5.15.2014

Stimoli monetari o riforme di sistema?

Senza presunzione riteniamo che la Bce di Draghi dovrebbe considerare con grande attenzione quanto segue anziché limitarsi a imitare le politiche monetarie della Fed.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

“Sono passati più di 5 anni dall’esplosione della crisi finanziaria globale, ma l’economia globale sta ancora lottando per superare la debolezza cronica del dopo crisi”. Una debolezza che si manifesta in tanti modi: trend deludenti della produzione e della produttività; disoccupazione oltre ai livelli pre-crisi; rischi di deflazione; crescita del 30% del debito privato dei settori non finanziari rispetto al Pil; un settore finanziario ancora in riassestamento; i mercati finanziari in crescita e sempre più dipendenti dalle banche centrali; deficit di bilancio crescenti mentre scendono gli introiti fiscali; una politica monetaria che ha raggiunto i suoi limiti.

Forse è sorprendente, ma tale disanima è di Jaime Caruana, il direttore generale della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, e non di qualche economista o politico “pessimista” in cerca di sensazioni forti. Questa analisi è condivisa da molti esperti e da istituti economici internazionali che dibattono sull’efficacia della politica monetaria a sostegno della ripresa economica finora applicata in Occidente.

Di fatto si stanno scontrando due diagnosi contrapposte. Una si basa sulla caduta della domanda (shortfall of demand), l’altra invece sulla recessione provocata dalla crisi dei bilanci (balance sheet recession) dei vari attori economici.

Nel primo caso, caratterizzato da choc provocati da una domanda negativa, a sua volta alimentata dai meccanismi interni di riduzione del debito e dal credit crunch, la risposta dovrebbe concentrarsi in azioni di stimolo soprattutto monetario all’economia. In tal caso le politiche monetarie accomodanti sarebbero essenziali, anche se potrebbero diventare contro produttive, se protratte nel tempo.

Nel secondo caso invece si privilegiano le riforme strutturali e la ristrutturazione dei bilanci dissetatati dall’incontrollato boom finanziario favorito dal laissez faire pre-crisi. Si sostiene che la crisi non sarebbe un effetto esogeno bensì l’inevitabile collasso di una bolla finanziaria e speculativa insostenibile. Perciò si dovrebbe anzitutto ripulire i bilanci dai debiti e dai titoli inesigibili. I settori finanziari e anche le borse dovrebbero perciò essere sgonfiati perché l’economia possa riprendere a crescere.

Tutto ciò è necessario affinché il credito già anemico non venga assorbito dai cicli meramente finanziari invece di arrivare a quelli produttivi. In simili situazioni di recessione, più che l’ammontare del credito, è decisamente più importante la sua destinazione.

Il secondo approccio conferma con dati alla mano che le crisi bancarie sistemiche si accompagnano con cadute permanenti delle produzioni. Per cui i rimedi presuppongono la riduzione delle posizioni debitorie e la realizzazione delle riforme strutturali del sistema per far si che gli stimoli economici siano mirati al sostegno di nuovi investimenti e di posti di lavoro.

Recentemente lo stesso FMI ha dovuto prendere atto che le misure di stimolo del quantitative easing non hanno generato un aumento degli investimenti produttivi. Al contrario, dal 2008 al 2013 nei Paesi cosiddetti avanzati vi è stata una riduzione del 2,5% del rapporto tra investimenti e Pil. Il Fondo teme che in molti di questi Paesi un ritorno ai livelli pre-crisi non si vedrà per almeno un quinquennio, tanto che parla addirittura di “stagnazione secolare” soprattutto se “nuovi choc dovessero colpire queste economie o se le politiche non dovessero affrontare come dovuto le cause della crisi”.

