sulla possibilità che il sistema realizzi lo 0,8% di crescita previsto.

    Intanto, a lato delle incongruenze descritte, registriamo che il quadro di riferimento degli scambi internazionali non accenna a migliorare, anche se non è priva di significato la circostanza che nei primi mesi di quest’anno, malgrado il rallentamento del commercio mondiale, la variazione positiva delle esportazioni risulta lievemente maggiore rispetto all’anno precedente. Se è vero che in questi ultimi mesi, la tensione commerciale tra Cina e USA sembra essersi attenuata, è pur vero che si prevede per il commercio globale un lungo periodo caratterizzato da tensioni protezionistiche non trascurabili. Prospettive di rallentamento degli scambi internazionali emergono anche dal DEF di pochi giorni fa, ove lo stesso Ministero dell’Economia stima nel prossimo triennio in leggera contrazione le quote di mercato delle nostre esportazioni.

    La sfavorevole congiuntura economica internazionale che si prospetta per il 2020 è testimoniata anche dalle ultime decisioni della BCE, la quale, nell’ultima riunione del Comitato Direttivo, ha deciso di iniziare a partire dal prossimo mese di settembre un nuovo programma di operazioni di rifinanziamento a lungo termine volto a creare condizioni più favorevoli al credito bancario.

    Secondo il quadro macroeconomico del Governo, la congiuntura economica italiana, sostenuta prevalentemente dall’aumento dei trasferimenti alle famiglie, comincerebbe ad irrobustirsi già nella seconda parte di quest’anno e continuerebbe a crescere anche nel 2020; ma in senso contrario si esprimono, sia pur con toni diversi, il Fondo Monetario Internazionale e l’OECD, che prevedono per il 2019 una profonda stagnazione, se non addirittura la recessione e per l’anno prossimo una solo leggera ripresa. Questi enti internazionali considerano infatti che le misure del Governo a sostegno della domanda interna (il Reddito di cittadinanza e Quota 100) daranno, quest’anno come l’anno prossimo, un contributo alla crescita molto modesto. Al momento essi rilevano che l’accumulazione di capitale accusa condizioni di investimento molto sfavorevoli, essendo, peraltro, venuti meno gli incentivi, ad esempio l’iperammortamento, che hanno stimolato nel recente passato un’accumulazione di capitale di non trascurabile entità.

    Come le istituzioni internazionali, anche quasi tutti gli istituti di previsione italiani, evidenziano la mancanza di una politica di investimenti pubblici che, oltre ad alimentare la domanda, potrebbe migliorare il clima economico generale, suscitando gli investimenti privati, forieri di un rilancio dell’occupazione. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, un organo indipendente previsto da una Legge costi­tu­zionale per effettuare valutazioni economiche relative alla formazione del bilancio, ha effettuato una stima dell’effetto macroeconomico del Reddito di cittadinanza nel 2019, concludendo per un impatto sulla crescita molto limitato (0,2%).

    Indipendentemente dalle previsioni, il complesso dei dati macroeconomici di pro­spettiva appare fin d’ora talmente squilibrato che solo lo smisurato ottimismo del Governo riesce a vedere qualche spiraglio di miglioramento. In realtà, è indispen­sabile una netta inversione di rotta, vale a dire un bilancio pubblico per il 2020 capace di ricomporre in un contesto orientato allo sviluppo gli indispensabili sacrifici della spesa corrente con un serio programma di investimenti pubblici, entrambi necessari per riequilibrare il quadro finanziario. In caso contrario, le consuete schermaglie del prossimo autunno per la predisposizione della Legge fi­nan­ziaria diverranno il pericoloso innesco di una grande instabilità nel mercato dei capitali.

    Secondo molti centri di ricerca economica, l’ostacolo delle clausole di salvaguardia potrebbe essere affrontato con un aumento dell’IVA in misura ridotta: Due punti sulle aliquote più basse ed un punto e mezzo sull’aliquota del 22% darebbero un gettito vicino ai 12 Mrd, incidendo solo marginalmente sui prezzi (intorno a 0,50%). In questa ottica, un parziale aumento dell’IVA avrebbe un effetto depressivo sui consumi non eccessivo e potrebbe consentire, senza troppi traumi, di rinviare all’anno successivo le restanti clausole di salvaguardia per la differenza di 12 Mrd; resterebbero comunque da reperire circa 50 Mrd che, escudendo un aumento dell’imposizione, potranno solo in minima parte essere coperti con la “spending review”.

    In queste condizioni, prospettare la “flat tax” (una riforma rifiutata da tutti i paesi industrializzati, che ha trovato applicazione solo in paradisi fiscali, piccole isole e paesi dell’ex impero sovietico nell’est europeo), anche in forma parziale, sarebbe davvero da irresponsabili.

