3.29.2016

Serve un audit sul debito per i paesi del Sud Europa

RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO

dal Granello di Sabbia


È urgente tornare a parlare di debito a partire da un'indagine pubblica. È necessario restituire trasparenza a un tema troppo

spesso caratterizzato dall'oscurità



di Francesca Coin



Vorrei tornare un istante al maggio 2015, nel pieno delle negoziazioni tra la Grecia e la Troika.

Dopo mesi di discussioni svoltesi sotto il segno del ricatto, la Grecia minacciava di non pagare le rate del prestito del Fmi perché non aveva i soldi per farlo; e i creditori facevano leva sulla linea di liquidità di emergenza (Ela) messa a disposizione dalla Bce per minacciare le banche elleniche.

In quei mesi, le cause del debito greco erano state dibattute dalla stampa internazionale in modo piuttosto semplice. La stampa aveva sostenuto con convinzione che la crisi del debito sovrano in Europa era responsabilità dei paesi periferici, "notoriamente" inclini a sperequare la spesa pubblica.

Nel cuore delle negoziazioni, la discussione era stata influenzata dal lavoro della Commissione per la Verità sul Debito Pubblico, istituita dal governo Tsipras per volontà della Presidente della Camera Zoe Kostantinopolou allo scopo di far luce sulle cause del debito greco.

All'interno di un discorso politico tutto incentrato sulla cronaca degli eventi, a metà giugno 2015 la Commissione di verità sul debito mette in evidenza le violazioni legali associate con la sua gestione. Diventa di dominio pubblico, in quei giorni, che il primo piano di salvataggio approvato il 2 maggio 2010 era nato in condizioni di illegittimità al fine di operare non tanto un piano di soccorso dello stato ellenico bensì un salvataggio delle istituzioni finanziarie esposte con la Grecia. In quelle settimane la Commissione di verità sul debito greco afferma che il debito greco è illegale, illegittimo e odioso. Non solo: costituisce una diretta violazione dei diritti umani dei residenti della Grecia.

Chi ricorda quanto avvenuto la scorsa estate, ricorda forse anche come il 2 luglio lo stesso Fondo Monetario Internazionale sia stato costretto a diffondere un documento del proprio ufficio ricerche nel quale si sottolineava la strutturale insostenibilità del debito greco, il deterioramento delle condizioni macroeconomiche nel paese, la necessità di ristrutturare il debito e di alleviare le politiche di austerità. Un testo piuttosto esotico, aveva commentato all'epoca Varoufakis: non si è mai visto che il Fondo si sia trovato d'accordo con l'analisi economica del paese che intendeva devastare.

Nonostante siamo tutti consapevoli di quali nefaste conseguenze abbia avuto la capitolazione di Tsipras pochi giorni dopo quel 2 luglio 2015, rimane innegabile come l'istituzione della Commissione di verità sul debito greco sia riuscita in quelle settimane a scardinare il discorso mainstream. Il debito non era più solo "colpa greca", bensì un affare ben più controverso, al punto che lo stesso FMI non poteva evitare di ammettere di avere qualche scheletro nell'armadio e numerose divisioni interne.

In generale, il discorso sul debito è sempre costruito attraverso la voce del creditore. È il creditore a usare il debito come leva per l'imposizione di politiche di austerità ed è il creditore a costruire una narrazione discorsiva fondata tutta sulla colpa del debitore. Il debito è anzitutto un soggetto la cui legittimità risiede in un rapporto di forza: è solo il rapporto di forza tra la Germania e la Grecia che impedisce alla Grecia di rivendicare, come sarebbe giusto, la riscossione dei debiti di guerra da parte della Germania.

È esattamente quella narrazione che la commissione sul debito è riuscita a rovesciare.

Ho trascorso molto tempo con alcuni membri della Commissione di verità sul debito greco. Una delle cose più interessanti che raccontano è come, nel lungo processo dal basso che ha portato alla sua istituzione, la proposta di una Commissione fosse mal vista da tutti. La sinistra radicale dice che l'audit (cioè l'indagine pubblica, ndr) è una iniziativa riformista, e la sinistra riformista dice che è troppo radicale. Forse precisamente per questa capacità di creare spazio tra divisioni improduttive, la Commissione sul Debito ha avuto una importanza centrale. Il punto è che lo scopo primo di un audit sul debito non è decidere cosa fare del debito, è colmare il gap informativo che impedisce alla popolazione di avere il controllo sulla trasparenza e la legittimità del debito e affermare la verità del debitore. È questo il primo passo verso l'auto-determinazione della politica sul debito, ovvero la scelta da parte dello stato di quale parte del debito pagare e se pagarla.