Persino nel Federal Reserve System americano crescono i dubbi sull’efficacia delle politiche finora attuate. Uno studio della Fed di Saint Louis, per esempio, è arrivato addirittura a confrontare le politiche dei Paesi occidentali con quelle realizzate dalla Cina. Le conclusioni sono davvero sorprendenti: lo stimolo monetario delle economie avanzate avrebbe fallito l’obiettivo mentre la politica cinese, basata su misure fiscali e sul credito per lo sviluppo, ha prodotto dei risultati positivi.

 

5.08.2014

Grande prova di democrazia

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

Nel giorno di apertura del congresso nazionale della Cgil Susanna Camusso analizza il percorso compiuto fino all'assise di Rimini. Oltre 200mila interventi di delegati e delegate nelle assemblee. L'Italia è un Paese “regredito, ma che prova a difendersi".

Intervista a Susanna Camusso

A cura di Guido Iocca

“Una straordinaria prova democratica. Un esito che fa piazza pulita di tutti i timori con cui avevamo affrontato il congresso. Penso in particolare alla preoccupazione che le nostre assise venissero accolte come altro rispetto alle priorità dei lavoratori e dei pensionati, delle donne e degli uomini che rappresentiamo. E invece non è stato così”. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, fa con Rassegna un bilancio di quanto emerso dall’intero percorso congressuale, analizzando anche i principali temi che sono stati al centro del dibattito tra i delegati. “Ritengo che aver svolto più assemblee rispetto al congresso precedente – prosegue la numero uno di corso d’Italia – sia un risultato importantissimo, dovuto in particolare alla generosità dei nostri delegati, delle leghe dei pensionati e dei nostri militanti. Un risultato alla vigilia quasi impensabile, se si considera che per alcune categorie il suo raggiungimento ha significato moltiplicare gli sforzi, perché nel frattempo si era frantumato il ciclo produttivo e si erano esternalizzate le attività”.

Siamo in grado di quantificare la portata di questa partecipazione?

Camusso Un dirigente della Cgil ha fatto una stima dell’insieme degli interventi che si sono succeduti – lungo l’articolato iter congressuale – a opera dei nostri delegati, quantificandoli in più di 200.000. Tutte persone che hanno preso la parola nelle assemblee nei luoghi di lavoro e nelle assise successive. Credo si tratti, oltre che di un’importante prova di democrazia, della conferma che nel nostro paese c’è ancora una grande voglia di partecipazione, di discussione e di confronto, che spesso non trovano i luoghi per essere esercitati. Per quanto ci riguarda, è il segno incontrovertibile di una grande vitalità dell’organizzazione. Un radicamento profondo che tuttavia non deve impedirci di analizzare, sul piano meramente quantitativo, ogni aspetto che concerne la partecipazione.

A cosa ti riferisci?

Camusso Al fatto che se uno si sofferma esclusivamente sui numeri, risulta evidente uno scarto tra il dato che riguarda gli iscritti all’organizzazione e quello relativo a chi ha partecipato alle assemblee. Quello di come colmare tale gap è un problema che ci dobbiamo porre, e ci poniamo, ogni volta in occasione dei nostri congressi. Perché una cosa è valutare positivamente quanto si è fatto e un’altra dare per scontato che non si possa realizzare di più e meglio.

A parte il dato della partecipazione, che congresso è stato?
Camusso Abbiamo visto e vissuto un congresso anche molto diverso dalla rappresentazione che ne è stata fatta: un congresso che poco ha discusso degli orientamenti e delle opinioni dei singoli dirigenti e molto invece dei temi che maggiormente stanno a cuore ai nostri iscritti, facendo riferimento per un lato ai documenti elaborati e proposti e per un altro facendo emergere le inquietudini che attraversano il mondo del lavoro e dei pensionati.

