9.12.2013

Centenario di Ettore Cella-Dezza

 di Andrea Ermano

 La Federazione Socialista Italiana in Svizzera – proprietaria di questa testata dalla sua fondazione – ha dedicato la Tessera 2013 al centenario di Ettore Cella-Dezza, già presidente dell'organizzazione, nato a Zurigo il 12 settembre 1913 e morto presso Winterthur il 1° luglio del 2004.

    Ettore è stato un grande regista e attore, teatrale e cinematografico, nonché un personaggio radio-televisivo assai celebre nel mondo di lingua tedesca per le sue indimenticabili fatiche e anche per i suoi meriti culturali, tra cui ricordiamo qui "solo" l'introduzione di Pirandello in Germania e di Brecht in Italia. Fu Ettore, tanto per dire, a promuovere l'alleanza artistica tra Bertolt Brecht e Giorgio Strehler.

    Ettore è stato anche un importante esponente dell'emigrazione socialista, fino all'ultimo, fino alle lunghe e travagliate operazioni di salvataggio del Centro estero di Zurigo, dopo il crollo del Psi craxiano in Italia.

    Sempre incredibilmente attivo, anche da novantenne, aveva però dovuto farsi operare al femore in seguito a una brutta caduta; e gli strascichi dell'intervento lo costrinsero a una degenza abbastanza lunga, che lo andava rapidamente consumando.

    Negli ultimi mesi era ricoverato in un'ampia e linda camera dell'ospedale di Winthertur. Mi chiamava spesso al telefono. Voleva che andassi a trovarlo, cosa che facevo volentieri, compatibilmente con i vari impegni. Era sempre in uno stato di straordinaria lucidità, ma anche biblicamente "stanco di giorni" e non lo nascondeva: "La forza fisica è finita", ripeteva con sorriso velato. "Io posso pensare quel che mi pare, ma è come se il corpo non rispondesse più ai comandi".

    Allora io gli manifestavo la mia ammirazione per una vita così stracolma di soddisfazioni.

    Ci accomunava la ferma volontà a impedire che la nostra vecchia e gloriosa istituzione socialista democratica venisse messa a ferro e a fuoco dal nemico, nuovamente scatenato. Il "Centro estero" doveva continuare a stare lì, sfidando il tempo e l'arroganza del potere, per altri cent'anni. Nella musicalità della nostra bella lingua italiana, parole come "socialista" o "socialdemocratico" erano tornate a fungere da insulto. E noi buttavamo dunque il sangue in una battaglia del tutto inutile, ai fini convenzionali del tornaconto e del prestigio.

    Perché?! "Pe' tigna", riassunse una volta, con formula magnificamente antieroica, Giuseppe Tamburrano.

    Dal 1997 era toccato a chi scrive di assumere la guida dell'organizzazione socialista d'emigrazione, in uno dei momenti neri, come tanti altri ne erano capitati prima. Tra i miei predecessori il padre di Ettore, Enrico Dezza, l'aveva avuta ben più difficile, trovandosi per esempio a traghettare l'organizzazione attraverso due guerre mondiali, e ciò mentre un decreto di espulsione gli stava sospeso sopra la testa, come una spada di Damocle. Rischiava ogni momento di venire estradato in una galera fascista.

    Forse Ettore mi voleva al suo capezzale perché gli rappresentavo il padre approdato a Zurigo quand'era giovane, in fuga dall'asfissia dell'Italietta feroce e militar-clericale di Bava Beccaris. Io ero scappato, più modestamente, dallo smog metropolitano e dai furori degli ultimi anni Settanta. Ma, nonostante che un secolo o quasi separasse la mia generazione da quella di suo padre, c'era aria di famiglia.

    Ettore mi parlava di tutto: del suo apprendistato politico e intellettuale presso Silone prima della guerra; delle missioni speciali di guerra partigiana, travestito da novizio, nell'Emilia o nella Val d'Ossola. Poi il dopoguerra, la fondazione della tv, la vibrante personalità di Maria Callas che lui aveva diretto a Monaco in un memorabile allestimento dell'Aida, e i compagni: Brecht e Ragaz, Modigliani e la Balabanoff, Gorni e Canevascini. Ma anche le infinite diatribe interne, iniziate a Parigi, tra nenniani e saragattiani.

    Una volta mi raccontò di quando, negli anni Trenta, aveva introdotto il dialetto alla radio svizzera, per rompere con il purismo nazista. Fu un successo straordinario.

    Un altro giorno risalì con il ricordo fin sulla cima dell'epoca in cui era quasi ancora un ragazzino. Accennò ai suoi tentativi di intercettare una carriera piccolo-borghese, "normale".