In questi mesi l'audit del debito è stato usato varie volte nei paesi del Sud Europa.

Dall'Auditoría Ciudadana de la Deuda istituita a livello cittadino in Spagna, alla Commissione di Verità sul Debito Pubblico in Grecia, la logica era rimettere il discorso sul debito nelle mani della popolazione. "Non ci si può aspettare che uno stato chiuda le sue scuole, le università e i tribunali, che lasci la sua comunità nel caos e nell'anarchia senza nessuna protezione pubblica e sociale semplicemente per avere a disposizione del denaro per ripagare i suoi creditori internazionali e nazionali", ha sostenuto la Commissione del diritto internazionale dell'ONU.

In Italia come in Grecia, nell'ultimo quarto di secolo il discorso sul debito si è presentato come una colpa causata dalla brutta abitudine che hanno i paesi del Mediterraneo di "vivere al di sopra delle proprie possibilità".

Su questo assunto si è fondata una politica di austerità e contenimento della spesa pubblica esercitata attraverso processi di privatizzazione, precarizzazione e taglio alla spesa sociale. Il problema è che, in Italia come in Grecia oppure in Spagna, l'elevato debito non dipende dalla spesa pubblica. L'Italia negli ultimi vent'anni ha avuto quasi sempre un avanzo primario al netto del pagamento degli interessi sul debito, in altre parole, una spesa pubblica regolarmente inferiore alle entrate. Nonostante ciò, tale politica virtuosa non ha condotto a una decisiva riduzione del debito, bensì alla sua crescita. Il debito dipende soprattutto dall'impatto della crisi dei mutui subprime nel 2007 sulla crisi del debito sovrano in Europa, dall'austerità e dagli squilibri intra-europei, che impongono al debito delle periferie di continuare a crescere parallelamente al surplus tedesco.

In questo contesto è urgente tornare a parlare di debito a partire precisamente dall'audit. È necessario restituire trasparenza a un tema troppo spesso caratterizzato dall'oscurità, come testimoniato di recente dalla pubblicazione del primo Rapporto sul debito pubblico in Italia, un testo indiscutibilmente utile che, tuttavia, genera più domande di quelle a cui offra risposta.

3.23.2016

Stato e mercato: una contrapposizione non obbligata

Il liberismo economico, l’ultima ideologia, invita a lasciare che sia solo il mercato a rilanciare la ripresa. Noi riteniamo che questa non sia la strada obbligata. Occorre un ‘different thinking’.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

La Banca Centrale Europea ha deciso di rilanciare alla grande il suo Quantitative easing nella speranza di far crescere l’inflazione al 2% e di far aumentare investimenti e crescita. Ha portato i tassi d'interesse a meno 0,4% per i depositi effettuati dalle banche presso la Bce. L’intento è quello di dissuaderle dal ‘parcheggiare i soldi’ nei forzieri di Francoforte invece di indirizzarli verso l’economia reale.

    Draghi ha annunciato anche nuovi crediti alle banche al tasso di meno 0,4%. per la durata di 4 anni In altre parole esse restituiranno meno di quanto hanno ottenuto. Si vuole portare inoltre da 60 a 80 miliardi di euro al mese l’ammontare per acquisti di obbligazioni pubbliche e private, suscitando in verità critiche per l’estensione ai bond societari.

    Di fatto s'intende continuare con la politica fallimentare finora attuata. Se ne aumenta le dimensioni e si continua a considerare il sistema bancario l’unico referente, ignorando che esso è più interessato a coprire i propri buchi di bilancio che a sostenere investimenti e imprese. I dati e i fatti degli anni passati sono rivelatori e inconfutabili. Nel nostro caso non si tratta di un’opposizione preconcetta. Ideologica semmai è la fede cieca negli automatismi monetari e finanziari. Si sostiene che i tassi d'interesse bassi e una liquidità crescente andrebbero automaticamente a finanziare gli investimenti.

