LAVORO E DIRITTI
a cura di www.rassegna.it
Nel giorno di apertura del congresso nazionale della Cgil Susanna Camusso analizza il percorso compiuto fino all'assise di Rimini. Oltre 200mila interventi di delegati e delegate nelle assemblee. L'Italia è un Paese “regredito, ma che prova a difendersi".
Intervista a Susanna Camusso
A cura di Guido Iocca
“Una straordinaria prova democratica. Un esito che fa piazza pulita di tutti i timori con cui avevamo affrontato il congresso. Penso in particolare alla preoccupazione che le nostre assise venissero accolte come altro rispetto alle priorità dei lavoratori e dei pensionati, delle donne e degli uomini che rappresentiamo. E invece non è stato così”. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, fa con Rassegna un bilancio di quanto emerso dall’intero percorso congressuale, analizzando anche i principali temi che sono stati al centro del dibattito tra i delegati. “Ritengo che aver svolto più assemblee rispetto al congresso precedente – prosegue la numero uno di corso d’Italia – sia un risultato importantissimo, dovuto in particolare alla generosità dei nostri delegati, delle leghe dei pensionati e dei nostri militanti. Un risultato alla vigilia quasi impensabile, se si considera che per alcune categorie il suo raggiungimento ha significato moltiplicare gli sforzi, perché nel frattempo si era frantumato il ciclo produttivo e si erano esternalizzate le attività”.
Siamo in grado di quantificare la portata di questa partecipazione?
Camusso Un dirigente della Cgil ha fatto una stima dell’insieme degli interventi che si sono succeduti – lungo l’articolato iter congressuale – a opera dei nostri delegati, quantificandoli in più di 200.000. Tutte persone che hanno preso la parola nelle assemblee nei luoghi di lavoro e nelle assise successive. Credo si tratti, oltre che di un’importante prova di democrazia, della conferma che nel nostro paese c’è ancora una grande voglia di partecipazione, di discussione e di confronto, che spesso non trovano i luoghi per essere esercitati. Per quanto ci riguarda, è il segno incontrovertibile di una grande vitalità dell’organizzazione. Un radicamento profondo che tuttavia non deve impedirci di analizzare, sul piano meramente quantitativo, ogni aspetto che concerne la partecipazione.
A cosa ti riferisci?
Camusso Al fatto che se uno si sofferma esclusivamente sui numeri, risulta evidente uno scarto tra il dato che riguarda gli iscritti all’organizzazione e quello relativo a chi ha partecipato alle assemblee. Quello di come colmare tale gap è un problema che ci dobbiamo porre, e ci poniamo, ogni volta in occasione dei nostri congressi. Perché una cosa è valutare positivamente quanto si è fatto e un’altra dare per scontato che non si possa realizzare di più e meglio.
A parte il dato della partecipazione, che congresso è stato?
Camusso Abbiamo visto e vissuto un congresso anche molto diverso dalla rappresentazione che ne è stata fatta: un congresso che poco ha discusso degli orientamenti e delle opinioni dei singoli dirigenti e molto invece dei temi che maggiormente stanno a cuore ai nostri iscritti, facendo riferimento per un lato ai documenti elaborati e proposti e per un altro facendo emergere le inquietudini che attraversano il mondo del lavoro e dei pensionati.
Un congresso aperto e di ascolto, volto a favorire una discussione vera, per emendamenti, costruita sui contributi dei lavoratori e delle lavoratrici, così come dei pensionati e dei giovani precari. Questa, nelle intenzioni del suo gruppo dirigente, la cifra del XVII congresso della Cgil. Ha funzionato la sperimentazione?
Camusso Ha funzionato in parte. Come sempre succede con le sperimentazioni, ci si deve confrontare con comportamenti differenti l’uno dall’altro. Non c’è dubbio che una parte delle assemblee non si è misurata con lo strumento innovativo degli emendamenti, vissuti più come una componente del dibattito interno al gruppo dirigente che come una vera interlocuzione, alla portata di tutti. È anche vero tuttavia che se guardiamo a oggi, al dato complessivo, le proposte provenienti da gruppi di lavoratori e di delegati sono state numerose. La novità insomma è stata, tutto sommato, compresa. Certo con modalità e sensibilità diverse, ma non possiamo neanche affermare che il dibattito congressuale sia rimasto confinato nell’ambito dei documenti messi a punto a livello nazionale. Tutte le proposte vanno guardate naturalmente con attenzione e nel rispetto della loro articolazione: in alcuni casi si tratta di rivendicazioni proprie di un territorio, in altri si rilanciano grandi questioni di portata generale.
Doveva essere, dopo le dure contrapposizioni degli anni passati, un congresso con un’impostazione sostanzialmente unitaria. Cosa non è andato?