    Dopo il noviziato domenicano, era rientrato a casa intraprendendo diversi lavori tra cui il soffiatore di cristalli. Gli piaceva, ma dovette abbandonare per un rischio di silicosi.

    A un certo punto confessò a suo padre la propria omosessualità, nonché la decisione di diventare attore drammatico.

    L'omosessualità – mi spiegava guardingo – era in quell'epoca lontana un partito diviso in due fazioni contrapposte: la fazione del "piacer mio" e quella della "amicizia". Disse "piacer mio" con rabbia e "amicizia" con un tono di voce che si appellava all'intellezione di un ideale. Ideale che si manifestava anzitutto e soprattutto nell'impegnarsi seriamente per offrire al proprio compagno occasioni di crescita culturale e umana.

    Quel vegliardo, che aveva convissuto cinquantatré anni con il suo partner, Richard Lenggenhager, mi disse cose riecheggianti passi di dialoghi platonici, filosofemi che fino ad allora si rubricavano per me sotto la voce dotta di "amor greco" con annessa nozione che di esso coltivava l'alta aristocrazia ateniese del quarto secolo avanti Cristo.

    Ma nella bruciante esperienza novecentesca quell'etica platonica riemergeva con ben altre valenze di significato esistenziale.

    Ettore Cella-Dezza aveva rischiato di finire ad Auschwitz per via di un'inclinazione sessuale diversa da quella di noi cosiddetti normali. Me ne rendevo conto?

    Una volta, mentre enumeravo a scopo terapeutico le ragioni di bellezza e di ricchezza della sua vita straripante soddisfazioni, lui m'interruppe per dirmi che però aveva due grandi rimpianti.

    "Il primo rimpianto" – disse – "è che non abbiamo potuto aiutare di più quegli Ebrei che erano arrivati nel nostro quartiere con quei loro grandi colbacchi".

    Perché aveva posto l'accento sui vistosi copricapi degli israeliti ortodossi? Considerai inopportuno domandargliene senza aver prima riflettuto sul punto. Gli chiesi qual era il secondo rimpianto.

    E lui: "Non aver mollato due cazzotti in più a qualche fascista che so io".

    Alcuni mesi dopo si spense. Da allora sono trascorsi quasi dieci anni, ma la memoria di quei colloqui è costantemente rimasta ben viva nella mia mente e mi ha aiutato non poco nei miei tentativi di comprensione delle umane vicende.

    Ed eccoci dunque al centenario dalla nascita di Ettore Cella-Dezza. Mi sono chiesto quale testo pubblicare sull'ADL per l'occasione. Da mesi stiamo lavorando alla riedizione bilingue di Nonna Adele, ma su ciò torneremo a lavoro concluso, quando pubblicheremo.

    Oggi mi torna alla mente l'ultimo suo discorso pubblico, che tenne nella città di Frauenfeld, nel Canton Turgovia, sede dell'ormai tradizionale Pink Apple Film Festival, un'importante rassegna internazionale del cinema gay. Per l'edizione del 2002 l'indirizzo di saluto inaugurale venne affidato a Ettore Cella-Dezza. Qui sotto ne riportiamo il testo integrale in versione italiana.

 

 

CON LA FORZA DELLA RAGIONE CON LE ARMI DELL’ONESTÀ

 

Ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve. Lottare per la libertà e l’emancipazione con i mezzi pacifici della ragione e dell’onestà non è inutile.

 di Ettore Cella-Dezza (1913-2004)

 (Frauenfeld 25.4.2002) - Se oggi prendo la parola, qui a Frauenfeld, di fronte a voi, inaugurando il Pink Apple Film Festival 2002, penso che l’indubbio onore riservatomi consegua da quattro ragioni che proverò a enumerare. La prima deriva, credo, dal prestigioso Premio cinematografico assegnatomi dalla Città di Zurigo pochi mesi fa. Zurigo è vicina e nelle sue sale verrà replicato il nostro programma odierno. La seconda ragione sta, forse, nell’esperienza e nel vissuto di un’ottantottenne al quale l’età tuttavia non ha ancora tolto per nulla la passione del proprio lavoro. E qui permettetemi senz’altro di aggiungere, in terzo luogo, che non si finisce mai d’imparare. In quarto e ultimo luogo vi sono, direi, le mie opinioni sulla sessualità e sull’amore: binomio tutt’oggi controverso, spesso avvolto da dubbie forme d’interesse morboso, e quasi universalmente considerato un tabù.

