È difficile pensare che l'intera operazione sia stata ideata solo da un paio di tecnici. Le responsabilità dell'azienda, ma anche dei membri del Consiglio di sorveglianza. A rischio 20mila posti di lavoro nella produzione di componenti per motori a gasoli
di Roberto Goldin
Ci vorrà sicuramente molto tempo per dare una risposta plausibile a tutti i quesiti aperti dallo scandalo Volkswagen, che ha rivelato al mondo la manipolazione delle emissioni delle auto con il motore diesel EA 189 EU5 e con una cilindrata di 1,2, 1,6 e 2,0. E non tanto per quanto riguarda il profilo tecnico dell'affare. Come funziona il meccanismo fraudolento impostato da un software che entra in funzione solo in occasione dei controlli dei gas di scarico in laboratorio (in particolare l'ossido di azoto), abbassandone considerevolmente i valori, è stato già chiarito.
Come pure è ormai palese perché tale sistema manipolativo sia stato installato, già a partire dal 2008, in milioni di vetture in tutto il mondo (11 per la precisione), di cui 8 nell'Unione europea e 2,8 in Germania. Se si fossero rispettati i limiti dei valori dei gas di scarico imposti dalla normativa, i costi di produzione sarebbero stati eccessivi rispetto a quelli della concorrenza, è stato detto. Chi invece abbia dato il via definitivo all'istallazione non è ancora stato accertato del tutto: molti sospetti ricadrebbero su Ulrich Hackenberg, allora e da molti anni capo del reparto Sviluppo (attualmente è nella direzione dell'Audi). Alcuni presunti responsabili sono stati temporaneamente sospesi dal lavoro. Ma potrebbero essere i classici capri espiatori.
E comunque è difficile pensare che l'intera operazione sia stata opera solo di un paio di tecnici "criminali". Dovevano essere in molti a conoscenza della cosa, compresi i vertici dell'azienda. Che però – visto che la soluzione adottata sembrava aver avuto successo – hanno probabilmente chiuso un occhio, fingendo di non sapere nulla. Sarà difficile dimostrare il contrario. La conseguenza a questo punto è che a essere messa in dubbio è la sopravvivenza stessa del gruppo. Lo ha ammesso lo stesso presidente del consiglio di sorveglianza testé nominato, sia pure provvisoriamente (c'è bisogno dell'approvazione dell'Assemblea generale), Hans Dieter Pötsch, che finora aveva avuto il ruolo di responsabile delle finanze di Volkswagen.
A conclusione del suo intervento all'assemblea del gruppo, Pötsch si è dichiarato ottimista, purché – ha aggiunto – "tutti facciano la loro parte". A proposito di Pötsch, molti analisti hanno osservato che egli non rappresenta affatto la scelta ideale per far ripartire VW con uno spirito nuovo, essendo un rappresentante del vecchio sistema e intimo di Martin Winterkorn, l'ad obbligato a dimettersi pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo e successivamente costretto a rinunciare a tutte le cariche che aveva nelle varie holding collegate alla VW. Certo, Pötsch ha una perfetta conoscenza dei 12 marchi del gruppo, ma è lui uno dei responsabili della scelta di informare con colpevole ritardo l'opinione pubblica (il che è illegale), e quindi gli azionisti di VW, su quali erano le accuse mosse dall'agenzia americana Epa alla casa automobilistica tedesca.
Già a inizio settembre i vertici dell'azienda erano a conoscenza della faccenda, ma hanno riconosciuto la vera ampiezza dello scandalo solo tre settimane dopo. La ritardata confessione provocherà richieste di risarcimenti per vari miliardi di dollari – si parla di 18 – da parte degli investitori. Ma sono da mettere in conto pure i costi per il ritiro delle auto, e molto altro ancora. Ovviamente, al di là dei vertici aziendali, esistono altri responsabili dello scandalo. Non ultimo il governo, il quale ha quasi sempre agito secondo il motto: sta male l'industria automobilistica, sta male la Germania. Il che significa ignorare certe realtà, impedire l'applicazione di regole troppo severe per calcolo, opportunismo, amicizia. Un po' come avviene a Bruxelles e in molte altre parti del mondo.
E che dire della responsabilità degli altri membri della presidenza del Consiglio di sorveglianza, di cui facevano parte Bernd Osterloh, da 10 anni presidente del Consiglio di fabbrica e aspirante (già da maggio) capo del personale, e il presidente ad interim Berthold Huber (il cui incarico si è concluso lo scorso 8 ottobre con la nomina di Pötsch), ex segretario del sindacato metalmeccanico IG Metall? È una circostanza piuttosto insolita quella di avere un sindacalista a capo del Consiglio di sorveglianza – pur nel quadro della Mitbestimmung tedesca, il sistema di codeterminazione che caratterizza le relazioni industriali in Germania –, circostanza dovuta alle dimissioni di Ferdinand Piëch di qualche mese fa. Anche per loro ci si chiede quanto sapessero della manipolazione. Osterloh nega e addossa l'intera responsabilità al management…