Un congresso aperto e di ascolto, volto a favorire una discussione vera, per emendamenti, costruita sui contributi dei lavoratori e delle lavoratrici, così come dei pensionati e dei giovani precari. Questa, nelle intenzioni del suo gruppo dirigente, la cifra del XVII congresso della Cgil. Ha funzionato la sperimentazione?
Camusso Ha funzionato in parte. Come sempre succede con le sperimentazioni, ci si deve confrontare con comportamenti differenti l’uno dall’altro. Non c’è dubbio che una parte delle assemblee non si è misurata con lo strumento innovativo degli emendamenti, vissuti più come una componente del dibattito interno al gruppo dirigente che come una vera interlocuzione, alla portata di tutti. È anche vero tuttavia che se guardiamo a oggi, al dato complessivo, le proposte provenienti da gruppi di lavoratori e di delegati sono state numerose. La novità insomma è stata, tutto sommato, compresa. Certo con modalità e sensibilità diverse, ma non possiamo neanche affermare che il dibattito congressuale sia rimasto confinato nell’ambito dei documenti messi a punto a livello nazionale. Tutte le proposte vanno guardate naturalmente con attenzione e nel rispetto della loro articolazione: in alcuni casi si tratta di rivendicazioni proprie di un territorio, in altri si rilanciano grandi questioni di portata generale.

Doveva essere, dopo le dure contrapposizioni degli anni passati, un congresso con un’impostazione sostanzialmente unitaria. Cosa non è andato?

Camusso Il congresso era partito in un modo, ma si è rapidamente trasformato in qualcos’altro e questo è successo, prima ancora che per il Testo unico sulla rappresentanza, quando si sono cominciati a produrre i materiali congressuali e si è fatta largo in una parte della Cgil l'idea che gli emendamenti non fossero parte della discussione, ma essi stessi alternativi, tali da mutare lo stesso titolo del congresso. Un errore grave. Se poi ci vogliamo limitare ai fatti, dobbiamo osservare che l’argomento Testo unico non è stato granché discusso nelle assemblee; è stata materia di confronto di una parte dei dirigenti di alcune categorie, ma non sicuramente al centro del dibattito delle assemblee di base e degli altri congressi. Dopo di che, mi sembra giusto sottolineare che, nonostante il travaglio che in parte c’è stato, alla fine abbiamo condotto un’ampia consultazione degli iscritti. E nel momento in cui si chiude la consultazione, il tema diventa come ci attrezziamo a gestire l’accordo, come lo traduciamo nei contratti nazionali, come recuperiamo l'elemento di coordinamento delle categorie, come proviamo a renderlo anche migliore.

Da un congresso all’altro. Abbiamo deciso di titolare così questo speciale di Rassegna, che – avvalendosi del contributo di studiosi, docenti ed economisti – si interroga sui cambiamenti intercorsi nel paese in questi ultimi quattro anni. La stessa domanda la rivolgo a te: quanto è cambiata l’Italia e quanto la Cgil dal maggio del 2010?

Camusso Il paese è cambiato moltissimo, com’era inevitabile, avendo avuto quattro anni di recessione, di politiche di austerità, di tagli, di crescente disoccupazione, di progressiva esclusione dei giovani dal mercato del lavoro, con il riproporsi di nuovi fenomeni migratori in entrata e in uscita. Dal 2010 l’Italia si è impoverita. Si è impoverita anche quella parte del paese che ha un lavoro o una pensione, e l'impoverimento porta con sé il cambiamento delle abitudini. Un paese meno ricco della stessa idea di istruzione e di cultura, che ha rinsecchito le sue radici e le sue speranze. Allo stesso tempo, però, è un paese che ha resistito. Una delle contraddizioni che, per fortuna, abbiamo vissuto in questi anni è stata quella di essere contemporaneamente in una stagione di divisione del sindacato e di sottoscrizione di migliaia di accordi aziendali unitari finalizzati a contrastare la crisi, a ridefinire un processo, a salvaguardare l'occupazione, a difendere il suo insediamento industriale. Il bilancio è dunque quello di un paese che è sicuramente regredito, ma che ha provato a tenere aperta una prospettiva, a difendersi, tant’è che oggi mostra questa ansia di cambiamento, addirittura gettando a volte il cuore oltre l'ostacolo.