    E’ lo stesso atteggiamento ideologico imposto dalle economie dominanti del G20, quella americana, quella europea e quella giapponese. A Shanghai è stata presa la decisione di fare crescere gli interventi nelle infrastrutture sia in termini quantitativi che qualitativi. Le Banche di Sviluppo regionali sono state perciò invitate a preparare progetti ambiziosi e di alta qualità anche per attrarre settori della finanza privata verso la concessione di prestiti di lungo termine. Al prossimo summit del G20 allo scopo dovrebbe essere creata una "alleanza globale di collegamento infrastrutturale".

    Gli intenti ci sembrano positivi anche se preoccupa la mancanza di attori capaci di realizzarli. Le banche centrali creano liquidità e si aspettano che “il mercato” la porti verso gli investimenti. Il G20 propone lo sviluppo infrastrutturale ma si aspetta che sia sempre “il mercato” a finanziarlo. Cosa succede se il ‘dio mercato’ non funziona secondo le aspettative, come è successo negli anni passati?

    Il liberismo economico, l’ultima ideologia ottocentesca rimasta in vita, e purtroppo tuttora egemone, invita a non intervenire, a lasciare che sia solo il mercato con le sue leggi a rilanciare la ripresa e a ristabilire un equilibrio virtuoso. Noi riteniamo che questa non sia la strada obbligata. Occorre un ‘different thinking’.

    Gli esempi storici più vicini e simili a quelli dell’attuale crisi globale ci indicano strade e prospettive differenti e alternative.

    Si pensi al New Deal del presidente americano F. D. Roosevelt quando, per uscire dalla Grande Depressione del 1929-33, lanciò il vasto programma di investimenti infrastrutturali e di modernizzazione tecnologica. Dopo avere messo sotto controllo e neutralizzato la finanza speculativa, egli favorì la creazione di nuove linee di credito e nuovi bond del Tesoro per finanziare importanti progetti, utilizzando anche il veicolo delle istituzioni bancarie statali. Di fatto si trattava di uno dei primi esperimenti riusciti di Partenariato Pubblico-Privato. Lo Stato era la guida, il finanziatore e la garanzia della continuità e della riuscita dei progetti mentre le imprese private, non solo quelle statali, erano impegnate nella loro realizzazione.

    Oggi invece, nonostante quasi 8 anni di vani tentativi per portare l’economia e la finanza globale fuori dalle sabbie mobili della recessione, la parola Stato resta uno dei grandi tabù. Non si tratta di proporre un ritorno allo statalismo pervasivo ma di trovare soluzioni razionali. Se il mercato da solo non basta occorre che la politica di sviluppo e di crescita sia guidata dagli Stati. Del resto la programmazione economica e la pianificazione territoriale spettano allo Stato.

    Nel mondo non c’è stata soltanto la pianificazione quinquennale dei Paesi comunisti, ma anche la ‘planification indicative’ di Charles De Gaulle e in Italia l’esperimento positivo dell’IRI nella ricostruzione del dopoguerra. In Francia l’economia dirigista, il piano di orientamento in lotta contro le inevitabili tendenze alla burocratizzazione, cercava di mettere insieme le varie componenti sociali ed economiche del Paese evitando che esse si neutralizzassero tra loro. Il Commissariat au Plan doveva definire le priorità nazionali e, attraverso i momenti della concertazione, della decisione e della realizzazione, lavorare per creare un’armonia di interessi superando certe derive corporative.

    Si pensi che negli stessi Stati Uniti, patria del liberismo economico imperante, certi settori delicati, come quello militare, sono ancora guidati dallo Stato ma con il contributo essenziale delle imprese private ad alta tecnologia.

    In un'economia sociale di mercato la collaborazione pubblico-privato dovrebbe essere una costante, un impegno per i governi e per gli stessi operatori privati.

 

3.17.2016

Tutti dicono: “Ministro unico”

Da CRITICA LIBERALE

riceviamo e volentieri pubblichiamo

  

Per qualche giorno su alcuni giornali italiani è stato in vigore un gioco tutto italiano del "tu sei d'accordo con il ministro del tesoro unico europeo?". E ovviamente la maggior parte delle persone che hanno partecipato al gioco ha risposto: "siiiii". 

