12.09.2015

Riformare il capitalismo? Ruolo strategico dello Stato

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

 

Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali l’intervento dello Stato è decisivo, non solo “facilitatore”, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. – Pubblichiamo qui un estratto dall’Introduzione di Laura Pennacchi al volume Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo (a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna), Ediesse 2015. Il volume – redatto con il coordinamento della “Area Politiche di sviluppo” della Cgil – è stato presentato in Cgil il 2 dicembre.

 

di Laura Pennacchi

 

Abbiamo vitale bisogno non solo di uno Stato, ma di uno Stato strategico il quale, oltre che indirettamente – mediante incentivi, disincentivi e regolazione –, interviene direttamente, cioè guidando e indirizzando intenzionalmente ed esplicitamente con strumenti appositi. Qui c’è una rottura da operare non soltanto con l’antistatism del neoliberismo, ma anche con la più o meno larvata diffidenza verso l’intervento pubblico – motivata con il rischio di «cattura» da parte di interessi politici e partitici e con le inefficienti degenerazioni burocratiche e clientelari che ne possono derivare – coltivata pure tra varie forze di centrosinistra, incapaci di ragionare e di parlare in termini di «teoria» dello Stato e delle istituzioni pubbliche.

    Del resto, tale stato delle cose – in cui registriamo una singolare coincidenza tra impostazioni liberali tradizionaliste e impostazioni di sinistra meccanicistiche – ha origini remote, se si pensa alla polemica che Polanyi condusse con il pensiero marxista ortodosso che vedeva nello Stato il «comitato esecutivo della borghesia», mentre egli coglieva la consustanzialità di economia capitalistica e Stato, interprete degli interessi generali della società, e denunziava la finzione ipostatizzante l’autosufficienza del mercato alla base dell’economia neoclassica.

    Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici e nella spinta verso le innovazioni fondamentali l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non solo «facilitatore» e alimentatore di condizioni permissive, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. Come sottolinea Mariana Mazzucato (Lo Stato innovatore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Roma-Bari 2014), lo Stato ha giocato un ruolo chiave nell’evoluzione del settore informatico, di Internet, dell’industria farmaceutica e biotech, delle nanotecnologie e delle emergenti tecnologie verdi. Proprio l’estensione del cambiamento tecnologico (Antonelli, Technological Congruence and Productivity Growth, in M. Andersson, B. Johansson, C. Karlsson, H. Lööf (eds.), Innovation and Growth – From R&D Strategies of Innovating Firms to Economy-wide Technological Change, Oxford University Press, Oxford, 2012) e l’emergenza di nuovi settori mostrano che lo Stato non interviene solo per contrastare le market failures o per farsi carico della generazione di esternalità, ma rispondendo a motivazioni e obiettivi strategici. Infatti, l’operatore pubblico è l’unico in grado di porsi la domanda: «che tipo di economia vogliamo?». A partire dal porsi tale domanda lo Stato è in grado di catalizzare una miriade di attività e di mobilitare più settori congiuntamente generando il «coinvestimento» necessario, per esempio per andare sulla Luna (per cui fu necessario interrelare le attività di più di 14 diversi settori). L’emergenza di simili complessi di attività si deve a un intervento pubblico che non si limita a neutralizzare le market failures, ma che inventa, idea, crea lungo tutta la catena dell’innovazione.

    Secondo la visione standard le imperfezioni, e relative esternalità, del mercato possono insorgere per varie ragioni, come l’indisponibilità delle imprese private a investire in «beni pubblici» – quali la ricerca di base, dai rendimenti inappropriabili e dai benefici accessibili a tutti –, la riluttanza delle aziende private a includere nei prezzi dei loro prodotti il costo dell’inquinamento il che dà luogo a esternalità negative, il profilo di rischio troppo elevato di determinati investimenti.

    Se ne deduce che lo Stato dovrebbe fare cose importanti ma limitate, come finanziare la ricerca di base, imporre tasse contro l’inquinamento, sostenere gli investimenti infrastrutturali. Collegate a questa teoria sono le tesi che il ruolo dello Stato dovrebbe essere prevalentemente di fornire «spinte gentili» (nudges) (Sunstein, Thaler, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, Milano 2009) o di regolare cercando le regole più semplici possibili, assumendo che semplice sia equivalente a duttile, intelligente, libero, efficace, creativo. Ma uno dei difetti maggiori di tali teorie – che hanno tuttavia loro campi di validità – è che da una parte immaginano interventi pubblici «circoscritti» e «occasionali» (come circoscritti e occasionali sono i fallimenti del mercato) mentre essi nella realtà sono «pervasivi» e «strutturali», dall’altra parte ignorano un elemento fondamentale della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltanto dato «spintarelle» o fornito «regolazione», ha funzionato come «motore primo» delle innovazioni più radicali e rivoluzionarie. «In questi casi lo Stato non si è limitato a correggere i mercati ma si è impegnato per crearli» (Mazzucato, 2013, p. 98).

    Ovviamente sostenere tutto ciò non significa non vedere i limiti e le carenze dello Stato, quanto le pubbliche amministrazioni siano oggi spesso burocratizzate, inefficienti, dequalificate. Al contrario, significa prendere incisivamente atto di tale situazione per tentare di rovesciarla. Innanzitutto occorre denunziare il depotenziamento e il depauperamento dello Stato indotti dalle lunghe pratiche neoliberiste... >>> Continua la lettura sul sito