    Diciamo subito che a causa di questo tabù l’umanità, o almeno una “minoranza” in essa, vuoi di sesso femminile che di sesso maschile, soffre dai tempi mosaici. Nell’Antico Testamento, e segnatamente nel Levitico, si legge il seguente precetto:

 

Non giacerai con un ragazzo come con una donna,

ché è cosa abominevole. (Lev. 18:22)

 

E certamente un siffatto giacere è abominevole: circonvenzione e violenza, comportamenti entrambi che, e a buon diritto, vengono tutt’oggi sanzionati dalla legge. Ma amare esclude ogni circonvenzione e ogni violenza. L’amore è tutt’altra cosa. Sì, io credo che amare sia tutt’altra cosa e credo che nessuno, amando senza circonvenzioni e violenze, possa compiere – o anche solo percepirsi nell’atto di compiere – qualcosa di abominevole. No, davvero, non penso che si possa parlare di abominio quando due persone adulte si amano. E, anzi, se mai qualcuno di voi, care amiche e cari amici, percepisse come abominio l’espressione del proprio amore, sarebbe bene per lei o per lui cercare qualche ausilio terapeutico.

    Nondimeno, fin dai tempi arcaici la storia ci racconta di leggi che vietano e di sanzioni che puniscono l’amore, soprattutto il nostro amore, fino all’estremo supplizio. Occorre attendere la venuta di un popolo intelligente e straordinario come fu quello greco affinché uno spirito di maggiore libertà incominci a soffiare tra gli esseri umani.

    Di questa libertà i grandi padri e le grandi madri della cultura greca, nonché del pensiero e della letteratura universali – da Saffo a Socrate, da Platone ad Aristofane a tanti altri – ci hanno lasciato per altro  testimonianze perenni. Parlo di capolavori eterni, che però vennero originariamente concepiti e recepiti nella cornice quotidiana di splendide città e anfiteatri. E permettetemi di sottolineare, con tutto l’orgoglio di un vecchio uomo di spettacolo, che un tratto caratteristico della cultura greca fu proprio la sua dimensione pubblica, simboleggiata dal teatro.

    Non a caso fu per effetto dell’onda culturale ellenistica che – dalla Persia alla Tunisia da Epidauro ad Atene a Siracusa – nacquero teatri grandiosi, che potevano ospitare fino a sedicimila spettatori. Nasce di qui la robusta civiltà teatrale dell’Occidente, nasce di qui la capacità del teatro di motivare anche dopo il tramonto delle poleis greche ulteriori generazioni di artisti, e non tra i peggiori, che seppero proseguire su questa via. Di qui nacquero l’entusiasmo e la passione che condussero a edificare altri grandi anfiteatri – a Taormina e a Verona, a Pompei e ad Avenches – dove venivano rappresentate le commedie di un Plauto e di un Terenzio, e dove avevano luogo anche dispute su argomenti di pubblico interesse, agoni di poesia, vere e proprie olimpiadi dello spirito e dell’intelletto.

    Nelle egloghe di Virgilio, nelle liriche di Saffo, nei metri e nelle rime di non pochi letterati antichi ci restano testimonianze altissime tanto del sentimento amoroso quanto di invidiabile autonomia intellettuale.

    E poi? Cos’è successo, poi? Poi, fino a ieri o all’altro ieri, è successo che tanto l’uno quanto l’altra, tanto il sentimento quanto l’intelletto, ci sono stati interdetti per lunghi secoli: sia nell’ambito della vita quotidiana, sia in quello della letteratura e del teatro. Lo stesso si potrebbe affermare, in tempi più recenti, della radio, della televisione e del cinema, giacché – lasciatemelo dire a chiare lettere – è soprattutto di silenzio censorio, non d’altro, che sono fatti a tutt’oggi i nostri media.

    Parlo di un silenzio censorio che viene da lontano; che inizia con la traduzione biblica, la cosiddetta “Itala”, del 195 d.C. e poi, ancor di più, con la versione approntata da Girolamo nel 392; parlo di una attitudine censoria e repressiva che inizia insomma con la “cristianizzazione” dell’Occidente; parlo di un processo storico che sicuramente non ebbe luogo all’insegna del comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”, ma che tutt’altrimenti recò in sé il segno curiale e romano di una chiesa ormai totalmente dominata dalla propria sete di potere.

    Durante tutta l’epoca tardo-antica e durante tutto il medioevo la chiesa ha letteralmente messo a ferro e a fuoco ogni libertà sessuale. Né, va detto, la pratica della tortura e del rogo cessarono con l’avvento della cosiddetta età umanistica o della cosiddetta età dei lumi. No, care amiche e cari amici, interdizione e persecuzione sempre: dal passato remoto fino al tempo presente.