Quanto alla Cgil?

Camusso È ovvio che un’organizzazione sindacale come la nostra si misura con tutte le difficoltà che sta attraversando il paese, con l'esclusione di tanti uomini e donne dal mercato del lavoro, con una precarietà che è cresciuta e che rischia ancora di crescere. Nessuno di noi si è fatto travolgere dall'idea, oggi tanto in voga, che ormai non c'è più bisogno del sindacato. Al contrario: proprio nei congressi che si sono svolti in tutta Italia abbiamo registrato un grande bisogno di sindacato. A riprova di ciò, ci sono i numeri, che dicono che anche durante la crisi abbiamo sindacalizzato. Ma penso anche all’enorme e difficile lavoro che hanno fatto – e che continuano a fare – i nostri servizi, alle prese quotidianamente con migliaia di persone, assai spesso in difficoltà. Se c'è invece un difetto evidente, che dal congresso scorso a oggi non siamo riusciti a correggere, è l’eccessivo irrigidimento dell’organizzazione. Abbiamo dato, ed era giusto e necessario farlo, una veste organizzata alle nostre pluralità interne, le quali si sono però progressivamente trasformate da dialettica plurale in arroccamento delle posizioni. Allora, forse, in questo congresso si doveva affrontare un tema che né le scorse assise e nemmeno l’ultima conferenza di organizzazione è riuscita ad affrontare fino in fondo: se si vuole – e si deve – rafforzare la nostra democrazia interna va fatto innanzitutto dal basso, alimentando, favorendo e costruendo le condizioni per cui la partecipazione dei delegati, così come la loro presenza nel dibattito e nelle decisioni dell’organizzazione, sia molto più ampia. Ho usato nel mio intervento al recente congresso della Fiom la definizione della Cgil come “casa comune”, in contrapposizione a quella di “condominio”. Alla fine del congresso sono sempre più convinta che una delle principali questioni che dobbiamo affrontare sia proprio questa: se vogliamo rafforzare la nostra democrazia dobbiamo tornare a essere una casa comune e non tanti spazi diversi che tendono a sommarsi. La casa produce sintesi, il condominio litigiosità. La Cgil deve perciò essere quel luogo in cui tutti si sentono a casa e in cui tutti contribuiscono a farla crescere.

 

4.09.2014

Il dominio delle banche centrali

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Negli ultimi anni le banche centrali si sono sostituite al mercato, ai governi e a tutti gli altri attori economici nel definire le strategie monetarie, finanziarie e anche economiche dei Paesi cosiddetti industrializzati. I loro bilanci sono cresciuti a dismisura tanto che la Fed attualmente ha attivi pari a 4.160 miliardi di dollari, di cui 1.570 sono mbs, i derivati su ipoteche, mentre la Bce, con le banche centrali della zona euro, ha attivi pari a circa 2.200 miliardi di euro.

Eppure prima si credeva che il mercato avesse leggi proprie, forti, sicure e capaci di regolare l’economia e la finanza. Anzi si sosteneva che meno fossero coinvolti gli Stati e gli enti di controllo e meglio era per il sistema. Poi venne la crisi globale. Tutti, a cominciare dalla banche, quali le “too big too fail”, corsero a piangere miseria e a chiedere aiuti presso i governi.

Allora c’era la “magia del mercato” ed ora quindi c’è un’altra formula magica, quella della cosiddetta “forward guidance”. Dal 2008 è diventata il fulcro della politica monetaria. La Fed, la Bce, la Bank of Japan e la Bank of England forniscono, in varie forme quantitative e qualitative, appunto la loro “guida” nella politica monetaria, dei tassi di interesse e di fatto determinano l’intera politica economica..

