12.23.2015

Cina e DSP - La moneta cinese entra nei diritti speciali di prelievo del Fmi

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Il renminbi cinese (rmb) entra a far parte dei diritti speciali di prelievo (dsp), la moneta internazionale di riferimento del Fondo Monetario Internazionale composta da un paniere di valute. Sino ad oggi vi partecipano soltanto il dollaro, l’euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica.

    I dsp sono la moneta virtuale di riserva internazionale creata dal Fmi nel 1969, nel contesto del sistema di cambi fissi di Bretton Woods,  per affiancare le riserve monetarie (allora solo dollaro e oro) e per supportare l’espansione del commercio mondiale e i relativi flussi finanziari.

    Il Fmi li ha usati anche per prestiti di emergenza verso i Paesi membri. I dsp possono essere scambiati con le altre valute normalmente usate. A fine novembre di quest’anno erano in circolazione 204 miliardi di dsp, pari a circa 285 miliardi di dollari.

    La ripartizione sarà così: il dollaro avrà il 41,73%, l’euro il 30,93%, il renminbi il 10,92%, lo yen l’8,33% e la sterlina l’8,09%. Questa nuova composizione entrerà in vigore il prossimo 1 ottobre 2016.

    Interessante notare che la suddivisione delle quote del 2011 era: 41,9% per il dollaro, 37,4% per l’euro, 11,33% per la sterlina e 9,44% per lo yen. Balza evidente che, nonostante il ridimensionamento dell’economia americana, il dollaro mantiene la posizione dominante. Chi viene ridimensionato è in particolare l’euro.

    Si noti che, quando il Fmi venne creato nel dopo guerra, il pil americano era equivalente al 50% di quello mondiale, oggi è il 22%. Venti anni fa il pil della Cina rappresentava soltanto il 2% del totale, oggi è il 12%. Si consideri che la Cina detiene circa 1,3 trilioni di dollari in buoni del Tesoro americano. 

    Nonostante queste enormi trasformazioni dell’economia mondiale la quota di partecipazione assegnata alla Cina nel Fmi è simile a quella del Belgio. Del resto non si può ignorare che il Congresso americano nel 2010 votò contro la revisione delle quote e che tale opposizione si è poi ripetuta ad ogni summit del G20. 

    In ogni caso la decisione sui dsp è un importante passo in avanti nella creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere di monete. La nuova composizione dei dsp dovrebbe perciò preparare una grande evoluzione verso un sistema multipolare nella sua dimensione politica, economica, commerciale e, quindi, anche monetaria. 

    La Cina e gli altri Paesi del BRICS sono stati i grandi fautori di una riforma globale in modo crescente a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Già nel marzo del 2009 il governatore della Banca Centrale Zhou Xiao Chuan aveva sollecitato la creazione di una moneta di riserva internazionale non più sottomessa a una singola moneta nazionale, il dollaro. Oggi la Banca centrale cinese saluta la decisione come “un miglioramento dell’attuale sistema monetario internazionale e un risultato vincente sia per la Cina che per il resto del mondo”

    Adesso la Cina sarà certamente sottoposta a crescenti pressioni e la sua economia e il suo sistema finanziario saranno analizzati e valutati con cura.

    Si stima che inizialmente ciò dovrebbe determinare un modesto aumento nella domanda internazionale di valuta cinese, equivalente a circa 30 miliardi di dollari. Comunque chi commercia con la Cina sarà sollecitato a tenere quantità crescenti di rmb.

    La riduzione delle allocazioni di portafoglio in dollari a seguito della decisione di riconoscere al rmb un ruolo di moneta di riserva potrebbe nel tempo essere maggiore di quanto si possa oggi pensare.

    Il processo di internazionalizzazione di una moneta è lento, procede infatti per tre stadi: viene prima usata in operazioni commerciali, poi può diventare oggetto di investimenti da parte di privati e infine può essere accettata come riserva per il mercato regionale e globale.

    Si ricordi che nel 2014 il rmb era incluso nelle riserve monetarie di 38 Paesi soltanto. E rappresentava circa 1,1% di tutte le riserve monetarie. L’euro contava per il 21%.

    Negli anni recenti la Cina ha sottoscritto accordi di swap monetari con più di 40 banche centrali, in Asia, in Europa e in America Latina. Ciò ha facilitato l’uso dello rmb e ha favorito la concessione di quote di partecipazione nei programmi cinesi di investimenti esteri.

    Si stima che nei prossimi 10 anni questa evoluzione potrebbe portare ad un flusso di circa 2-3 trilioni di dollari verso la Cina. Soprattutto le economie emergenti avranno un immediato interesse verso il rmb e il suo nuovo ruolo internazionale.

    Ci si augura che l’Europa abbia piena consapevolezza delle oggettive implicazioni strategiche che il cambiamento in questione avrà. Non vorremmo che ancora una volta essa subisca certi processi rinunciando al protagonismo che la sua realtà economica e politica richiede.

 

12.20.2015

La moneta cinese entra nei diritti speciali di prelievo del Fmi

Cina e DSP
 
di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
Paolo RaimondiEconomista
 
Il renminbi cinese (rmb) entra a far parte dei diritti speciali di prelievo (dsp), la moneta internazionale di riferimento del Fondo Monetario Internazionale composta da un paniere di valute. Sino ad oggi vi partecipano soltanto il dollaro, l'euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica. 
    I dsp sono la moneta virtuale di riserva internazionale creata dal Fmi nel 1969, nel contesto del sistema di cambi fissi di Bretton Woods,  per affiancare le riserve monetarie (allora solo dollaro e oro) e per supportare l'espansione del commercio mondiale e i relativi flussi finanziari. 
    Il Fmi li ha usati anche per prestiti di emergenza verso i Paesi membri. I dsp possono essere scambiati con le altre valute normalmente usate. A fine novembre di quest'anno erano in circolazione 204 miliardi di dsp, pari a circa 285 miliardi di dollari. 
    La ripartizione sarà così: il dollaro avrà il 41,73%, l'euro il 30,93%, il renminbi il 10,92%, lo yen l'8,33% e la sterlina l'8,09%. Questa nuova composizione entrerà in vigore il prossimo 1 ottobre 2016. 
    Interessante notare che la suddivisione delle quote del 2011 era: 41,9% per il dollaro, 37,4% per l'euro, 11,33% per la sterlina e 9,44% per lo yen. Balza evidente che, nonostante il ridimensionamento dell'economia americana, il dollaro mantiene la posizione dominante. Chi viene ridimensionato è in particolare l'euro. 
    Si noti che, quando il Fmi venne creato nel dopo guerra, il pil americano era equivalente al 50% di quello mondiale, oggi è il 22%. Venti anni fa il pil della Cina rappresentava soltanto il 2% del totale, oggi è il 12%. Si consideri che la Cina detiene circa 1,3 trilioni di dollari in buoni del Tesoro americano.  
    Nonostante queste enormi trasformazioni dell'economia mondiale la quota di partecipazione assegnata alla Cina nel Fmi è simile a quella del Belgio. Del resto non si può ignorare che il Congresso americano nel 2010 votò contro la revisione delle quote e che tale opposizione si è poi ripetuta ad ogni summit del G20.  
    In ogni caso la decisione sui dsp è un importante passo in avanti nella creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere di monete. La nuova composizione dei dsp dovrebbe perciò preparare una grande evoluzione verso un sistema multipolare nella sua dimensione politica, economica, commerciale e, quindi, anche monetaria.  
    La Cina e gli altri Paesi del BRICS sono stati i grandi fautori di una riforma globale in modo crescente a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Già nel marzo del 2009 il governatore della Banca Centrale Zhou Xiao Chuan aveva sollecitato la creazione di una moneta di riserva internazionale non più sottomessa a una singola moneta nazionale, il dollaro. Oggi la Banca centrale cinese saluta la decisione come "un miglioramento dell'attuale sistema monetario internazionale e un risultato vincente sia per la Cina che per il resto del mondo"
    Adesso la Cina sarà certamente sottoposta a crescenti pressioni e la sua economia e il suo sistema finanziario saranno analizzati e valutati con cura. 
    Si stima che inizialmente ciò dovrebbe determinare un modesto aumento nella domanda internazionale di valuta cinese, equivalente a circa 30 miliardi di dollari. Comunque chi commercia con la Cina sarà sollecitato a tenere quantità crescenti di rmb. 
    La riduzione delle allocazioni di portafoglio in dollari a seguito della decisione di riconoscere al rmb un ruolo di moneta di riserva potrebbe nel tempo essere maggiore di quanto si possa oggi pensare. 
    Il processo di internazionalizzazione di una moneta è lento, procede infatti per tre stadi: viene prima usata in operazioni commerciali, poi può diventare oggetto di investimenti da parte di privati e infine può essere accettata come riserva per il mercato regionale e globale. 
    Si ricordi che nel 2014 il rmb era incluso nelle riserve monetarie di 38 Paesi soltanto. E rappresentava circa 1,1% di tutte le riserve monetarie. L'euro contava per il 21%.
    Negli anni recenti la Cina ha sottoscritto accordi di swap monetari con più di 40 banche centrali, in Asia, in Europa e in America Latina. Ciò ha facilitato l'uso dello rmb e ha favorito la concessione di quote di partecipazione nei programmi cinesi di investimenti esteri.
    Si stima che nei prossimi 10 anni questa evoluzione potrebbe portare ad un flusso di circa 2-3 trilioni di dollari verso la Cina. Soprattutto le economie emergenti avranno un immediato interesse verso il rmb e il suo nuovo ruolo internazionale. 
    Ci si augura che l'Europa abbia piena consapevolezza delle oggettive implicazioni strategiche che il cambiamento in questione avrà. Non vorremmo che ancora una volta essa subisca certi processi rinunciando al protagonismo che la sua realtà economica e politica richiede.