 

di Giovanni La Torre

 

Si è trattato di un tipico atteggiamento italiano di trasformare tutto in sfoggio di dichiarazioni meramente verbali cui poi non segue nulla in concreto, perché alle parole non corrispondono quasi mai intenzioni reali, e meno ancora "fatti". 

    Ricordo che nel periodo più nero della crisi del debito italiano, nel 2011 con l'allegra coppia Berlusconi – Tremonti al timone dell'Italia e con quest'ultimo che invocava la ciambella degli eurobond per non affogare, il ministro delle finanze tedesco Schauble rilasciò un'intervista a un giornale italiano (mi pare fosse La Stampa) nella quale disse, fra l'altro, che lui e la Merkel avevano più volte e in più occasioni in riunioni ufficiali proposto una maggiore integrazione fra i paesi dell'eurozona con una ulteriore cessione di sovranità, al fine di pervenire a una gestione comune delle finanze pubbliche, ma che avevano incontrato molta freddezza, per non dire netto rifiuto. E allora? Di che cianciavano i ministri dell'epoca? 

    Ma di che cianciano anche i ministri di oggi, con Renzi e Padoan in testa. Questi a parole ovviamente si sono detti d'accordo con l'idea del ministro del tesoro unico, e lo hanno anche scritto nel position paper inviato a Bruxelles nei giorni scorsi, ma sono certo che in cuor loro tutto vogliono tranne che questo. Avere un ministro unico dell'eurozona vuol dire cedere la maggior parte del portafoglio nazionale, altrimenti è impossibile fare una politica comune. E cedere il portafoglio vuol dire cedere la sovranità negli indirizzi da dare alla spesa pubblica, nella gestione degli appalti pubblici, nella gestione delle entrate tributarie. Una volta compiuto quel passo chi avrebbe poi il coraggio di dire alle Coop, a Comunione e Liberazione, alle grandi ditte che vivono sugli appalti pubblici, tutti soggetti prosperanti in un sistema ad alta corruzione, e il cui maggiore know how è quello di sapersi districare nei meandri e nei vicoli del traffico delle tangenti, che le gare non verranno più gestite in modo compiacente dagli italiani, come fatto finora, ma da soggetti europei? Chi avrebbe il coraggio di dire a partitini come quello di Alfano e Lupi, che vivono solo in quanto attaccati alla mammella della spesa pubblica, che quella mammella non sarebbe più italiana? Chi andrebbe a dire agli evasori incalliti, finora lusingati e lisciati da tutti i partiti, di destra, di sinistra e di centro, che le tasse le devono pagare? Chi andrebbe a dire ai corrotti, che fin qui hanno sorretto questa classe politica inetta e corrotta essa stessa, che devono restituire i maltolto e scontare in galera il loro ladrocinio? Chi andrebbe a dire ai vari sedicenti banchieri, che in questi anni hanno truffato la fede pubblica e ancora lo fanno, che le loro colpe vanno scontate anche in carcere e non solo patrimonialmente (quando mai dovessero pagare, su cui pure ho seri dubbi). Chi andrebbe a dire ai vari falsificatori di bilancio e truffatori dei piccoli azionisti che le loro colpe vanno scontate in carcere, e non assolte con le prescrizioni? 

    Perché avere un ministro delle finanze unico europeo vuol dire proprio questo, fare una seria lotta alla corruzione, all'evasione fiscale, al capitalismo truffaldino all'italiana, malattie endemiche della politica e dell'economia italiana, contro le quali nessun partito, e meno che mai quello odierno di Renzi, ha mai combattuto seriamente o abbia intenzione di farlo. E io sono certo che la Germania sarebbe la prima a dire di sì a un ministro delle finanze unico, ma solo se fatto seriamente e non con la riserva mentale che tanto noi italiani siamo bravi a far fessi il prossimo, e quindi faremmo fesso anche il futuro ministro unico. Solo dopo aver messo insieme tutte le cose di cui si è detto si potrà parlare di messa in comune dei rischi e dei debiti, ma prima sarebbe la solita via di fuga che penalizzerebbe tutti, compresi i paesi "salvati". E sarebbe l'ennesima "furbata" italiana in cui però, è ora che ce ne rendiamo conto, ormai non ci casca più nessuno.  