Questa nuova situazione è oggetto di dibattito, di perplessità e di riflessione. Recentemente anche la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha messo in guardia che la politica della “foward guidance” potrebbe generare ripercussioni negative e veri e propri choc nei mercati e nelle economie internazionali. Gli economisti della Bri sostengono che nel breve periodo le banche centrali sembrano dare più certezze politiche e meno volatilità nei comportanti monetari. I possibili cambiamenti e finanche le loro percezioni, nella politica monetaria, basata sul tasso di interesse zero, potrebbero però mettere a rischio la stabilità finanziaria e colpire la reputazione e la credibilità delle stesse banche centrali.

Infatti, quando esse comunicano che i tassi di interesse rimarranno fermi per un certo lasso di tempo o fino al persistere di certe condizioni economiche, gli operatori finanziari si sentono sicuri e perciò investono, muovono capitali e purtroppo speculano con più tranquillità. Ma non è detto che ciò accada sempre, che le banche centrali siano fisse nei loro impegni, che comunichino chiaramente le loro decisioni e che i mercati interpretino correttamente i loro “segnali di fumo”.

Già nel maggio 2013 le poche parole dette dall’allora governatore della Fed, Ben Bernanke, su una possibile riduzione del quantitativo di nuova liquidità, mandarono in tilt il sistema. Da quel momento nei Paesi emergenti si verificano fughe di capitali, disinvestimenti dai bond, crolli di borsa e massicce svalutazioni valutarie. Bernanke, nel tentativo di tranquillizzare i mercati, lamentò di essere stato frainteso.

Se il semplice fraintendimento di una frase può determinare nuove crisi sistemiche, allora il mondo è veramente messo male.

I mercati quindi, secondo noi, più che concentrarsi sulle dichiarazioni dei governatori centrali, diventati i novelli dei dell’Olimpo finanziario ed economico, analizzino con maggiore obiettività gli andamenti e i parametri dell’economia reale.

Anche per gli economisti della Bri, se i mercati si basano esclusivamente sulla “forward guidance”, un qualsiasi cambiamento significativo nella “guida” potrebbe portare a delle “reazioni distruttive dei mercati”. Per altro verso, il timore di forti reazioni da parte dei mercati potrebbe bloccare le banche centrali dall’adozione di politiche monetarie richieste da nuove situazioni e nuovi andamenti. Da ultimo, non si può ignorare che la politica del tasso di interesse zero, prolungata nel tempo, incoraggi operazioni finanziarie in cerca di profitti più alti anche se con alto rischio, generando nuovi squilibri e vulnerabilità.

Tutto ciò preoccupa e spinge gli organismi internazionali più responsabili come la Bri a riconoscere che non si può continuare indefinitamente con le politiche monetarie accomodanti e non convenzionali. A nostro avviso occorre innanzitutto riportare la politica finanziaria e monetaria al suo ruolo naturale di ancella dell’economia reale.

 

Edilizia: uscire dalla crisi, senza costruire più case

LAVORO E DIRITTI - a cura di www.rassegna.it

 

"Consumo di suolo zero nel 2050 è il nostro obiettivo"- La relazione del segretario generale Schiavella apre il congresso della Fillea a Roma. In questi anni la crisi ha bruciato “oltre 700.000 posti di lavoro”, ma per uscirne non serve altro cemento.

“Questo congresso ci racconta una storia diversa da quella che raccontano i giornali. Un congresso fatto di persone che ci hanno consegnato i loro problemi, spesso insieme alla loro incazzatura, ma li hanno consegnati a noi e non ad altri, caricandoci di responsabilità e costringendoci ad interrogarci sull'efficacia della nostra azione. Tutto ciò non finisce sui giornali, sommerso da una lettura del confronto interno basata su uno scontro Fiom - Cgil. Quella rappresentazione è funzionale ad un disegno politico esterno, ma anche conseguenza di nostre responsabilità”. Inizia così la relazione di Walter Schiavella, segretario generale della Fillea Cgil che oggi, 2 aprile, ha aperto il congresso nazionale della categoria a Roma.

