9.16.2013

G20 di San Pietroburgo e investimenti di lungo termine nelle infrastrutture

Nonostante i venti di guerra sulla Siria e le pericolose conseguenze militari e geopolitiche, sono state assunte alcune rilevanti e innovative decisioni assunte dal recente Summit del G20 di San.

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista


Nel documento finale del G20 di Pietroburgo è stata posta, per la prima volta, la questione del finanziamento degli investimenti di lungo termine nelle infrastrutture e nei progetti industriali e di ricerca delle Pmi. Nel documento finale si sottolinea inoltre la necessità di creare un clima favorevole agli investimenti di lungo termine per mobilitare anche i capitali privati.
Un lavoro particolare di preparazione al rilancio delle strategie industriali e di sviluppo nel lungo termine è stato svolto dall'Ocse e dalle varie banche di sviluppo internazionali, tra cui la nostra Cassa Deposti e Prestiti, organizzate nel Long Term Investors Club.
Il G20 sollecita, perciò, i vari governi a facilitare gli investitori istituzionali e a promuovere politiche e progetti di investimento e di infrastrutture adeguati, organici e coerenti.
Nuovi strumenti finanziari non speculativi dovrebbero essere individuati anche per convogliare il risparmio privato verso gli investimenti produttivi e le infrastrutture. A tal proposito si indicano percorsi anche per creare partenariati pubblico-privati (PPP) e per la costruzione di fondi di sviluppo e di investimento.
Sembra che si vada oltre le solite buone intenzioni. Infatti, il rilancio degli investimenti di lungo periodo di fatto prende le distanze dalle scellerate politiche finanziarie speculative di breve periodo che, come noto, hanno "pervertito" il processo economico privilegiando la finanza fine a se stessa e altamente rischiosa elevandola fino agli altari del dio denaro.
Novità significativa è il riferimento alla necessità di ricondurre il risparmio ed il sistema bancario al loro ruolo indispensabile di ancelle del credito per le imprese e gli investimenti. In merito notevole è stata la spinta impressa dai Paesi del Brics che hanno posto il problema dell'occupazione, della disoccupazione e dei giovani al centro della Dichiarazione finale.
Rispetto al passato anche più recente quando si privilegiavano i parametri numerici del Pil a discapito di quello dell'occupazione, si registra una inversione di tendenza. Del resto sarebbe illusorio pensare ad una ripresa economica mentre continua la disoccupazione. Questa è una visione economica settecentesca dove produzione e profitto erano organizzati contro il lavoro; era però un mondo dove vigeva la legge del più forte senza alcuna responsabilità sociale.
Dopo 5 anni dalla costituzione del G20, i vecchi centri di potere economico e finanziario occidentale devono prendere atto del ruolo sempre più incisivo esercitato dai Paesi del Bric. Se il mondo intero non è del tutto sprofondato in una grande depressione economica, molto lo si deve alla dinamicità e alle politiche economiche dei Paesi emergenti.
Il Summit ha dovuto anche riconoscere che le politiche monetarie non convenzionali (la liquidità facile della Fed e di altre banche centrali) protratte nel tempo rappresentano gravi rischi per la tenuta del sistema finanziario a causa degli effetti negativi, come la volatilità nei flussi finanziari e disordini nei movimenti dei tassi di cambio in particolare nelle economie emergenti, da essi generati.
Per fronteggiare tali rischi, a latere del summit i Paesi del Brics hanno stanziato ben 100 miliardi di dollari in un fondo specifico per la sicurezza e la protezione delle loro monete e dei loro mercati.
Rispetto al passato si ha la sensazione che vi sia una maggiore consapevolezza dei problemi globali, non solo quelli della finanza, ma anche quelli del commercio e della governance degli organismi internazionali, a partire dalla distribuzione delle quote di controllo del Fmi che dovrebbe essere rivista all'inizio del 2014
Il riordino del sistema monetario diventa urgente anche in relazione al fatto che sempre più spesso gli accordi commerciali tra i Paesi emergenti vengono stipulati non in dollari ma nelle monete nazionali.