12.09.2015

Quanto vale la giustizia Vaticana?

Da CRITICA LIBERALE - riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Sul processo ai giornalisti Fittipaldi e Nuzzi.

 

di Francesca Palazzi Arduini

 

In questi giorni chiunque legga sui media la notizia della decisione del Promotore di Giustizia Vaticano di incriminare i due giornalisti italiani, noterà la scarsa attenzione alle regole definite dai Patti Lateranensi (1929) circa i rapporti tra Italia e Vaticano per il perseguimento dei reati.

    Pare quasi di vedere il Fittipaldi e il Nuzzi già ai ceppi nelle segrete Vaticane, ogni tanto visitati dalla mano benevole di Francesco (ormai l’appellativo ‘Papa’ è in disuso per  motivi di immagine) fornita di pane e acqua, e l’espressione stralunata dei due segnala già l’esposizione al giudizio “divino”.

    Se infatti per il Vaticano è importante perseguire i due giornalisti in quanto ritenuti responsabili di “fuga di notizie” e sospettati di collaborazione coi trafugatori di documenti privati…ciò è anche legittimo per il suo Codice,  che all’ art.116 punisce chi divulga documenti “riservati” (non è ben specificato in che modo questi documenti debbano essere definiti tali)  non è certo così per il nostro Codice, che semmai persegue chi divulga notizie coperte dal segreto di indagine, che viene usato per coprire solo precisa documentazione (art.329 c.p.p).

    E’ inoltre noto anche ai non addetti ai lavori che il Codice italiano, attraverso le leggi penali sulla stampa, persegue semmai e solamente la ricettazione di materiale privato che un giornalista possa attuare, punibile solo però se tale giornalista era a conoscenza del furto del materiale.

    Per sottolineare quindi la pochezza del gesto del Vaticano, impegnato a perseguire Fittipaldi e Nuzzi forse più per spaventare futuri emuli che altro, è interessante notare come questa severità e fretta nel perseguire i danni collaterali piuttosto che l’evidente malaffare protagonista (come il dito che indica la luna…), occorre rammentare l’applicabilità dell’articolo 22 dei Patti, che specifica con chiarezza non solo che:

     “A richiesta della Santa Sede e per delegazione che potrà essere data dalla medesima o nei singoli casi o in modo permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane“… e le leggi vaticane non sono proprio tutte valide in Italia, per fortuna… Ma specifica anche che “La Santa Sede consegnerà allo Stato italiano le persone, che si fossero rifugiate nella Città del Vaticano, imputate di atti, commessi nel territorio italiano, che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli Stati. Analogamente si provvederà per le persone imputate di delitti, che si fossero rifugiate negli immobili dichiarati immuni …, a meno che i preposti ai detti immobili preferiscano invitare gli agenti italiani ad entrarvi per arrestarle.”

    Ricordiamo quindi, per chi se ne fosse dimenticato (e la stampa italiana di recente sembra avere poca memoria) che nel 1987 il cardinale Paul Marcinkus sfuggì all’arresto nonostante il mandato di cattura grazie al suo passaporto vaticano, e così sfuggirono all’arresto i due contabili (Luigi Mennini e Pellegrino De Strobel), incriminati di bancarotta fraudolenta per il crack dell’Ambrosiano, rifugiatisi in Vaticano e da lì usciti solo quando la nostra Corte di Cassazione rifiutò il giudizio di inammissibilità costituzionale dell’art.11 dei Patti Lateranensi presentato dai giudici del Tribunale di Milano.

    Tali Patti, in gran parte confermati anche dal nuovo Concordato (1984), conferiscono ai rappresentanti vaticani (leggi: il clero ma anche i funzionari, vedi art.10) ovvero a tutti coloro che, cita la sentenza della Corte, sono fuori dal Vaticano agendo” in qualità di organi o di rappresentanti di un -ente centrale- della Chiesa cattolica”, la protezione con l’ immunità penale.

    Certo, difficile trattare con uno Stato che si permetteva e può permettersi, anche con l’aiuto di alcuni giudici e tanta stampa, di considerare “peccato” alcune azioni e “grave reato” altre, uno Stato che beneficia di ampia immunità per la maggior parte dei suoi cittadini . Per i privilegiati tutto si chiude, anche con il papato di Bergoglio, con la contrizione e la punizione comminata in segreto, e forse scontata con obbedienza, in ossequio al “sigillum confessionis”.

    Questa riflessione va fatta in un momento focale, la partenza del nuovo Giubileo, così importante per la Chiesa e soprattutto, come accennava Marcinkus, per la sua economia.

 

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Se otto ore vi sembran poche

Da MondOperaio - http://www.mondoperaio.net/

  

A margine di un’estemporanea battuta del ministro del Lavoro Poletti sull’individuazione di nuovi parametri, diversi dall’orario di lavoro, per remunerare i lavoratori

 

di Maurizio Ballistreri

 

Ha ragione Michele Tiraboschi quando dice che “avremo una vera rivoluzione copernicana (anche) delle regole del lavoro solo quando riscriveremo la nozione di impresa: vale per orario di lavoro, vale per alternanza e apprendistato, vale per produttività del lavoro e partecipazione dei lavoratori, vale per tutto”.

    Rispetto a questa necessaria prospettiva di ridefinizione sistemica dei rapporti tra impresa e lavoro, appare sin troppo estemporanea la battuta del ministro del Lavoro Poletti sull’individuazione di nuovi parametri, diversi dall’orario di lavoro, per remunerare i lavoratori. Il tema è da tempo oggetto di dibattito tra gli studiosi, e non si può affrontare con affermazioni da talk-show (come del resto quella sui laureati!), slegate dallo scenario socio-economico e da riflessioni finalizzate a trovare soluzioni condivise.