    La chiesa oggi moltiplica ovunque i suoi appelli affinché tutte le persone di buona volontà servano la pace tramite lo strumento del perdono: “perdona il tuo nemico!” Il che mi pare un’istanza in sé condivisibile. Ma alla chiesa stessa in duemila anni non sembra esser mai riuscito di dare seguito a questa sua istanza. Sicché si grida “pace pace”, ma la guerra continua. Perché? Forse perché la chiesa non osa mettere in questione alcuni pseudo-fondamenti sociali della propria dottrina. Ma anche per una certa incoerenza tra il piano delle parole e quello dei fatti.

     “Ama il prossimo tuo come te stesso” – il comandamento evangelico vale sì per tutti, ma, care amiche e cari amici, la chiesa sembra dimenticarsene quando si tratta di certe “minoranze” rispetto alle quali si rimane fermi alle giaculatorie di condanna: “Orsù, figliolo, tu devi... è proibito... è peccato grave!”

    Insieme al dito alzato, vagamente minaccioso, della morale tradizionale, resta in vigore il monito a non mai turbare il comune senso del pudore. Tanto più che ciò diffonderebbe solo insicurezza... Meglio, dunque, non parlarne, meglio imbavagliare, stroncare e sopire... Insomma, ecco a voi il tabù.

    Fortunatamente, anche all’interno della chiesa, aumenta il novero di religiose e religiosi – non necessariamente coinvolti nel nostro tema per vicende o travagli personali – cha hanno il coraggio e l’onestà di sostenere in santa coscienza una posizione diversa da quella ufficiale, anche al prezzo di venire a loro volta “silenziati”.

    La ragione di questo breve excursus storico è presto detta: ho voluto, con le mie parole, esemplificare che, nonostante tutto e dopo tutto, lottare serve, che lottare non è affatto una cosa inutile. Se così non fosse, pensiamo a noi per un istante, che ce ne siamo oggi qui riuniti in questa bella sala della città di Frauenfeld per celebrare un festival del cinema gay. Lo possiamo fare in quanto oggi noi rappresentiamo una minoranza combattiva e aggregante, capace di evolversi e di indurre all’evoluzione anche i nostri media. Noi oggi rappresentiamo una minoranza che non intende, né deve più, accettare qualunque prepotenza.

    Tutto questo è oggi possibile qui, nel Paese che ospita questo festival, la Svizzera – e ciò sia detto senz’ombra di vanità o boria nazionale – perché in questo Paese  durante lo scorso secolo e anche in quello precedente hanno vissuto persone – cito tra tutti Hösli, Meyer e von Knonau –  che seppero spendere la loro intelligenza nella lotta. E che, così facendo, seppero imprimere un impulso all’intera società, pur tra mille sofferenze e al prezzo di sacrifici pagati in prima persona: sofferenze e sacrifici di cui noi, care amiche e cari amici, oggi profittiamo.

    Da tutto ciò dobbiamo trarre motivo per proseguire – con mezzi pacifici – la nostra lotta. Con mezzi pacifici: perché non è con le battaglie campali o con le operazioni di guerra che si risolvono i problemi dell’umanità. Ogni giorno sperimentiamo questa semplice verità, sebbene l’orda militarista non intenda prenderne nota. Eppure, le conseguenze della guerra sono – oltre agli immani cumuli di macerie sotto gli occhi di tutti – immani cumuli di menzogne e paure, di squallori e miserie, immani cumuli di tormenti per la morte di persone care. E furiosi desideri di vendetta. Come non vedere che tutto ciò rischia di alimentare nuove spirali di odio, innescando, prima o poi, il tragico circolo vizioso di nuove guerre?

    A chi vorrebbe tacitarci dicendo che, però, le guerre ci sono sempre state, io rispondo: non lasciatevi incantare da queste parole, non lasciatevi chiudere la bocca, fate che la pace non sia un tabù!

    Ecco, bisogna lottare con la forza della ragione, impiegando le armi dell’onestà, della rettitudine e dell’intelligenza. E in tal senso le possibilità offerteci dai mezzi di comunicazione sembrano oggi varie e numerose quanto basta. Ricordiamoci che nella storia non sono mai mancati donne e uomini capaci di raccogliere la sfida della lotta per la libertà e l’emancipazione, anche quando ciò comportava il prezzo di incomparabili sacrifici.

