2.15.2010

L'ECONOMIA E L'EFFETTO DOMINO

Riceviamo e volentieri pubblichiamo
E’ venuto il momento di chiedersi se non sia fallita quell’idea di modernità fondata sulla monetizzazione e mercificazione di tutto, sul mito di un progresso irresistibile che pretende di crescere all’infinito.

di Luciano Neri - Coordinamento PD Italiani all'estero
Nonostante la flebile speranza aperta dall’elezione di Obama negli Stati Uniti, le scelte portate avanti dai governi che comandano nel mondo sembrano ispirate dalla pura follia. Il pianeta ha sempre più fame, di cibo, di giustizia, di decisioni irrimandabili che non vengono assunte, mentre perdura un’ostinata coazione a ripetere, con scelte sbagliate che producono effetti devastanti per l’ambiente e per milioni di persone. Siamo ancora immersi, come dice Jean-Paul Fitussi, nell’epoca immorale. Invece di riflettere sulle motivazioni della crisi internazionale si continua a sostenere, senza modificarne pratiche e finalità, il sistema bancario e finanziario che è all’origine della crisi stessa. Per sostenere le banche i Paesi del G20 hanno speso negli anni post crisi il 18% del loro Pil, senza pretendere alcuna garanzia rispetto al fatto che lo stesso torni a fare il suo mestiere, che dovrebbe essere quello di finanziare l’economia pubblica e privata. Così i germi di riproduzione della crisi prosperano e i cittadini pagheranno due volte, per il salvataggio e per i debiti contratti in seguito alla crisi stessa.

Avviene l’esatto contrario di quello che sarebbe necessario: il sistema bancario e gli organismi finanziari internazionali, già definitivamente tornati alle politiche precedenti, premono sui governi affinché taglino la spesa pubblica e sociale e quella per gli investimenti. I governi obbediscono, la politica segue, il cinismo e la follia dilagano. Va considerato inoltre che una crisi globale di questa dimensione, nata nel cuore dell’Occidente, se da una parte produce effetti molto negativi in quei Paesi dotati di un sistema di protezione sociale più avanzato (nel nord), dall’altra diventa devastante per i Paesi sottosviluppati e del sud del mondo, nei quali la crisi ha ampliato a dismisura le guerre, le devastazioni ambientali, la povertà, la morte per fame. Altro che “governance” , siamo alla ingovernabilità dei processi su scala planetaria, con gli organismi internazionali (Onu, Fondo Monetario, Fao…) che hanno perso qualsiasi funzione regolatrice e la residua credibilità agli occhi della stragrande maggioranza dei Paesi e dei popoli del mondo.

Esempio solare di questa follia, e di questo fallimento, è stato il vertice di Copenaghen. Un vertice sostenuto da un abnorme corollario mediatico, preceduto da solenni dichiarazioni di governi e imprese sulla urgenza di misure drastiche e strutturali da assumere di fronte ai mutamenti climatici e alle conseguenze devastanti per l’ambiente. Un vertice che si è concluso con un documento ridicolo dell’ultima ora, non vincolante, del tutto inefficace e di cui la Conferenza ha solo “preso atto”. Le oligarchie mondiali hanno ancora una volta fatto prevalere i profitti sulle persone, tentando di mistificare il risultato compiacendosi dei “piccoli passi” compiuti dal vertice. E invece si è tornati indietro addirittura rispetto al Protocollo di Kyoto che è stato definitivamente archiviato anche come riferimento giuridico. Le politiche messe in atto destrutturano il già precario sistema del diritto umano, soprattutto con riferimento al diritto al cibo. Ma scordiamoci l’illusione di non pagare, noi stessi nei Paesi “opulenti”, gli effetti che si faranno sentire sul piano dell’insicurezza, della crescita dei conflitti con migrazioni di massa e inarrestabili. Il fallimento del vertice di Copenaghen ha dimostrato, una volta di più, quanto sia urgente porre in agenda il problema del deficit di democrazia a livello internazionale e la costituzione di una nuova architettura politica mondiale.

Un anno fa, con la elezione di Barak Obama negli Stati Uniti, sembrava aprirsi una fase nuova e più responsabile, fondata sul rilancio del multilateralismo, su un possibile superamento dei conflitti, compreso quello israelo-palestinese, su un nuovo rapporto con i paesi islamici, su politiche più attente all’ambiente. Ma la “speranza Obama” sta purtroppo perdendo la sua spinta propulsiva. Per ora, in attesa della “green Economy” gli Stati Uniti hanno imposto le ragioni della forza e della “non negoziabilità” dei livelli di vita e di consumo dell’American Way of Life. Una crisi destinata ad acuirsi se gli Stati Uniti non riusciranno a trovare una nuova strada per rapportarsi alle criticità e ai conflitti internazionali. In Iraq, tra un anno, con un referendum già previsto gli iracheni decreteranno in forma plebiscitaria l’uscita degli americani dal Paese.

In Afghanistan ormai i talebani colpiscono nel cuore della stessa zona di sicurezza a Kabul, si rafforzano grazie ai proventi dell’oppio e alle scelte di un presidente corrotto come Karzai che ha reintrodotto la shaaria, ha portato al governo i criminali signori della guerra e tratta ormai direttamente con i talebani e con il mullah Omar per portarli al governo.

Il problema principale resta quello della mancanza di una strategia diversa da quella esclusivamente militare, che miete vittime tra la popolazione civile, che amplia l’ostilità della società afghana nei confronti delle truppe straniere e aumenta il sostegno ai gruppi jihadisti. Il rischio è che ognuno di questi conflitti frani sull’altro, con un effetto domino che trascina dietro tutto determinando situazioni sempre più ingovernabili. La stessa apertura fatta da Obama al mondo mussulmano dopo l’intervento del Cairo rischia di essere vanificata dagli avvenimenti sul campo. E soprattutto dal permanere della ferita palestinese e della progressiva occupazione israeliana dei territori.

I conflitti continuano, le aree di crisi si estendono, dal Pakistan al corno d’Africa, dallo Yemen all’Iran, e non c’è alcuna possibilità per gli Stati Uniti, dopo i fallimenti militari e politici dell’era Bush, di aprire altri fronti. Men che meno in Iran.

Il terrorismo, tutt’altro che sconfitto, resta un fenomeno presente, diffuso, in Afghanistan, in Pakistan, in Africa, nel Maghreb, nei Paesi del golfo. Il noto analista internazionale Gilles Kepel afferma che il terrorismo, in quanto resistenza alla modernità, sarà inevitabilmente spazzato via dalla affermazione della modernità stessa nei diversi Paesi. Mi pare una illusione che non trova riscontro nella realtà. Forse, più che innamorarci dei nostri autismi, è venuto il momento di chiederci se quell’idea di modernità fondata sulla monetarizzazione e sulla mercificazione di ogni cosa, sul mito di un progresso irresistibile che consuma tutto per accrescersi all’infinito, che ignora la cultura, gli esseri umani e l’ambiente, che impedisce qualsiasi sviluppo antroposociale, non sia già fallita e alle nostre spalle.