   Non vi è dubbio che la retribuzione legata all’orario di lavoro era connessa ad un sistema produttivo, quello taylorista-fordista, ormai abbondantemente superato dai processi di innovazione tecnologica hig-tech: ma è pensabile che la soluzione possa essere un ritorno al passato? Infatti dietro la proposta dell’ex presidente (di antica militanza comunista) di uno dei colossi del business italiano, la Lega delle Cooperative, si nasconde la riproposizione di un vecchio e obsoleto istituto retributivo: il cottimo, strumento di sfruttamento dei lavoratori finalizzato ad ottenere alti livelli di produttività e salari collegati, senza alcuna valorizzazione delle professionalità, né della sicurezza sul lavoro, accoppiato alla cancellazione del contratto collettivo nazionale (sostituito da minimi salariali bassi definiti annualmente per legge), e contratti aziendali espressivi di poteri regolamentari unilaterali dei datori di lavoro per stabilire i ritmi produttivi con sindacati deboli e subalterni. Insomma, al di là delle rivendicazioni di modernità espresse dal governo Renzi, una regressione all’Ottocento: a quella visione lavoristica in cui “il lavoratore deduce nel contratto il proprio corpo”, il contratto di lavoro come contratto di compravendita delle energie di cui il lavoratore è proprietario, tipica riconduzione nello schema civilistico del lavoro subordinato e dell’economia liberista.

    Ma nel Novecento si sono affermati i diritti del lavoro come diritti sociali. “Il lavoro non è una merce”, è il motto scritto nel il Trattato di Versailles nel 1919 e profferito dall’economista irlandese John Kells Ingram durante il congresso delle Trade Unions inglesi del 1880, che condensa le trasformazioni sociali e culturali che stanno alla base del diritto del lavoro nel nostro tempo: e cioè che il lavoro non può essere considerato un’entità indipendente dalla persona del lavoratore, e che deve fondarsi anche su un fondamento etico e non può essere perciò regolato solo dal mercato.

    La conseguenza è che il salario del lavoratore non può essere determinato esclusivamente dal suo valore di scambio, perché deve garantirgli il mantenimento in condizioni di salute e sicurezza fisica e mentale, secondo una concezione non mercantile più volte ribadita in tempi recenti nel nostro paese dal sociologo del lavoro Luciano Gallino, recentemente scomparso.

    Considerato che si parla di modernità, non è il vecchio cottimo che deve essere riesumato, ma le idee più avanzate in tema di partecipazione dei lavoratori nelle aziende. Già sul finire degli anni ’80 del Novecento il premio Nobel per l’Economia James Meade propose di definire un sistema retributivo che nelle imprese legasse l’andamento aziendale, i salari e il potere di intervento dei lavoratori nelle scelte strategiche.

    Se si vuole collegare effettivamente la prestazione alla competitività delle aziende senza ripescare anacronistici istituti di sfruttamento, è alla partecipazione che bisogna guardare. Si pensi all’Europa, in cui l’Italia è uno dei pochi paesi che non ha norme su questa tematica: a parte la Germania (con una ormai antica legislazione sulla cogestione) e gli Stati scandinavi, di recente (nel 2013), con la legge sulla “securizzazione dell’impiego”, anche la Francia ha rafforzato le regole sui diritti di informazione e consultazione di lavoratori e sindacati nell’imprese. Insomma, serve davvero una rivoluzione copernicana per il lavoro in Italia.

 

La frenata

Da Avanti! online - www.avantionline.it/

 

Gli ultimi dati economici italiani non sono per nulla buoni. È vero, resta un segno più nell’andamento dell’economia, sia pur con una revisione al ribasso. La previsione era dello 0,9 e il presidente del Consiglio aveva arrotondato all’1, ma adesso siamo scesi allo 0,8, la metà dello sviluppo dei paesi dell’Unione, che è pari all’1,6. Nell’eurozona ci sono poi paesi che volano. La Gran Bretagna raggiunge un più 2,5 e la stessa Germania, che si pensava avesse frenato la sua crescita, è stimata all’1,7, mentre la Francia, ancora in preda al dopo 13 novembre, è all’1,2.

 

di Mauro Del Bue

 

Secondo i dati Istat l’occupazione italiana, dopo il 13 novembre, ha avuto un leggerissimo decremento, meno 0,2, mentre l’aumento della occupazione stabile, ottenuto grazie agli sgravi fiscali e al Jobs act, si deve agli over 50, saliti dal gennaio 2013 di circa 900mila unità, dovuti in gran parte all’aumento dell’età pensionabile, mentre gli occupati under 50 sono diminuiti di quasi 800mila. È evidente che gli sgravi fiscali, piuttosto consistenti e pari a circa 15 miliardi e l’abolizione dell’articolo 18 hanno contribuito a stabilizzare l’occupazione e a diminuire quella precaria, ma un vero aumento dell’occupazione avviene solo attraverso un forte incremento della domanda. Per adesso siamo lontani da un obiettivo accettabile.

Alesina e Giavazzi, nel loro solito fondo sul Corriere, paragonano gli sforzi fatti dai governi britannici in materia di diminuzione della spesa pubblica a quelli intrapresi in Italia. E qui il paragone diventa amaro per noi. La nostra spending review è purtroppo sotto i nostri occhi, con quattro commissari ritirati o dimessi (Enrico Bondi, Pietro Giarda, Carlo Cottarelli e Roberto Perotti) e con tagli rivisti e poi decimati. Il progetto Osborne, cancelliere dello Scacchiere, che si estende fino al 2020, punta a diminuire ancora (di ben nove punti) la spesa pubblica (dal 45 al 36 per cento), ma aumentando, oltre all’occupazione, anche le pensioni e la spesa sanitaria. Si possono obiettare molte cose sulle scelte del governo conservatore britannico (ad esempio che non si pensi all’incremento degli investimenti sulla scuola, come aveva fatto il governo laburista di Blair), ma il risultato si comincia a vedere.

Renzi assuma l’atteggiamento di chi sta affrontando una sfida difficile. Sia sul piano internazionale sia sul versante economico l’Italia sta attraversando un momento assai complicato. L’insoddisfazione è assai facile si riversi sull’orientamento elettorale e lo verificheremo alle consultazionicomunali di Primavera. Renzi guidi coi toni adeguati un paese in una fase di crisi e di guerra. I suoi oppositori sappiano, però, che in questa fase l’unico comportamento accettabile è quello di chi sa assumersi la responsabilità di non giocare al “tanto peggio tanto meglio”, con la stessa logica che tutti i partiti politici dimostrarono a fronte della crisi e del terrorismo degli anni settanta, quello spirito di unità nazionale che ci consentì di battere terrorismo e inflazione e di riprendere la crescita.

 

Vai al sito dell’avantionline

 

Riformare il capitalismo? Ruolo strategico dello Stato

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

 

Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali l’intervento dello Stato è decisivo, non solo “facilitatore”, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. – Pubblichiamo qui un estratto dall’Introduzione di Laura Pennacchi al volume Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo (a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna), Ediesse 2015. Il volume – redatto con il coordinamento della “Area Politiche di sviluppo” della Cgil – è stato presentato in Cgil il 2 dicembre.