    Quanti di loro sono andati incontro alla discriminazione sul lavoro? o alla disoccupazione? o al licenziamento? Quanti sono finiti in carcere? Quanti i morti in campo di concentramento? O i costretti alla fuga onde evitare la morte? Quanti vennero indotti alla disperazione e al suicidio? E quanti ancor oggi cercano riparo nella folla anonima delle grandi metropoli, abbandonando il paese in cui sono nati, essendo loro impossibile condurvi liberamente una esistenza minimamente serena?

    Vorrei ricordare Magnus Hischfeld, che fu autore di uno studio scientifico su questo speciale aspetto dell’urbanesimo e che fondò a Berlino un centro di accoglienza. Dovette riparare in Svizzera per evitare la camera a gas.

    Vorrei ricordare, in quegli stessi anni, l’attore e scrittore turgoviese Karl Meier, noto anche come “Rolf”, che portava avanti assieme al lavoro una coerente militanza antifascista nel cabaret Cornichon, e che fondò la rivista Kreis come pure l’omonimo centro di cultura, con vasta risonanza presso l’opinione pubblica di tutto il mondo libero.

    Rivoluzionarie e paradigmatiche furono, nel secondo dopoguerra, Rosa von Praunheim, regista di pellicole sfrontate e sconcertanti, il sempre malfamatissimo Rainer Fassbinder e un Pier Paolo Pasolini continuamente bersagliato da querele a causa dei suoi film sessuo-politici che avevano conquistato un vastissimo pubblico, seppure a mio avviso su un piano talvolta meramente voyeuristico.

    Per ciò che concerne la letteratura non tento nemmeno di fare un elenco di tutti quelli che, dopo Whitman e Wilde – da Gide a Cocteau, da Genet a Sartre a White e Baldini e Vidal e Monicelli e cento altri –, hanno contribuito a combattere il pregiudizio.

    Ma giunti sin qui, quel che mi preme è sottolineare un punto a mio avviso essenziale: care amiche e cari amici, nella vita non si hanno soltanto dei diritti. Ci sono anche i doveri. Sì, doveri, che chiedono di essere osservati con coscienziosità, verità e amore.

    In molti paesi del mondo il nostro festival non potrebbe avere luogo. In 35 nazioni vige la pena di morte. E durante l’anno 2001 le agenzie di stampa hanno dato notizia di ottantuno tra decapitazioni e lapidazioni di persone accusate di: “omosessualità”.

   Il cammino da compiere, come si vede, è ancor lungo. Perciò, se un festival cinematografico ci può ben apparire una goccia su una pietra rovente, non di meno lasciateci sperare che prima o poi, perseverando, anche questa goccia peserà, conterà, contribuirà ad alimentare una pianta fertile che porterà i suoi frutti.

    Per noi qui i frutti iniziano anzitutto dalla ricchezza emozionale che il cinema sa regalarci: nel pianto, nel riso e nella riflessione.

    Perciò, un grazie a tutti coloro che hanno dedicato le loro energie  all’organizzazione di questo Pink Apple Film Festival di Frauenfeld e che meritano di raccogliere pieno successo.

    Vi auguro di non mollare mai e di continuare sempre a combattere con intelligenza e con onestà.

    Grazie della vostra attenzione.

 

 

Un’iniziativa della “Fabbrica” 

Che Ettore sia con noi !!!

 Centenario di Cella-Dezza: appuntamento cinematografico a Zurigo, giovedì 12.9.2013, ore 20, al “Punto d’Incontro”, Josefstrasse 102

 di Mattia Lento

 A 100 anni dalla nascita di Ettore Cella-Dezza la “Fabbrica” di Zurigo ha deciso di ricordarlo e rendergli omaggio con due proiezioni presso il Punto d’Incontro (Josefstrasse 102).

    Il 12 settembre, giorno dell’anniversario, e il 9 dicembre verranno mostrati infatti Bäckerei Zürrer e Hinter den sieben Gleisen, due film del grande regista elvetico Kurt Früh, in cui Ettore interpreta i due personaggi ormai leggendari di papà Pizzani e del venditore di banane Colonna.

    La visione dei due film sarà l’occasione per vedere le immagini dell'Aussersihl alla fine degli anni ‘50, quell’“Ettores Chreis” che ha segnato la storia di una città e dei suoi migranti.

    Questa breve retrospettiva, inoltre, rendendo omaggio a uno dei più illustri simboli dell’integrazione straniera a Zurigo, vuole essere di buon auspicio per l’iniziativa cantonale del 22 settembre per il diritto di voto straniero a livello locale. Che Ettore sia con noi !!!