 

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Shanghai G20: allarme crisi sistemica

Il summit dei ministri delle finanze e dei banchieri centrali del G20, recentemente tenutosi a Shanghai, ha dato un messaggio preoccupante sul futuro dell’economia e della finanza globale, riconoscendo apertamente che le politiche adottate dopo la grande crisi non stanno producendo i risultati desiderati.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

“La politica monetaria da sola non riesce a promuovere una crescita bilanciata”, è scritto nella dichiarazione finale del G20 recentemente tenutosi a Shanghai: “Al fine di rafforzare la crescita, l’occupazione e la fiducia” occorre un programma coordinato di stimoli attraverso “l’uso flessibile della politica fiscale”.

    Sono solo enunciazioni di buona volontà. Mancano azioni concordate e progetti reali di rilancio dell’economia. Nel contempo vi è una lunga lista di preoccupate dichiarazioni come “eccesso di volatilità, movimenti disordinati sui mercati dei cambi, pesante caduta nei prezzi delle commodity, accresciute tensioni geopolitiche, rischi di revisione al ribasso delle aspettative economiche globali”.

    Il dato è che l’altalena dei mercati, purtroppo, continua mentre i governi e le economie procedono in ordine sparso, ognuno per proprio conto e anche in aperta competizione sia sul fronte monetario che finanziario.

    Perciò è assai interessante il fatto che negli ultimi giorni alcuni dei maggiori attori economici, attivi durante la crisi del 2007-8, abbiano espresso pubblicamente i loro dubbi sulle attuali strategie economiche e finanziarie.

    Mervyn King, governatore della Bank of England nel periodo 2003-2013, ha recentemente affermato che “le maggiori banche dei più grandi centri finanziari del mondo avanzato hanno fallito, provocando un crollo generalizzato della fiducia e la più grave recessione dopo quella degli anni trenta. Come è successo? E’ stato il fallimento degli uomini, delle istituzioni o delle idee? Se non si comprendono le cause sottostanti alla crisi non capiremo mai quello che è successo e saremo incapaci di prevenire una sua ripetizione e di sostenere una vera ripresa delle nostre economie”.

    Persino Alan Greenspan, che per vent’anni ha governato la Federal Reserve fino alla vigilia della crisi, ha ammesso che la riforma finanziaria americana, conosciuta come la legge Dodd-Frank, ha fallito. “Avrebbe dovuto affrontare i problemi che avevano portato alla crisi del 2008, ma non lo sta facendo. Le banche ‘too big to fail’ erano la questione cruciale allora e lo sono anche adesso. Gli investimenti nei settori reali sono molto al di sotto della media perché l’incertezza sul futuro continua a dominare.” Purtroppo è così.

    Infatti molti indicatori dimostrano che la finanza sta pericolosamente operando con il vecchio schema del ‘business as usual’. Ad esempio, un recente studio del Credit Suisse prova che il mercato globale del ‘leveraged finance’, dopo la contrazione registratasi a seguito della crisi, è ritornato ai suoi massimi livelli. Il ‘leveraged finance’ comporta l’accensione di prestiti sulla base di un capitale minimo dato in garanzia (la famosa leva del debito) per acquistare titoli, soprattutto prodotti finanziari ad alto rischio come i derivati. In pratica si scommette prevedendo un guadagno superiore ai costi del capitale preso a prestito. Sono tutte operazioni fatte dalle grandi banche!

    Nel periodo 2011-14 questo mercato a livello mondiale è cresciuto del 42%. L’esposizione delle banche europee è anch’essa aumentata, anche se in dimensioni minori, del 16%. Nel 2014 le banche europee hanno incassato ben 5 miliardi di dollari con tali operazioni speculative.

    E’ riconosciuto da tutti, a cominciare dalle banche centrali e dalle altre agenzie di controllo, che, nonostante siano consapevoli dell’enorme rischiosità dei citati giochi finanziari, continuano ad astenersi dall’intervenire. Sono anche il frutto amaro della politica del tasso di interesse zero che oggettivamente spinge sui facili sentieri della speculazione.