 

di Laura Pennacchi

 

Abbiamo vitale bisogno non solo di uno Stato, ma di uno Stato strategico il quale, oltre che indirettamente – mediante incentivi, disincentivi e regolazione –, interviene direttamente, cioè guidando e indirizzando intenzionalmente ed esplicitamente con strumenti appositi. Qui c’è una rottura da operare non soltanto con l’antistatism del neoliberismo, ma anche con la più o meno larvata diffidenza verso l’intervento pubblico – motivata con il rischio di «cattura» da parte di interessi politici e partitici e con le inefficienti degenerazioni burocratiche e clientelari che ne possono derivare – coltivata pure tra varie forze di centrosinistra, incapaci di ragionare e di parlare in termini di «teoria» dello Stato e delle istituzioni pubbliche.

    Del resto, tale stato delle cose – in cui registriamo una singolare coincidenza tra impostazioni liberali tradizionaliste e impostazioni di sinistra meccanicistiche – ha origini remote, se si pensa alla polemica che Polanyi condusse con il pensiero marxista ortodosso che vedeva nello Stato il «comitato esecutivo della borghesia», mentre egli coglieva la consustanzialità di economia capitalistica e Stato, interprete degli interessi generali della società, e denunziava la finzione ipostatizzante l’autosufficienza del mercato alla base dell’economia neoclassica.

    Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non solo «facilitatore» e alimentatore di condizioni permissive, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. Come sottolinea Mariana Mazzucato (Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Roma-Bari 2014), lo Stato ha giocato un ruolo chiave nell’evoluzione del settore informatico, di Internet, dell’industria farmaceutica e biotech, delle nanotecnologie e delle emergenti tecnologie verdi. Proprio l’estensione del cambiamento tecnologico (Antonelli, Technological Congruence and Productivity Growth, in M. Andersson, B. Johansson, C. Karlsson, H. Lööf (eds.), Innovation and Growth – From R&D Strategies of Innovating Firms to Economy-wide Technological Change, Oxford University Press, Oxford, 2012) e l’emergenza di nuovi settori mostrano che lo Stato non interviene solo per contrastare le market failures o per farsi carico della generazione di esternalità, ma rispondendo a motivazioni e obiettivi strategici. Infatti, l’operatore pubblico è l’unico in grado di porsi la domanda: «che tipo di economia vogliamo?». A partire dal porsi tale domanda lo Stato è in grado di catalizzare una miriade di attività e di mobilitare più settori congiuntamente generando il «coinvestimento» necessario, per esempio per andare sulla Luna (per cui fu necessario interrelare le attività di più di 14 diversi settori). L’emergenza di simili complessi di attività si deve a un intervento pubblico che non si limita a neutralizzare le market failures, ma che inventa, idea, crea lungo tutta la catena dell’innovazione.

    Secondo la visione standard le imperfezioni, e relative esternalità, del mercato possono insorgere per varie ragioni, come l’indisponibilità delle imprese private a investire in «beni pubblici» – quali la ricerca di base, dai rendimenti inappropriabili e dai benefici accessibili a tutti –, la riluttanza delle aziende private a includere nei prezzi dei loro prodotti il costo dell’inquinamento il che dà luogo a esternalità negative, il profilo di rischio troppo elevato di determinati investimenti.

    Se ne deduce che lo Stato dovrebbe fare cose importanti ma limitate, come finanziare la ricerca di base, imporre tasse contro l’inquinamento, sostenere gli investimenti infrastrutturali. Collegate a questa teoria sono le tesi che il ruolo dello Stato dovrebbe essere prevalentemente di fornire «spinte gentili» (nudges) (Sunstein, Thaler, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, Milano 2009) o di regolare cercando le regole più semplici possibili, assumendo che semplice sia equivalente a duttile, intelligente, libero, efficace, creativo. Ma uno dei difetti maggiori di tali teorie – che hanno tuttavia loro campi di validità – è che da una parte immaginano interventi pubblici «circoscritti» e «occasionali» (come circoscritti e occasionali sono i fallimenti del mercato) mentre essi nella realtà sono «pervasivi» e «strutturali», dall’altra parte ignorano un elemento fondamentale della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltanto dato «spintarelle» o fornito «regolazione», ha funzionato come «motore primo» delle innovazioni più radicali e rivoluzionarie. «In questi casi lo Stato non si è limitato a correggere i mercati ma si è impegnato per crearli» (Mazzucato, 2013, p. 98).

    Ovviamente sostenere tutto ciò non significa non vedere i limiti e le carenze dello Stato, quanto le pubbliche amministrazioni siano oggi spesso burocratizzate, inefficienti, dequalificate. Al contrario, significa prendere incisivamente atto di tale situazione per tentare di rovesciarla. Innanzitutto occorre denunziare il depotenziamento e il depauperamento dello Stato indotti dalle lunghe pratiche neoliberiste... >>> Continua la lettura sul sito

 

12.01.2015

Matera 2019: laboratorio di buona occupazione

LAVORO E DIRITTI a cura di www.rassegna.it

 

Si è tenuto il primo tavolo di confronto tra amministrazioni e associazioni di categoria sui temi legati alla creazione di nuovi posti di lavoro, che dal progetto di candidatura (e successiva assegnazione del titolo) sembrano essere del tutto assenti

 

Le opportunità offerte da Matera capitale europea della cultura 2019 devono andare oltre gli aspetti infrastrutturali e di programmazione culturale, volgendo lo sguardo alla possibilità concreta di creare nuovi posti di lavoro, occupazione stabile, rispettosa della dignità dei lavoratori. Un obiettivo chiaro, quello fissato dalla Cgil di Matera e della Basilicata, nel promuovere ieri (25 novembre) “Diritti verso il 2019”, il primo tavolo di confronto tra amministrazioni e associazioni di categoria sui temi legati proprio al lavoro, che dal progetto di candidatura (e successiva assegnazione del titolo) sembra essere il grande assente.

    “Non è vero che la cultura non produce occupazione – ha detto Maria Grazia Gabrielli, segretaria generale della Filcams nazionale, partecipando al dibattito –: anzi, è proprio da cultura e turismo che si può dare un impulso deciso allo sviluppo anche di altri settori, come la conservazione del patrimonio e la sua manutenzione, con interventi innovativi frutto di ricerca. Non solo turismo e strutture ricettive, quindi, ma una vero e proprio ‘sistema’ economico della cultura”.

    Alla tavola rotonda hanno partecipato, oltre ai segretari di Cgil e Filcams di Matera e Basilicata, anche i rappresentanti di Confindustria, Confapi, Fondazione Matera 2019. Per tutti, obiettivo comune è quello di darsi un coordinamento, per non arrivare in ritardo all’appuntamento del 2019, programmando e pianificando con attenzione gli interventi infrastrutturali (rete stradale e ferroviaria su tutti), le iniziative da legare all’evento, il coinvolgimento della fitta rete di associazioni cittadine.

     “Non prendiamo a modello la recente Expo – ha osservato Angelo Summa, segretario generale Cgil Basilicata –, perché andremmo nella direzione di creare interventi spot, non strutturali e inutili a un reale sviluppo del territorio. Creiamo invece una rete stabile di relazioni per poter fare di Matera il laboratorio di un nuovo modello economico, basato su un’idea di città nuova, moderna, sostenibile”.

    A collegare ogni aspetto di sviluppo e promozione, emerge la volontà comune di governare il processo con attenzione, anche per non lasciare spazio ad attività illegali. “Puntiamo a rendere trasparente ogni nostra azione – ha spiegato Paolo Verri, direttore della Fondazione Matera 2019 – e per ogni attività stiamo elaborando dei bandi che diano a chiunque abbia idee valide la possibilità di accedere al progetto”.

    Cgil e Filcams hanno proposto per questo motivo alle associazioni di categoria di concordare e sottoscrivere protocolli a tutela della legalità e alle istituzioni di farsi garanti che queste regole condivise vengano rispettate fino in fondo.