    Per quanto riguarda la formazione del bilancio per il 2020, in assenza di una manovra coraggiosa sugli squilibri descritti, non si vede come si possa evitare che il volano incontrollato della spesa corrente abbia un impatto devastante sullo “spread” tra i Btp e i Bund tedeschi. Senza una preliminare netta presa di posizione unanime del Governo per un aggiustamento accettabile dei conti pubblici, sarà inevitabile che in autunno, nelle more della trattativa sulla legge di bilancio, il surplus di interessi che il mercato dei capitali richiederà per finanziarie il nostro debito pubblico subisca un brusco aumento rispetto ai livelli attuali. E non è da escludere che si vada incontro a squilibri in grado di porre in serie difficoltà la stabilità economica del nostro Paese e, probabilmente, anche l’assetto dell’Unione Europea.

 

 


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Attivare fondi e progetti per la ripresa

 Non si può essere soddisfatti di riconoscere che l’economia italiana è fortemente peggiorata nei passati mesi, come ammette lo stesso Documento di economia e finanza (Def) appena presentato. Sarebbe, però, ancora più preoccupante se, di fronte a questa triste ed evidente realtà, il governo volesse continuare a “vivere sulle nuvole”, spargendo illusioni e promesse insostenibili.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Palazzo Chigi ha messo nero su bianco che per il 2019 l’aumento del pil dovrebbe passare dall’1% allo 0,2% e che di conseguenza il deficit di bilancio dovrebbe crescere dal 2,04% al 2,4%. Sono stime ancora troppo benevole che non tengono conto, purtroppo, degli effetti negativi a spirale che solitamente accompagnano la recessione economica.

    Di ciò siamo fortemente preoccupati, anche perché il confronto politico è soprattutto di natura ideologica ed elettorale e, a volte, anche di rivalsa. Riequilibrare il bilancio dello Stato richiede decisioni chiare e tempi medi poiché si basa sulla ripresa degli investimenti, della produzione, dell’innovazione e dell’occupazione nei settori dell’economia reale.

    Perciò, mantenere a tutti i costi le promesse fatte durante le campagne elettorali potrebbe sembrare positivo ma, in verità, non fa parte delle leggi che regolano il sano andamento e lo sviluppo dell’economia, sia nella teoria che nella prassi. Vale per tante iniziative, a cominciare dalla flat tax che ha fatto capolino nel Def. Per ora è una semplice enunciazione.

    Per serietà e credibilità, portare come esempio da seguire nel nostro paese il modello ungherese della flat tax, che sarebbe la ragione del buon andamento dell’economia di Budapest, è un errore.

    Per chiarezza è opportuno ricordare, invece, che la recente ripresa economica dell’Ungheria si basa su tre condizioni convergenti: a) il contributo a fondo perduto di ben 3,5 miliardi di euro annui da parte dell’Unione europea, b) l’intensa partecipazione economica e industriale della Germania verso i paesi dell’Europa centrale e c) il basso costo della mano d’opera ungherese, con una qualifica tecnologica mediamente elevata, che ha attirato notevoli investimenti. Tutte condizioni che in Italia non ci sono.

    Ovviamente, il documento del Def non contempla aumenti nella tassazione: sarebbe una clamorosa ammissione di totale fallimento. Per i prossimi mesi, però, il governo dovrà dimostrare come “bilanciare” l’aumento delle uscite con le minori entrate. Naturalmente, per il bene degli italiani ci si augura che lo sappiano fare. Ma è indubbio che dal prossimo gennaio possa scattare l’aumento delle aliquote Iva.

    A nostro avviso la priorità dovrebbe essere la ripresa degli investimenti pubblici in infrastrutture per l’effettiva apertura dei cantieri, a partire dal Mezzogiorno dove la situazione economica e occupazionale è a dir poco disperata. Secondo varie stime, oltre ai fondi recuperabili dall’enorme evasione fiscale, ci sarebbero 140 miliardi di euro già stanziati nei bilanci degli anni passati per svariati progetti.

    Attraverso un accordo già operativo con la Banca europea per gli investimenti essi potrebbero diventare subito spendibili. Il vero problema sono le lungaggini delle burocrazie statali, regionali e locali.

    Secondo l’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE) si tratterebbe, tra l’altro, di 60 miliardi del Fondo investimenti e sviluppo infrastrutturale, di 27 miliardi del Fondo sviluppo e coesione, di 15 miliardi di Fondi strutturali europei, ecc.

    Se si riuscisse a spendere in tempi ragionevolmente brevi i soldi in questione, sarebbe una leva per la ripresa economica. Si ricordi che l’Istat sostiene che ogni euro pubblico investito nelle infrastrutture possa generare una crescita di investimenti diretti e indiretti pari a 3-4 volte. 