    Ancora una volta quindi il G20 ha concluso i propri lavori predicando rigore ma con un negativo e clamoroso nulla di fatto che consente il solito ‘laissez-faire’.

 

3.09.2016

Le banche minori e la crescita economica

Da un po’ di tempo le banche regionali e quelli di credito cooperativo sono al centro della discussione.  Di una particolare attenzione lo sono anche da parte della Banca centrale europea che le vorrebbe sottoposte alla sua supervisione e riformate secondo un’ottica di maggiore aggregazione. Non solo perché alcune di loro sono entrate in crisi. E non solo in Italia, ma in tutta l’Europa.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Tecnicamente le istituzioni bancarie di piccole e medie dimensioni sono chiamate “less significant institutions”. Entità ‘meno significative’ rispetto a quelle di ‘importanza sistemica’, che per questo sono spesso considerate too big to fail.

    Nell’intera area euro vi sono circa 3300 gruppi bancari, di cui 129 di dimensioni notevoli e perciò supervisionate dalla Bce.

    Le circa 3200 piccole e medie banche restanti rappresentano il 18% di tutte le attività del sistema bancario europeo.  Sono quasi tutte concentrate in tre Paesi, la Germania, l’Italia e l’Austria. Le suddette piccole banche hanno però bilanci pari all’80% della somma del Pil della Germania e dell’Austria.

    Esse rappresentano la più importante ‘catena di trasmissione’ del credito produttivo verso le imprese di piccola e media dimensione che, non solo secondo noi,  sono la spina dorsale e l’interna ossatura dell’economia. In Germania, per esempio, le ‘meno significative’ finanziano il 70% dell’economia.

    Il loro tasso di capitale, il cosiddetto Tier 1, è mediamente del 15,2%, straordinariamente superiore al minimo richiesto per le tutte le banche della zona euro che è del 6%. E’ una eccellente garanzia per poter far fronte a situazioni difficili. Secondo le stime, le ‘piccole’, soprattutto in Germania, sono piene di liquidità e in cerca di investimenti e di rendimenti più alti. Non manca loro il mercato. Manca, invece, la stabilità delle imprese e delle famiglie a causa della recessione economica.

    Naturalmente esse soffrono moltissimo per la prolungata politica dei bassi tassi di interesse sui prestiti concessi. Di fatto l’interesse sui crediti è ‘il motore’ per generare i loro introiti. A loro non è permesso speculare né tanto meno operare con derivati o con altre operazioni finanziarie ad alto rischio.

    Adesso la Bce e il Single Supervisory Mechanism  per il controllo bancario hanno deciso di intervenire sulle banche ‘less significant’ con l’intenzione di sottoporle a una supervisione più stringente sia europea che nazionale, a una revisione del loro modello di business, di governance  e delle loro strategie. Di fatto ciò potrebbe comportare un processo di fusione, di possibili cambiamenti del loro status giuridico e di conseguenza determinare la possibilità di essere partecipate o addirittura acquisite dalla banche di rilevanza sistemica.

    In altre parole le istituzioni monetarie europee, comprese quelle italiane, intendono far fronte, a loro modo, a quella che esse definiscono “la sfida al tradizionale modello di business delle banche di piccola e media dimensioni”. Ciò nonostante esse riconoscano che le banche minori sono “solvibili, liquide, con un basso tasso di crediti inesigibili e con riserve considerevoli”. Oltre al fatto che le banche regionali hanno davvero il polso delle situazioni economiche e imprenditoriali locali e spesso una vera conoscenza diretta dei propri clienti e del loro profilo di rischio.

    Lo stesso non si può dire delle grandi banche. Che, oltre ad essere principalmente coinvolte in operazioni di cosiddetta “alta finanza” , hanno spesso una scarsa conoscenza della propria clientela.

    Si dovrebbe perciò chiedere perché le istituzioni europee privilegino le banche con grandi numeri e pochi legami con i settori portanti dell’economia reale. Non si comprende perché si voglia intervenire  sulle reti di banche locali e regionali che notoriamente affiancano le imprese nelle produzioni, nelle modernizzazioni e nell’espansione verso nuovi mercati, anche i più lontani.