Camusso Il congresso era partito in un modo, ma si è rapidamente trasformato in qualcos’altro e questo è successo, prima ancora che per il Testo unico sulla rappresentanza, quando si sono cominciati a produrre i materiali congressuali e si è fatta largo in una parte della Cgil l'idea che gli emendamenti non fossero parte della discussione, ma essi stessi alternativi, tali da mutare lo stesso titolo del congresso. Un errore grave. Se poi ci vogliamo limitare ai fatti, dobbiamo osservare che l’argomento Testo unico non è stato granché discusso nelle assemblee; è stata materia di confronto di una parte dei dirigenti di alcune categorie, ma non sicuramente al centro del dibattito delle assemblee di base e degli altri congressi. Dopo di che, mi sembra giusto sottolineare che, nonostante il travaglio che in parte c’è stato, alla fine abbiamo condotto un’ampia consultazione degli iscritti. E nel momento in cui si chiude la consultazione, il tema diventa come ci attrezziamo a gestire l’accordo, come lo traduciamo nei contratti nazionali, come recuperiamo l'elemento di coordinamento delle categorie, come proviamo a renderlo anche migliore.
Da un congresso all’altro. Abbiamo deciso di titolare così questo speciale di Rassegna, che – avvalendosi del contributo di studiosi, docenti ed economisti – si interroga sui cambiamenti intercorsi nel paese in questi ultimi quattro anni. La stessa domanda la rivolgo a te: quanto è cambiata l’Italia e quanto la Cgil dal maggio del 2010?
Camusso Il paese è cambiato moltissimo, com’era inevitabile, avendo avuto quattro anni di recessione, di politiche di austerità, di tagli, di crescente disoccupazione, di progressiva esclusione dei giovani dal mercato del lavoro, con il riproporsi di nuovi fenomeni migratori in entrata e in uscita. Dal 2010 l’Italia si è impoverita. Si è impoverita anche quella parte del paese che ha un lavoro o una pensione, e l'impoverimento porta con sé il cambiamento delle abitudini. Un paese meno ricco della stessa idea di istruzione e di cultura, che ha rinsecchito le sue radici e le sue speranze. Allo stesso tempo, però, è un paese che ha resistito. Una delle contraddizioni che, per fortuna, abbiamo vissuto in questi anni è stata quella di essere contemporaneamente in una stagione di divisione del sindacato e di sottoscrizione di migliaia di accordi aziendali unitari finalizzati a contrastare la crisi, a ridefinire un processo, a salvaguardare l'occupazione, a difendere il suo insediamento industriale. Il bilancio è dunque quello di un paese che è sicuramente regredito, ma che ha provato a tenere aperta una prospettiva, a difendersi, tant’è che oggi mostra questa ansia di cambiamento, addirittura gettando a volte il cuore oltre l'ostacolo.
Quanto alla Cgil?
Camusso È ovvio che un’organizzazione sindacale come la nostra si misura con tutte le difficoltà che sta attraversando il paese, con l'esclusione di tanti uomini e donne dal mercato del lavoro, con una precarietà che è cresciuta e che rischia ancora di crescere. Nessuno di noi si è fatto travolgere dall'idea, oggi tanto in voga, che ormai non c'è più bisogno del sindacato. Al contrario: proprio nei congressi che si sono svolti in tutta Italia abbiamo registrato un grande bisogno di sindacato. A riprova di ciò, ci sono i numeri, che dicono che anche durante la crisi abbiamo sindacalizzato. Ma penso anche all’enorme e difficile lavoro che hanno fatto – e che continuano a fare – i nostri servizi, alle prese quotidianamente con migliaia di persone, assai spesso in difficoltà. Se c'è invece un difetto evidente, che dal congresso scorso a oggi non siamo riusciti a correggere, è l’eccessivo irrigidimento dell’organizzazione. Abbiamo dato, ed era giusto e necessario farlo, una veste organizzata alle nostre pluralità interne, le quali si sono però progressivamente trasformate da dialettica plurale in arroccamento delle posizioni. Allora, forse, in questo congresso si doveva affrontare un tema che né le scorse assise e nemmeno l’ultima conferenza di organizzazione è riuscita ad affrontare fino in fondo: se si vuole – e si deve – rafforzare la nostra democrazia interna va fatto innanzitutto dal basso, alimentando, favorendo e costruendo le condizioni per cui la partecipazione dei delegati, così come la loro presenza nel dibattito e nelle decisioni dell’organizzazione, sia molto più ampia. Ho usato nel mio intervento al recente congresso della Fiom la definizione della Cgil come “casa comune”, in contrapposizione a quella di “condominio”. Alla fine del congresso sono sempre più convinta che una delle principali questioni che dobbiamo affrontare sia proprio questa: se vogliamo rafforzare la nostra democrazia dobbiamo tornare a essere una casa comune e non tanti spazi diversi che tendono a sommarsi. La casa produce sintesi, il condominio litigiosità. La Cgil deve perciò essere quel luogo in cui tutti si sentono a casa e in cui tutti contribuiscono a farla crescere.