Per Schiavella però “il problema non è la democrazia interna, né il fatto che si sia andati al congresso con due documenti. Semmai quello che è inaccettabile è la negazione dei risultati congressuali e il discredito generalizzato spesso gettato sull'organizzazione”.

Per quanto riguarda il “congresso reale” come lo definisce il segretario della Fillea, la situazione è drammatica. “La crisi ha devastato il nostro mondo – ha detto Schiavella - I numeri non raccontano tutto: le storie raccontano di più, raccontano sofferenza ma anche dignità, coraggio e speranza; ma insieme al coraggio abbiamo incontrato anche disperazione, quella che spesso ci coglie di fronte a domande senza risposta..quelle domande alle quali, spesso,lo stesso che ce le pone non trova soluzioni e ricorre a gesti estremi, la tragedia dei tanti suicidi per il lavoro che manca che si aggiunge a quella altrettanto inaccettabile di chi muore sul lavoro”.

“L'Europa è stata il grande assente dal versante sociale e, su quello economico versante economico, la protagonista di politiche recessive che hanno aggravato diseguaglianze e sofferenze”, continua il segretario Fillea. Per questo “la prossima scadenza elettorale è fondamentale per restituire all'Europa la sua dimensione sociale e sconfiggere le forze della destra populista e i nazionalismi”.

Ma la crisi chiama in causa non solo i governi, anche le imprese, “in evidente crisi di rappresentanza – accusa Schiavella - e troppo spesso tentate di usare la crisi come pretesto per scaricarne i costi finali sul lavoro. In questo quadro, con i nostri limiti e le nostre contraddizioni, abbiamo agito.”

In questo contesto, la Fillea Cgil ha raggiunto “quasi 20.000 accordi di gestione di crisi aziendali in quattro anni, 5000 accordi l'anno, 400 accordi al mese”, sottolinea il segretario. “Accordi con i quali si è garantito sostegno al reddito ai lavoratori coinvolti e spesso la salvezza del futuro produttivo di molte imprese e dei relativi posti di lavoro. Abbiamo garantito la tenuta del sistema contrattuale rinnovando i CCNL e moltissimi accordi di secondo livello”.

Ciò nonostante, in questi anni la crisi ha bruciato “oltre 700.000 posti di lavoro” nel settore costruzioni e “ha alimentato tale fuoco col soffio potente dell'irregolarità”.

La risposta, per Schiavella non può che essere il Piano del Lavoro e al suo interno la sfida coraggiosa lanciata dalla Fillea: “Abbiamo scelto di uscire dalla crisi non costruendo più case – ha detto ancora il segretario - E' come se i metalmeccanici avessero scelto di non costruire più automobili perché inquinano e i chimici avessero deciso che curarsi con le erbe è più sicuro che farlo con i farmaci tradizionali, ovvio che è un paradosso, non abbiamo mai avuto ambizione di dare lezioni a nessuno, ma è altrettanto vero che non accettiamo lezioni da nessuno”.

“Le nostre città future dovranno essere in primo luogo dei cittadini”, insiste Schiavella. “Una nuova legge sui suoli si impone, una legge che non regali plusvalenze immeritate alla rendita fondiaria e che metta la ricchezza determinata dagli strumenti di programmazione pubblici al servizio di interessi pubblici. Ci sono strumenti idonei a farlo, da quelli fiscali a quelli urbanistici legandoli alla scelta di non consumare più suolo e di privilegiare recupero e riuso delle aree impermeabilizzate. Consumo di suolo zero nel 2050 è il nostro obiettivo”.

Legalità e regolarità del lavoro sono altri due cardini fondamentali per la Fillea Cgil. “Su questo terreno ci piacerebbe davvero che il governo cambiasse verso al Paese”, aggiunge Schiavella secondo il quale “in questi anni la situazione è peggiorata: produzione e fatturati hanno continuato a calare mentre l'irregolarità aumentava; come allora non vedere l'inefficacia di politiche che hanno indebolito il quadro normativo, dalla responsabilità solidale al Durc, dalle norme sulla sicurezza a quelle sul mercato del lavoro? Ma se una politica palesemente non funziona, allora perché insistere?”.