    È il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), presso Palazzo Chigi, responsabile della gestione delle risorse sopra menzionate. Non ha svolto un’azione incisiva ed effettiva nei confronti degli enti e delle amministrazioni beneficiari dei progetti.

    Bisogna accelerare i processi decisionali, snellendo il codice degli appalti e affidando, contemporaneamente, alle autorità anti corruzione il compito di prevenire e colpire le infiltrazioni malavitose e le mazzette legate ai lavori pubblici.

    La situazione, nella sua complessità e urgenza, non può ancora essere lasciata alle lentezze burocratiche. Serve, invece, una chiara e netta assunzione di responsabilità da parte del governo e delle altre istituzioni. Il paese non può più aspettare.

 

 

 


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Qualche riflessione per cercare di uscire dalla crisi

L’economia è l’ambito dove si misurano le capacità di una classe dirigente di guidare un paese verso la ricchezza collettiva e verso la realizzazione compiuta dello stato sociale.

di Ennio Ghiandelli

Quando si parla di economia italiana non bisogna mai dimenticare alcuni dati fisici che sono una nostra caratteristica: scarsità di ricchezze naturali, soprattutto per quanto riguarda i minerali e i prodotti energetici; agricoltura che non brilla per efficienza anche per la tipologia del territorio; densità elevata della popolazione, nonostante il calo demografico di questi anni; orografia complessa che rende difficili le comunicazioni fra le diverse aeree del paese.

    Nonostante questi deficit l’Italia, nel secondo dopoguerra, affidandosi alla capacità manifatturiera delle sue maestranze alla sua classe dirigente sia politica che industriale, e ai rapporti esistenti fra industria pubblica e privata, riesce a portarsi nei primi posti mondiali in alcune industrie chiave: dall’industria informatica, a quella aeronautica, all’elettronica di consumo, alla chimica, all’auto e alle produzioni High-tech.

    Pian piano questo patrimonio si è dissolto, gli errori compiuti nella politica economica dall’inizio degli anni Novanta ad oggi stanno dando i loro frutti resi ancora più velenosi dall’insipienza dell’attuale governo.

    L’Italia soffre di una crisi di produttività, cioè il costo per un’unità di prodotto aumenta rispetto agli altri paesi. Questo fatto rende impossibile, senza interventi appropriati qualsiasi ipotesi di recupero. La possibilità che si divenga una colonia di qualche altra nazione, soprattutto se questa ci finanzia il disavanzo acquistando i titoli del debito pubblico, è reale. Siamo un paese dove, ai tempi della globalizzazione, il tessuto produttivo è costituito per la gran parte da piccole e medie industrie. Eccelliamo nella produzione di marmo, di minerali abrasivi, nella produzione di olio di oliva, vino e filati di lana, molto poco per un sistema produttivo globale dove l’innovazione è l’elemento trainante.

    Si è svenduto il patrimonio industriale dello stato, in nome di un liberismo che non è mai esistito; gli industriali, che pure nel corso di questi anni hanno ricevuto utili rilevanti, hanno preferito investire i profitti in operazioni finanziarie, all’apparenza, molto più redditizie che in investimenti industriali.

    La politica oltre che per le ragioni prima ricordate ha anche la responsabilità di aver fatto invecchiare in maniera significativa il patrimonio infrastrutturale nazionale e mai ha sviluppato politiche atte a mettere mettere in sicurezza un territorio fragile come il nostro, anzi la speculazione edilizia supportata da continue sanatorie ha aggravato il problema.

    Tutto questo avvenuto è con una rapida concentrazione di ricchezza in poche mani e con un’erosione dello stato sociale che ha portato ad un impoverimento delle classi meno abbienti. Tutte le politiche sociali che il primo centro sinistra aveva realizzato sono state o abolite o devitalizzate.

    A questo stato di cose si aggiunge una politica fiscale che ha punito i lavoratori a reddito fisso, rendendo possibile una continua evasione fiscale, senza avviare una seria attività dello Stato per contrastarla efficacemente producendo una elevata pressione fiscale

    In questo quadro si presenta drammatico lo stato del disavanzo pubblico, drammatico non solo perché non si vedono politiche per abbatterlo, anche se la spesa corrente italiana al netto degli interessi del debito è da anni inferiore alle entrate, ma per l’assenza di una politica economica capace di attivare un credibile percorso di recupero della produttività del sistema Italia.

    Sovente nel corso del dibattito in questo anno di governo giallo verde si sente imputare, da esponenti della maggioranza, che la colpa di questo stato di cose è da ascriversi al fatto che con l’adozione dell’euro l’Italia non è in grado di gestire una propria economia, quindi occorre uscire dalla moneta europea e poco male se ci cacciano anche dai trattati. Errore tragico.