 

11.25.2015

Antalya, l’ennesima occasione mancata

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

 

Il bilancio del G20 ospitato in Turchia è deludente e conferma ancora una volta come le proposte e le richieste del mondo del lavoro siano considerate dai leader del pianeta come un poco rilevante corollario nell'agenda delle priorità

 

di Fausto Durante, coordinatore dell'area politica europea e internazionale della Cgil

 

La sintesi giornalistica potrebbe essere questa: un G20 deludente e caratterizzato dalla spinta al rinvio. Per la maggior parte, infatti, i commenti dei principali organi di informazione e della stampa internazionale (in Italia è stato il Sole-24 Ore a farsi interprete del sentiment) convergono sul fatto che il G20 appena svoltosi ad Antalya abbia sostanzialmente spostato in avanti il tempo delle decisioni sulle principali questioni economiche e sociali nello scenario mondiale.

    Un'impressione che i sindacati dei paesi del G20, riunitisi nei due giorni precedenti il vertice, avevano cominciato a maturare nel loro incontro, sulla base di quanto emerso sia nei contatti con gli sherpa e i funzionari che per i singoli paesi hanno seguito il lavoro preparatorio, sia nei colloqui svoltisi alla vigilia del summit nel corso di Labour 20. A una lettura obiettiva, il documento conclusivo di Antalya non pare avere il respiro e l'ambizione necessari per affrontare una situazione generale ancora caratterizzata dalla caduta dei tassi di crescita, dall'aumento delle disuguaglianze e delle disparità salariali, da bassi livelli di investimenti e dal permanere dell'emergenza disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile. In quel documento, le richieste e le priorità di L20, presentate ai leader riuniti in Turchia e definite sulla base del permanere delle criticità irrisolte nello scenario globale, non hanno trovato risposte adeguate.

    Il primo capitolo delle priorità dei sindacati ha per oggetto i temi della crescita inclusiva con la creazione di lavoro a essa collegata, da realizzare attraverso l'abbandono definitivo delle politiche di austerità e delle loro conseguenze negative, politiche da sostituire con scelte in grado di produrre un deciso impulso alla domanda aggregata, agli investimenti, all'innovazione tecnologica, in un quadro contrassegnato da politiche redistributive e tassazione progressiva. Di conseguenza, ciò richiederebbe la revisione e l'aggiornamento delle strategie nazionali in tema di crescita e di occupazione. Più in particolare, servirebbe il rilancio del ruolo degli Stati nazionali, per definire iniziative concrete e coordinate di valorizzazione del lavoro e delle sue condizioni, di supporto al dialogo sociale e ai sistemi di relazioni industriali, di politiche attive del lavoro e dei servizi per l'impiego, di qualificazione dell'offerta relativa alla formazione e alla riqualificazione professionale.

    Il secondo capitolo delle richieste sindacali è quello che riguarda potenzialità e ruolo della contrattazione collettiva, come motore della lotta alle disuguaglianze e di una più equa distribuzione della ricchezza e come fattore determinante della crescita e del benessere generale. La nostra richiesta era e rimane quella di invertire la tendenza, invalsa da ormai due decenni, all'indebolimento e al depotenziamento della contrattazione collettiva. Al contrario, occorre restituire a essa la capacità di far crescere i salari e il reddito complessivo dei lavoratori e, in tal modo, immettere risorse nel ciclo economico attraverso l'aumento del potere d'acquisto. Come è chiaro, ciò richiede la promozione e il rilancio della dimensione collettiva della contrattazione e del grado di copertura degli accordi, oltre che l'inclusione nei contratti delle forme di lavoro precario e non standard e il contrasto ai fenomeni di individualizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro.

    Il terzo capitolo ha al centro la richiesta di politiche e di azioni concrete per l'inclusione nel mercato del lavoro delle donne, dei giovani e dei gruppi più vulnerabili, dai lavoratori atipici a quanti sono occupati nel lavoro informale e in quello irregolare. Riguardo a quest'ultimo aspetto, abbiamo reiterato le nostre storiche richieste affinché nelle catene della subfornitura e degli appalti sia garantita l'applicazione degli standard internazionali e i diritti umani previsti dai principi delle Nazioni Unite, dalle convenzioni Oil e dalle linee guida Ocse sulle multinazionali.

    Allo stesso modo, abbiamo chiesto impegni tangibili per realizzare la strategia 25 by 25 sull'occupazione femminile e i principi – ancora lettera morta, pur essendo stati stabiliti nelle precedenti riunioni del G20 – su Youth Employment e sul dramma dei Neet, i tanti giovani che non lavorano, non studiano e non hanno percorsi di professionalizzazione. Non solo. Abbiamo anche chiesto che siano confermati gli impegni assunti nelle precedenti riunioni del G20 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e che venga attivato il processo per la creazione di un database in grado di coprire l'insieme di eventi, incidenti e malattie di lavoro, anche come base per politiche di prevenzione. >>>Continua la lettura sul sito rassegna.it

 

11.18.2015

Crolla il prezzo dell’acciaio - Occorre un “Piano B” per i lavoratori di Taranto

LETTERA - APPELLO

 

 PeaceLink chiama a raccolta le persone di buona volontà per elaborare un piano B dettagliato e praticabile che faccia uscire la città di Taranto dalla crisi irreversibile dell'Ilva. Taranto può e deve diventare un laboratorio nazionale e internazionale di idee per la riconversione. Chi ha idee da proporre ci contatti (volontari@peacelink.it).

    I punti di partenza del nostro ragionamento sono questi.

    1) Il mercato dell'acciaio è in fase recessiva ed è caratterizzato da un eccesso di capacità produttiva. Negli ultimi 12 mesi il prezzo dell'acciaio sul mercato internazionale è crollato del 45% per le esportazioni cinesi.

    2) Di fronte a questo scenario lo stabilimento siderurgico ILVA sarà sconvolto da un'ondata di crisi che ha portato già altre acciaierie alla chiusura. La situazione finanziaria dell'ILVA è caratterizzata dal fatto che l'azienda non produce più profitti ma unicamente perdite che si stanno sommando ai debiti verso le banche e verso i fornitori. ILVA ha 14 mila lavoratori, 20 mila creditori e tre miliardi di debiti.

    3) La situazione è diventata insostenibile. Se l'azienda non produce più profitti ma perdite vengono meno le condizioni per la realizzazione degli interventi di risanamento degli impianti. L'ILVA è in coma farmacologico e viene mantenuta in vita solo con decreti legge che hanno solo un effetto palliativo.

    4) Fra alcuni mesi l'ILVA chiuderà e sarà la fine di un modello di sviluppo che si è centrato sulla monocultura dell'acciaio. Questa crisi gravissima dell'ILVA sta esponendo i lavoratori al rischio concreto della disoccupazione.

    5) Di fronte a questa drammatica situazione è saggio confrontarci su un Programma di transizione di sostenibilità ambientale che si alimenti anche con i Fondi Europei che nel sud dell'Italia spesso non vengono utilizzati dalle amministrazioni pubbliche.

    6) E' possibile riconvertire l'economia locale attraverso fondi europei. I fondi non mancano. Prova ne è il fatto che i 2 miliardi di euro del "Programma Attrattori Culturali", destinati a migliorare l'offerta culturale nelle Regioni del Sud, non sono stati spesi e sono ritornati a Bruxelles. Uno spreco proprio mentre il nostro patrimonio storico e culturale cade a pezzi. Secondo una ricerca Eurispes, l'Italia utilizza i fondi europei solo al 45%. Attualmente sono a rischio contributi europei per 14,4 miliardi di euro. Solo Croazia e Romania fanno peggio.