Sul versante contrattuale l'obiettivo della Fillea, primo sindacato del settore in termini di rappresentanza, è quello della riduzione del numero dei contratti, giungendo a due soli Ccnl: uno unico per l’edilizia e un altro per gli impianti fissi che raggruppi legno, cemento, lapidei e laterizi”.

 

4.01.2014

Il corridoio Razvitie - Presentato a Mosca un grande progetto di sviluppo del continente euro-asiatico.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

Mentre i venti di una nuova guerra fredda e i rischi di veri e propri conflitti intorno alla questione Ucraina crescono, importanti personalità dell’economia e delle scienze della Russia propongono invece una visione pacifica dello sviluppo infrastrutturale, economico e culturale dell’intero continente euro-asiatico.

L’11 marzo scorso, a Mosca il presidente delle Ferrovie Russe, Vladimir Yakunin, con il decisivo sostegno della prestigiosa Accademia delle Scienze Russa (RAS), ha proposto un progetto di grandi investimenti infrastrutturali noto come “Il corridoio euro-asiatico Razvitie”. Questa parola russa significa sviluppo.

Gli autori sono stati tra i pochi stranieri invitati all’evento. Dopo la sua validazione scientifica da parte della RAS, il progetto adesso è pronto per essere presentato e discusso nelle varie istituzioni dell’amministrazione statale.

Si tratta di un mega progetto, che negli anni potrebbe richiedere investimenti per parecchie centinaia di miliardi di euro, per collegare con moderne infrastrutture la costa russa del Pacifico con i Paesi europei fino all’Atlantico. Nel corridoio, oltre ai trasporti ferroviari e autostradali, sono previsti anche collegamenti continentali con pipeline per il gas, il petrolio, l’acqua, l’elettricità e le comunicazioni. Si prevedono anche collegamenti diretti con la Cina, che del resto sta già attivamente portando avanti simili politiche di sviluppo euro-asiatico attraverso la realizzazione di moderne Vie della Seta, e con il Nord America, con la realizzazione di collegamenti ferroviari che, passando attraverso lo Stretto di Bering, potranno collegare via terra la Russia e l’Asia con l’Alaska.

Evidentemente la visione strategica del progetto va ben oltre la realizzazione del corridoi di transito. Infatti si ipotizza anche lo sviluppo in profondità di una fascia di 200-300 km lungo l’intera linea per nuovi insediamenti urbani e nuovi centri produttivi. Secondo Yakunin un tale progetto potrebbe creare almeno 10-15 nuovi tipi di industrie basate su tecnologie completamente nuove.

Potrebbe sembrare l’idea di visionari. Ma la Russia da tempo sta cercando di definire una strategia che non sia soltanto economica ma che sappia mobilitare e unire le forze sociali, culturali e spirituali dell’intera popolazione intorno ad un grande progetto.

In questo modo si pensa anche di affrontare la questione demografica in un Paese che ha visto negli ultimi venti anni diminuire spaventosamente i livelli di popolazione e di fertilità. Con esso si potrebbe mettere in moto anche una progressiva urbanizzazione dei territori della Siberia e dell’Estremo Oriente ancora quasi totalmente disabitati.

In verità la Russia in passato si è sempre mobilitata intorno a grandi progetti che inizialmente sembravano irrealizzabili. La costruzione più di cento anni fa della linea ferroviaria transiberiana lunga 9.300 km, il piano di elettrificazione dell’Unione Sovietica e i programmi spaziali sono gli esempi più noti.

Yakunin ha ricordato che recentemente sono già stati decisi investimenti di lungo termine quali la modernizzazione della Transiberiana e della linea ferroviaria Bajkal-Amur.