    Se la priorità dei governi, compreso quello italiano, è  - o dovrebbe essere - la ripresa economica e l’occupazione, perché non valorizzare ulteriormente il meccanismo virtuoso delle banche di credito locale? A loro si può chiedere più informazione, imporre più controlli, ma bisognerebbe anche offrire maggiori sostegni per continuare ad operare con un modello ben funzionante e collaudato di supporto delle imprese. Il falso argomento delle loro dimensioni contenute non è convincente. Non si tratta di esaltare il “piccolo è bello” ma di salvare e sostenere ciò che ha funzionato e continua ancora a funzionare.

    In Italia il caso della Banca Etruria e delle poche altre banche locali è l’eccezione rispetto ad una rete che oggettivamente si deve ritenere efficace e positiva per l’economica locale e nazionale.

    L’imperativo pertanto, almeno nel nostro Paese, dovrebbe essere quello di colpire severamente i responsabili della bancarotta delle poche banche disastrate da gestioni scellerate e sostenere invece quelle che meritoriamente sono gestite correttamente e danno il giusto sostegno allo sviluppo dei territori i cui operano, spesso quelli più svantaggiati.

Il grande bluff dell'austerità espansiva

LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it

 

Danilo Barbi (Cgil) ai microfoni di RadioArticolo1. “Italia in deflazione? Purtroppo ce l'aspettavamo. E tra un po' arriveranno nuovi dati negativi sul lavoro. Si può ripartire soltanto con gli investimenti pubblici”

 

Prezzi in deflazione a febbraio. La flessione registrata dall'Istat è dello 0,3%. “Non siamo sorpresi: vuol dire che l'economia reale non si sta riprendendo, purtroppo. Da tempo, anche inascoltati, lanciamo l'allarme sulla deflazione: è ovvio che il calo dei prezzi riflette la debolezza della domanda”. A dirlo è il segretario confederale della Cgil, Danilo Barbi, intervistato da RadioArticolo1 nella trasmissione 'Italia Parla' (qui il podcast).

    Un ragionamento, il suo, che parte dalle politiche europee. “Il concetto di austerità flessibile – osserva il dirigente sindacale – è ambiguo. Come dire che bisogna ingrassare e dimagrire contemporaneamente. Guardiamo i dati del bilancio dello Stato italiano: in questi anni il governo ha continuato a ridurre gli investimenti pubblici per affidarsi a quelli privati che, invece, dall'inizio della crisi sono calati del 31 per cento nonostante tutte le decontribuzioni e gli sconti fiscali a pioggia. Nel frattempo, gli investimenti pubblici sono scesi a 32 miliardi da 56, questo è il dato finale del 2015. Fra poco, purtroppo, ci saranno i primi dati negativi anche sull'occupazione”.

     “Il governo italiano – prosegue Barbi – ha mandato in Europa un documento scritto tutto inglese, magari sperando che così in Italia non lo leggesse nessuno, nel quale si ammette che la ripresa non c'è e però si conferma il bisogno di riforme strutturali. Riforme che puntano sempre sulla riduzione dei diritti e del costo del lavoro che alla fine aumentano la disoccupazione e riducono la domanda”.

    Si può uscire da questa spirale di contraddizioni? “Noi continuiamo ostinatamente a dire di si”, sottolinea Barbi: “La Cgil non a caso a inizio della crisi presentò il suo Piano per il lavoro in cui prevedeva un rilancio degli investimenti pubblici per creare occupazione giovanile”. Quanto al tema delle tasse, “non è vero che sono tutte troppo alte. Alcune lo sono, altre no, e mi riferisco a quelle sui grandi patrimoni che continuano a essere bassissime. Anche i più ricchi mangiano tre volte al giorno, non è che se gli riduci le tasse mangiano dieci volte, questo è noto sin dagli anni Trenta”.

    Infine, una riflessione sul piano di investimenti targato Juncker, praticamente una meteora: “È stato un bluff – conclude il sindacalista – perché pretendeva, con soli 8 miliardi, di avere una leva finanziaria di 17 volte: una cosa assolutamente iperbolica e impossibile. Noi abbiamo detto con la Ces che ci vorrebbe un piano di investimenti da 260 miliardi all'anno per dieci anni in Europa, finanziato anche dalla Banca centrale europea. E invece la Bce continua a stampare migliaia di miliardi per prestarli alle banche o per comprare titoli pubblici alle banche”.