    7) La crisi dell'ILVA deve diventare l'occasione per sfruttare al massimo questa ingente quantità di fondi per realizzare un progetto complessivo di riconversione che garantisca l'occupazione dei lavoratori ILVA offrendo nel contempo ai giovani disoccupati una concreta prospettiva di impiego diventando i protagonisti della riconversione, della bonifica e della rinascita.

    8) Creare lavoro senza inquinare è possibile e lo dimostrano le esperienze di Pittsburgh, Friburgo, Bilbao, Hammarby Sjostad (Stoccolma) e della Ruhr. Tutti esempi in cui bonifica, riconversione e green economy hanno creato sviluppo e lavoro senza generare inquinamento. Sono proprio le nazioni e le città che inquinano di meno che creano più occupazione.

    9) Occorre creare ponti di comunicazione con le città che sono riuscite a riconvertirsi. PeaceLink ha preso contatto con gli ambientalisti di Pittsburgh per capire come quella città è riuscita a sopravvivere alla crisi dell'acciaio e a far rinascere la propria economia. Pittsburgh è stata riconosciuta come una delle tre città americane che meglio ha superato la crisi recessiva dello scorso decennio. Il sindaco di Pittsburgh ha dichiarato: "We employ more people in Pittsburgh than we ever have". Ossia: "Noi impieghiamo più persone a Pittsburgh di quante non ne abbiamo mai avute"). Proprio così. Da quando hanno chiuso l'acciaieria sono usciti dalla crisi. PeaceLink è in contatto con Pittsburgh per un interscambio di esperienze sul monitoraggio dell'aria. Stiamo cercando di imparare dalle città che hanno avuto l'intelligenza di cambiare.

    10) Occorre coinvolgere i lavoratori dell'Ilva e renderli protagonisti del Piano B, anche attraverso forme di "Life long learning". Per senso di responsabilità verso i lavoratori dell'ILVA e verso tutti quei soggetti che si sorreggono sull'indotto, PeaceLink da tempo sviluppa – accanto alla critica dell'impatto inquinante dell'acciaieria – anche una parallela azione di ricerca di alternative occupazionali e di ricerca culturale. Ora questa ricerca è arrivata ad una sintesi con la stesura del "PIANO B" per Taranto. Mentre la nave sta affondando, occorre avere a disposizione le scialuppe di salvataggio. Le scialuppe già ci sono e sono i fondi europei.

    Ma occorre una grande capacità di pianificazione e di riprogettazione che attualmente manca.

    11) PeaceLink fa appello alla Camera di Commercio perché convochi un tavolo di confronto e di progettazione per uno sviluppo sostenibile alternativo e mette a disposizione il proprio PIANO B e gli studi svolti in questi anni di ricerca, anche collaborando con l'Università e con quegli studenti che hanno deciso di centrare la propria tesi di laurea su Taranto.

    12) E' venuto il momento di far partecipare a questo tavolo di confronto e di progettazione non solo gli attori istituzionali e sindacali (che hanno spesso dimostrato la propria inerzia) ma anche i giovani laureati e laureandi che hanno acquisito competenze e sono animati dal desiderio di rimanere a Taranto o di tornarvi mettendo a disposizione il proprio sapere e la propria voglia di cambiamento.

    13) Occorre coinvolgere tutte le scuole di Taranto in una seria riprogettazione dei profili professionali puntando sulle professioni del futuro, in particolare quelle collegate alla green economy che, secondo l'ONU, può creare fino a 60 milioni di nuovi posti di lavoro nei prossimi

    20 anni (cfr. http://www.peacelink.it/ecologia/a/36349.html). PeaceLink è a disposizione delle scuole (per contatti: volontari@peacelink.it) per fornire materiale didattico e tenere incontri con docenti e studenti nell'ottica di una "riprogrammazione" delle scuole tarantine in funzione di una nuova economia e di una nuova società che ponga il lavoro al servizio dello sviluppo sostenibile e del bene comune.

    14) Per i lavoratori Ilva vanno subito predisposti piani di formazione e riconversione semestrali e sistemi di certificazione delle competenze acquisite.

 

Alessandro Marescotti

Presidente di PeaceLink

http://www.peacelink.it

 

Sud: serve una politica nazionale

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

 

 

Alla vigilia della presentazione del "masterplan" per il Mezzogiorno del governo, la Cgil rilancia la vertenza nazionale 'Laboratorio Sud – Idee per il Paese', avviata lo scorso settembre a Potenza. L'iniziativa del sindacato di Corso d'Italia

 

Alla vigilia della presentazione del "Masterplan" per il Mezzogiorno del Governo, la Cgil rilancia la vertenza nazionale 'Laboratorio Sud – Idee per il Paese', avviata lo scorso settembre a Potenza. L'iniziativa, spiega il sindacato, articolata negli ambiti regionali e territoriali e nella dimensione nazionale, si propone di evidenziare le condizioni di criticità presenti nel Mezzogiorno e, soprattutto, di rendere visibili i possibili spazi di intervento per superare il divario che sempre più allontana le regioni del Sud dal resto del Paese. A tale fine il sindacato di corso d'Italia presenta un documento programmatico per la costruzione di una politica nazionale in grado di rafforzare le condizioni economico sociali del Mezzogiorno, favorire crescita e occupazione e permettere così una vera inversione di tendenza per tutto il Paese.

    Gli strumenti - Il nodo centrale del documento stilato dalla Cgil consiste nel coordinamento e nella partecipazione dei vari soggetti e dei vari livelli, poiché solo attraverso politiche rinnovate e il concorso delle diverse energie, a  partire dalle comunità locali e dalle loro rappresentanze, può realizzarsi un cambio di fase. Di qui l'individuazione di alcuni strumenti fondamentali di coordinamento tra politiche nazionali e regionali, e di partecipazione, che vedono il coinvolgimento delle parti sociali: un luogo formalizzato di coordinamento tra le regioni meridionali, una cabina di regia interistituzionale per l'attribuzione e la gestione delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione, e una sede stabile di confronto con le parti sociali sia nella dimensione regionale che in quella nazionale.

    Strumenti indispensabili per superare le condizioni di svantaggio riguardano la fiscalità e gli incentivi, che devono essere però selettivi e mirati, coerenti con le politiche d'intervento nei diversi settori e vincolati al carattere innovativo degli interventi con un alto profilo di ricerca e innovazione. Gli sgravi devono essere finalizzati a specifiche categorie e territori e condizionati all'addizionalità dell'occupazione.

    Altro strumento imprescindibile quello delle risorse: la Cgil chiede di incrementare quelle ordinarie, garantire il carattere addizionale dei Fondi Comunitari e l'utilizzo del Fondo Sviluppo e Coesione per finalità proprie, nel rispetto del vincolo territoriale e abbandonando l'abituale pratica di destinare tali risorse per coprire politiche ordinarie. Individuare una tempistica coerente rappresenta uno strumento fondamentale di programmazione: l'orizzonte per un piano nazionale di azione per il Mezzogiorno è quello quinquennale 2016-2020, all'interno del quale devono essere previste risorse certe e specifici tempi per il loro utilizzo.

    Vi è poi l'annoso tema delle infrastrutture, a metà tra lo strumento necessario a scalfire e superare il gap nella mobilità di cose e persone e la scelta strategica decisiva per lo sviluppo. Gli interventi proposti dalla Cgil guardano ad ambiti quali la portualità e la logistica, di cui occorre sviluppare capacità e competitività, l'energia, di cui è necessario abbattere i costi, e il territorio, con un Piano Anti dissesto idrogeologico nazionale.