    A questo stato di cose si può e si deve reagire. La prima cosa immediata da fare è recuperare gettito fiscale, non aumentando le tasse a che già le paga, ma colpendo senza pietà gli elusori e gli evasori. Questo comporta immediatamente un riequilibrio del bilancio. Ciò ci consente, da un lato di allentare la presa sugli interessi che l’Italia paga sul debito pubblico, dall’altro di fermare il saccheggio del welfare. Da queste basi ripartire con una politica di investimenti pubblici sia sulle infrastrutture che sull’aumento della produttività (R&S) sostituendo il privato assenteista. Fissati questi capisaldi si deve procedere ad una più equa distribuzione del reddito.

 

Da La Rivoluzione Democratica

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

 

 

 


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3.28.2019

Siamo il primo paese del G7 a sottomettersi alla Cina

FONDAZIONE NENNI

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Sul memorandum Italia-Cina occorre ricordare un punto cardine del diritto europeo, cioè che la politica commerciale è materia UE e che quindi ogni genere di atto che contraddica il diritto comunitario è da considerarsi nullo. Quindi, almeno in linea teorica, non ci dovrebbero essere pericoli di penetrazione eccessiva degli interessi cinesi in Italia (ringraziando l’UE). Il vero dramma di questa negoziazione è che l’Italia stia ponendo le basi per una sottomissione totale al colosso cinese, così come hanno già fatto Grecia e Ungheria.

 

di Federico Marcangeli

 

La strategia di Xi Jinping è molto chiara e punta a tagliare le distanze tra i suoi prodotti ed il secondo mercato mondiale: l’Europa. Nel 2016 questa strategia aveva portato all’acquisizione cinese del porto del Pireo (il più grande porto greco), da usare come grimaldello per l’ingresso in UE e per puntare sempre di più verso la sua egemonia globale. Non a caso la Grecia pose il veto sulla risoluzione ONU del Giugno 2017, che condannava la Cina per le innumerevoli violazioni dei diritti umani.

    Fatto questo primo passo, la necessità era quella di portare le merci nel cuore dell’Europa e l’Italia ha pensato bene di stendere un tappeto rosso, grazie a Ferrovie dello Stato ed alle autorità portuali di Genova e Trieste. I soggetti appena citati rientrano infatti nell’accordo quadro raggiunto e dovrebbero contribuire a portare più rapidamente le merci cinesi in Italia.

    Questa è solo una piccola parte del memorandum, perché sono 21 gli accordi in negoziazione con la Cina e, come è immaginabile, il coltello dalla parte del manico non è certo dell’Italia. Tali negoziati si inseriscono nella cosiddetta “Via della Seta”, progetto iniziato nel 2013 con 1000 miliardi di dollari cinesi investiti per migliorare i collegamenti del paese con il resto del mondo. Secondo Di Maio: “La Via della Seta si firmerà. È un memorandum che permetterà alle nostre imprese di esportare più Made in Italy nel mondo e quindi anche in Cina. E questa è una buona occasione per la nostra economia e le nostre aziende”.

    Peccato che la realtà dei fatti sia “un pò” diversa. La bilancia commerciale Italia-Cina pende infatti verso la seconda per circa 12 miliardi di dollari, nonostante i dazi presenti, che comunque hanno contribuito a ridurre il saldo negli ultimi anni. Con questo quadro, è difficile comprendere come l’ingresso nel progetto egemonico cinese possa giovare sul lungo periodo all’Italia.

    Ancor di più se consideriamo l’opacità dell’accordo che, secondo il Sottosegretario agli esteri Guglielmo Picchi, prevede “intercomunicabilità, energia e telecomunicazioni”, dei campi oggettivamente vaghi e dai confini non delineati. Questo aspetto di non trasparenza è stato già appurato per l’intero progetto “Via della seta”, grazie ad un memorandum firmato nell’aprile del 2018 da 27 dei 28 ambasciatori europei in Cina (poi ratificato dal parlamento europeo, anche con il voto dei 5Stelle), che denunciavano alcuni aspetti chiave:

 

·                 Indebitamento degli stati europei (e non solo) verso la banca di stato cinese, grazie a prestiti a tassi convenienti ma poco trasparenti.

·                 Quasi tutti gli appalti per le infrastrutture sono assegnati a società cinesi.

·                 Scalate da parte di imprese cinesi (controllate ovviamente dallo stato) di numerose società del settore bancario ed energetico.

·                 Ostacolo del libero scambio con stati non aderenti. Lascio a voi ulteriori valutazioni.

 


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