La crisi globale che ancora caratterizza l’inizio del ventunesimo secolo potrebbe essere un importante stimolo per un nuovo accordo della Russia con l’Unione europea e gli Stati Uniti dando una risposta vincente alla politica di deindustrializzazione che ha colpito tutte e tre le aree.

L’utopia della società post-industriale è fallita e potrebbe così essere superata con una nuova e moderna industrializzazione. In un mondo di scambi di beni e di tecnologie, il corridoio di sviluppo euro-asiatico dovrebbe quindi conciliare gli interessi dei tre grandi sistemi economici, creando nel contempo una garanzia di sicurezza geopolitica per tutti.

E’ ovvio che un progetto di così grande portata può essere realizzato soltanto con la partecipazione di tutti i Paesi coinvolti ed interessati, a cominciare dall’Unione europea, il cui contributo tecnologico appare insostituibile. Per l’Europa e per l’Italia si aprirebbero anche prospettive di modernizzazione tecnologica, di nuova occupazione e di nuovi business per le nostre imprese.

Può sembrare stravagante in questo delicato momento dei rapporti tra i Paesi del G8 parlare di simili progetti, ma riteniamo che occorra pensare a nuove fasi di sviluppo globale e a nuovi assetti geopolitici pacifici e fortemente integrati.

 

 

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.rassegna.it

Europa - «Un milione di

firme contro l'austerità»

Al via la raccolta di sottoscrizioni: obiettivo da raggiungere su almeno sette paesi dell'Unione. Fausto Durante, responsabile del Segretariato Europa Cgil: "Dobbiamo indurre la Commissione a un cambio di passo in direzione della crescita"

“Dobbiamo indurre la Commissione europea, particolarmente sorda alle istanze del mondo del lavoro, a produrre atti legislativi che cambino le politiche di austerità e affrontino il tema della crescita, ovviamente della crescita sostenibile, come leva per superare la crisi. Ci auguriamo che quest’iniziativa riesca a centrare l’obiettivo”. A dirlo è Fausto Durante, responsabile del Segretariato Europa della Cgil, parlando della raccolta di firme (ne servono un milione in almeno sette paesi dell'Unione) avviata tra i cittadini europei, che ha come base “il Piano per un nuovo corso in Europa approvato nel novembre scorso dalla Confederazione europea dei sindacati”.
A sostenere queste azioni sindacali, spiega Durante ai microfoni di RadioArticolo1 (
qui il podast), ci sono le associazioni e i movimenti della società civile, a partire dal Movimento federalista europeo, che “ha deciso, e noi come sindacato confederale italiano supportiamo questa decisione, di dare corso alla raccolta di firme, sfruttando la possibilità dell’Iniziativa dei cittadini europei, che è un modo con il quale i cittadini dell'Unione possono far sentire la propria voce su singoli temi specifici alle istituzioni di Bruxelles”.

Nella giornata del 24 marzo si sono svolte le conferenze stampa di presentazione della campagna in Italia e in Francia. Nei prossimi giorni, e comunque entro la fine di questa settimana, sono previste iniziative analoghe di presentazione negli altri paesi in cui è costituito il comitato nazionale a sostegno del Comitato europeo per la raccolta delle firme.
“Molto utile per la divulgazione dell’iniziativa – conclude Durante – è l'impegno congressuale della Cgil, così come potranno essere utili tutte le iniziative per il Primo Maggio, per fare in modo che ci sia già dall'avvio di questa raccolta di firme, che può durare un anno, un risultato significativo. Per raccogliere le firme, che possono essere apposte sia su moduli cartacei sia online, utilizzeremo tutte le iniziative per la campagna elettorale delle elezioni europee. Anche perché, come abbiamo visto dalle elezioni amministrative francesi di ieri, se non si cambiano queste politiche di austerità, di rigore, di taglio al welfare e alla spesa pubblica, alla fine vince la destra e l'idea di Europa deperisce”.