    Le scelte strategiche - Tre per la Cgil gli obiettivi prioritari di una politica per il Mezzogiorno. Al primo posto dotare le regioni del Sud di infrastrutture sociali: contrasto alla povertà, servizi ai cittadini e per il lavoro, Istruzione e formazione, efficienza della Pubblica Amministrazione sono ambiti in cui il divario esistente con il resto del Paese incide profondamente sui diritti di cittadinanza. Per questo la Cgil ritiene indispensabile programmare da subito interventi che possano invertire la tendenza e che sono essi stessi generatori di occupazione. Asili nido e servizi per gli anziani e la non autosufficienza, Reddito di Inclusione Sociale come strumento universale di contrasto alla povertà, risorse aggiuntive per il diritto allo studio e legge quadro nazionale, rafforzamento delle università meridionali a partire da un piano straordinario per il reclutamento di docenti e giovani ricercatori: questi i nodi principali.

    Occorrono poi scelte sulle politiche industriali del Paese, che devono guardare al Sud per valorizzare la sua vocazione manifatturiera rafforzando gli insediamenti esistenti, presidi di eccellenza per settori strategici che vanno dalla siderurgia all'agricoltura, e riutilizzando o riconvertendo le aree dismesse, con particolare attenzione alla sostenibilità ambientale e all'alto tasso di innovazione e ricerca. Un quadro complesso che necessita di un forte protagonismo delle grandi imprese a partecipazione pubblica e di una governance multilivello Stato-Regioni.

    Per la Cgil è necessario fare leva su cultura, territorio e turismo: un patrimonio immenso del nostro Paese e del Mezzogiorno che non viene fatto fruttare a pieno ma che può trasformarsi in una fonte vitale per economia e lavoro. Il sindacato di corso d'Italia propone l'assunzione straordinaria di giovani per la tutela e la fruibilità del patrimonio culturale e paesaggistico, un Piano cultura e turismo per il Sud e l'individuazione di venti poli turistici prioritari.

    Questa impostazione richiede alcuni interventi che non determinano costi aggiuntivi, come il coordinamento inter-istituzionale. Altri possono essere previsti subito, a partire dalla Legge di Stabilità, mentre quelli di medio termine devono trovare supporto nel prossimo Documento di economia e finanza. Tra i secondi la Cgil indica gli incentivi condizionati a nuova occupazione da rivolgere a specifiche categorie e/o al forte contenuto di innovazione e ricerca delle attività; le risposte al diritto allo studio; il rafforzamento del sistema universitario del Sud; l'incremento delle risorse per le politiche ordinarie e l'attribuzione delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione agli obiettivi strategici, mantenendo il vincolo territoriale, e per il sostegno alla realizzazione del piano di infrastrutture.

    È evidente che un progetto che ha questi tratti deve prevedere un forte coinvolgimento delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori: pensare che il lavoro, la sua qualità e qualificazione non siano oggetto di confronto e non siano parte integrante di un piano strategico di sviluppo e di crescita, significa affrontare il tema in modo parziale.

 

11.04.2015

La finanziaria del 2016 - Tra propaganda e recessione

La finanziaria del 2016 corrisponde a quanto dichiarato dal Capo del Governo, e cioè che è una norma volta a favorire lo sviluppo?

 

di Dario Allamano,

Labouratorio Buozzi Torino, Aderente al Gruppo di Volpedo e a Rete Socialista

 

La finanziaria del 2016 corrisponde a quanto dichiarato dal Capo del Governo, e cioè che è una norma volta a favorire lo sviluppo?

In piccola parte si, ma soprattutto è una finanziaria molto attenta al breve periodo, alla propaganda utile per una eventuale campagna elettorale, che rinvia a tempi lontani il necessario risanamento dei conti italiani, unica soluzione per riconsegnare all’Italia le leve per avere risorse da redistribuire e da investire, e per poter realmente avviare il circolo virtuoso della “domanda aggregata”. 

    A tutt’oggi il costo del debito è superiore a più di 80 miliardi di euro annui, e per il pagamento degli interessi si utilizzano risorse pubbliche che dallo Stato vanno ai sottoscrittori del debito. È un atto che conferma che la redistribuzione c’è, ma sta avvenendo in una direzione prevalente: verso le grandi strutture finanziarie.

    Proviamo a spulciare nei vari capitoli che il capo del Governo ha magnificato e cerchiamo di capire perché non si può dire che questa finanziaria provveda ad una equa redistribuzione delle poche risorse disponibili.

    Innanzitutto il primo dato che balza all’occhio è che è una manovra basata soprattutto su un aumento del debito, un 2,2% virtuale di deficit , che, se non riequilibrato da un consistente sviluppo economico (una crescita del PIL superiore all’1,5%), non genererà nuove risorse, trasformandosi inevitabilmente in un ulteriore aumento del debito.  

    Il secondo atto messo in cantiere, l’abolizione di IMU e TASI, conferma la direzione sbagliata (o meglio propagandistica) di questa finanziaria. È sbagliata sia dal punto di vista finanziario, perchè sottrae agli Enti Locali le uniche fonti di reddito autonome, sia dal punto di vista politico: è l’ennesima operazione centralizzatrice messa in atto in questi anni, che consegna  nelle mani del Governo un formidabile mezzo di pressione: la copertura (promessa) del mancato gettito con fondi pubblici. Gli Enti Locali saranno sempre di più terminali del potere esecutivo e sempre meno Enti autonomi.

    Taluni obietteranno che il caso Roma (ma non solo) autorizza questo “commissariamento” di fatto dei Comuni. Anche in questo caso però la soluzione doveva essere più autonomia e più responsabilità e meno ristorni dal centro. L’esperienza di questi anni dovrebbe averci insegnato che le coperture dei deficit a piè di lista (casi Roma, Napoli ecc.) non hanno mai funzionato. Solo la responsabilità di dover richiedere ai residenti sul proprio territorio le fonti necessarie per coprire i buchi (e le buche) può rendere responsabili quegli amministratori che vivono di spese ad libitum.

    L’abolizione di IMU E TASI  è poi un problema anche da punti di vista dell’ipotetico rilancio dei consumi, la quota di imposte risparmiata è bassa, soprattutto per chi avrebbe bisogno di redditi aggiuntivi per riprendere a consumare di più e meglio. La media nazionale è di 180 euro pro capite, per cui molto limitata, ma soprattutto perché, come dice Banca d’Italia, è percepita come una imposta ballerina, e l’eventuale risparmio tende ad essere accantonato a copertura di future nuove tasse.

    Sarebbe stato molto più serio, ed in grado di incidere molto di più sui consumi (e sull’evasione), un intervento sull’IVA che oggi ha raggiunto aliquote in grado di uccidere qualsiasi propensione al consumo, e nel contempo agevola i furbetti dell’evasione. Alzi la mano chi non ha mai ricevuto in Italia la tipica domanda dall’evasore di turno: “vuole la fattura o no? Se la vuole il servizio costa il 20% in più”. Personalmente sono sempre più convinto che nell’ultimo passaggio, dal fornitore di servizi al consumatore, l’IVA debba avere una aliquota bassissima, meglio ancora nessuna aliquota. È forse tempo di ritornare a ripensare la vecchia IGE (Imposta Generale sulle Entrate) in vigore sino al 1973, che faceva pagare l’imposta sul giro d’affari. Una Imposta sulle attività economiche l’Italia la si sta tra l’altro sperimentando da anni sulla pelle delle aziende che non possono eludere l’emissione della fattura, si chiama IRAP.

    Mantenendo poi in vigore (invece di eliminarlo) l’obbligo di pagamenti tracciabili per le transazioni superiori ai 1000 euro, e l’obbligo della ricevuta (o scontrino fiscale di revigliana memoria) per quelle fino a 1000, si riuscirebbe a tracciare, se non a definire con precisione, i giri d’affari di quella “buona borghesia” dell’evasione (dentisti, cliniche private ecc.), che ognuno di noi conosce ma non ha la forza di denunciare.

    La cancellazione di quell’obbrobrio delle clausole di salvaguardia della finanziaria del 2015 (aumento di IVA e accise al mancato raggiungimento degli obiettivi) è solo un fatto di semplice buon senso, non la si può spacciare come azione per il “rilancio” dello sviluppo, comunque anche in questo caso la cancellazione avviene a “debito” utilizzando quell’aumento di deficit che l’Europa ci concede.

    A questo punto immagino che leggendo questa mia riflessione molti penseranno che il sottoscritto si è iscritto al club dei tedeschi (a parte il fatto che già il mio cognome può essere sospetto) , ebbene io credo che solo uno Stato non sottoposto al ricatto dei sottoscrittori del debito può avere una sua vera autonomia. Non è l’euro che ci uccide, bensì l’aver finanziato, in nome di un keynesismo d’accatto, spese improduttive ed una burocrazia pervasiva ed inefficiente. 

Il non aver saputo fare per tempo quelle operazioni necessarie nel momento in cui spariva l’unica leva che per decenni aveva “salvato” l’Italia: le svalutazioni competitive che davano fiato all’export italiano, ha contribuito e non poco all’affossamento della nostra economia.. È questo l’errore tremendo che i governi che si sono susseguiti in questi  vent’anni hanno scaricato sulle spalle degli italiani, non aver raccontato la verità ai cittadini, imbonendoli come Berlusconi (o rabbonendoli come Prodi) sull’idea di vivere in un paese tra i più solidi nel mondo.

    In conclusione oggi ci troviamo di nuovo di fronte ad una ennesima manovra fintamente “espansiva”, utile al massimo per una buona propaganda a base di slides, ma non in grado di portare l’Italia fuori dal tunnel, anche perché, se sono vere le ipotesi di prossima recessione, derivante dalla latente crisi cinese e dal suo impatto sui consumi globali, tutto il castello costruito in questi mesi rischia di rivelarsi per quel che è: un castello di sabbia.

 

Privatizzare le Ferrovie?

Da l’Unità online

http://www.unita.tv/

 

 

I dubbi della Uil in vista della privatizzazione di Ferrovie dello stato, la Uil organizza una tavola rotonda ed espone le proprie criticità. Uil-trasporti avverte: nel giro di dieci anni si rivelerà un’operazione in perdita

 

Archiviata la privatizzazione di Poste italiane, il cui esito ha portato nelle casse dello stato 3,4 miliardi di euro, il governo sta già pensando a Enav e Ferrovie dello Stato. Nel disegno complessivo di Palazzo Chigi, le prossime privatizzazioni serviranno a ridurre il debito pubblico, come promesso anche all’Ue, e renderanno più efficienti le aziende coinvolte, aumentandone la produttività.

    Tuttavia, “privatizzando le Ferrovie dello stato – denuncia il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo a Unità.tv – non si tiene conto dei costi sociali connessi”. “Ho qualche dubbio che tramite questa operazione si possa raggiungere il collegamento con la popolazione più debole” sottolinea il sindacalista a margine del convegno di Uiltrasporti che si è tenuto stamane a Roma.

    Nell’incontro dal titolo ‘Privatizzazione del Gruppo FSI: dove va la ferrovia?’, organizzato dal sindacato di categoria dei trasporti, si è discusso sull’utilità di privatizzare o meno le Ferrovie dello stato; una tavola rotonda in cui l’organizzazione sindacale ha espresso la propria contrarietà a un eventuale spacchettamento del gruppo, invitando Ferrovie e governo a un ripensamento.

     “Quando le privatizzazioni si fanno per fare cassa – evidenzia Barbagallo – vuol dire che non sono tarate per sviluppare il trasporto ferroviario di questo paese“. “Piuttosto – aggiunge – bisogna eliminare gli sprechi, le ruberie e non far pagare il trasporto pubblico locale a prezzo di mercato”

    Quanto alla maggiore competitività che si potrebbe raggiungere con la privatizzazione, il leader della Uil spiega che “nel gruppo è stata già fatta un aziendalizzazione, tant’è che si è recuperata efficienza, competitività, ed economicità”.

    Le criticità di Barbagallo vengono poi ribadite anche dal segretario generale di Uiltrasporti, Claudio Tarlazzi: “Riteniamo che nel giro di 10 anni la privatizzazione delle Ferrovie si rilevi un’operazione in perdita per lo stato, soprattutto perché gli utili non verranno più reinvestiti nella rete per ammodernarla, nell’interresse del Paese. Se cedessimo il 40% dell’azienda – aggiunge Tarlazzi -, gli utili generati verrebbero infatti redistribuiti agli azionisti”.

 

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Lo smart work nella legge di stabilità

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

  

Attorno al telelavoro (smart work) qualcosa si muove. Dopo molti anni in cui le parti sociali hanno preferito stipulare accordi nazionali, locali e di impresa, temendo che ogni legge avrebbe irrigidito una forma di lavoro da sperimentare

 

di Patrizio Di Nicola

 

Tra le molte innovazioni presenti nella legge di stabilità 2016 vi è anche la possibilità per le aziende di utilizzare una nuova forma di prestazione lavorativa, definita “lavoro agile”, che consiste nello svolgere la propria opera fuori dei locali dell’azienda, sfruttando l’elevato livello di digitalizzazione che caratterizza ormai una grande quota di attività produttive. L’articolato, che prende la forma di decreto collegato alla norma principale (e che per inciso innova anche le tutele previste per il lavoro autonomo, proponendosi di sanare alcune eclatanti ingiustizie previdenziali che colpiscono i professionisti senza albo), deriva in buona parte dalla proposta di legge sullo Smart Work presentato a inizio 2014 dalla deputata Alessia Mosca e altre colleghe. Tale proposta prendeva spunto a sua volta da una ricerca condotta dal Politecnico di Milano, la quale sosteneva come fosse giunto ormai il momento di andare oltre l’idea tradizionale di telelavoro, che veniva percepito come troppo “pesante” per aziende che fanno della flessibilità il loro modo di operare. Allo Smart Work faceva esplicito riferimento anche il testo originale dell’art. 14 della Riforma della Pubblica Amministrazione (Legge 7 agosto 2015, n. 124), che prevedeva il coinvolgimento di almeno il 20% del personale. Nell’iter parlamentare l’articolo ha poi perso il riferimento anglofilo, affermando invece che gli enti avrebbero dovuto utilizzare telelavoro e “nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa” per almeno il 10% del personale nei successivi tre anni.

    Insomma, attorno al Telelavoro/Smart Work/Lavoro Agile qualcosa si sta muovendo anche a livello legislativo. E ciò dopo molti anni in cui le parti sociali hanno preferito stipulare accordi nazionali, locali e di impresa, temendo che ogni legge in materia avrebbe irrigidito una forma di lavoro emergente e ancora da sperimentare, lasciando alla sola pubblica amministrazione il compito di regolare il telelavoro per i propri dipendenti in via legislativa.

    Chi scrive segue le vicende del telelavoro sin dalla metà degli anni ’90, avendone studiato vari aspetti sociologici (come ad esempio il problema dell’isolamento dei telelavoratori domiciliari o le innovazioni organizzative legate alla necessità di modificare i compiti del management intermedio) sia in Italia che con studi comparativi internazionali, e soprattutto avendo “aiutato” aziende grandi e piccole e varie pubbliche amministrazioni a implementare il telelavoro nella propria pratica organizzativa. Ciò, in qualche modo mi permette di fare alcune considerazioni sulla metamorfosi del telelavoro tra oggi, ieri e domani…. Continua la lettura sul sito rassegna.it