3.25.2009

Derivati: cappio al collo dei Comuni!

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo scritto da Mario Lettieri (già sottosegretario all’Economia nel governo Prodi) insieme all'economista Paolo Raimondi che denunciano la questione, ormai esplosiva, dei cosiddetti "derivati" in rapporto alla finanza locale. Ricordiamo a tal proposito che un mese fa la Corte dei Conti ha denunciato "l’uso sconsiderato di derivati finanziari da parte degli enti locali" facendo appello ad adottare un "principio di prudenza per i contratti derivati finalizzati alla ristrutturazione del debito degli enti locali". Ma i richiami alla trasparenza, alla certificazione e a una maggiore qualifica degli operatori coinvolti non basteranno per affrontare l’emergenza della crisi.


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi


I dati di fine anno 2007, riportati nelle recenti audizioni della Commissione Finanze del Senato, indicano 41 miliardi di euro in derivati su un debito totale dei comuni, delle province e delle regioni pari a 82 miliardi. Cioè il 50% -- per i soli comuni la cifra sale percentualmente al 58% del loro debito totale.

    Negli anni passati molti amministratori locali di tutte le tendenze e colori politici hanno pensato di riorganizzare il debito dei loro enti anche attraverso operazioni in derivati swap, che permettevano loro di diluire nel tempo il pagamento dei debiti e, in molti casi, addirittura di negoziare un montante del debito maggiore e di incassare subito la differenza in cash.

    Essi avrebbero fatto bella figura con i loro concittadini perché avevano più soldi da spendere!

    Gli intermediari finanziari però non avevano detto loro cosa prevedeva il derivato. In particolare non avevano detto che negli anni a venire e per decenni i bilanci degli enti sarebbero stati soffocati dalla bolla degli interessi da pagare alle banche. In verità molti amministratori locali sono stati vittime di una vera e propria "circonvenzione di incapace". Altri, pochi, hanno partecipato a vere e proprie truffe su cui le Procure stanno indagando. Per loro ci sarà il giudizio del voto e quello della legge.

    Infatti, spesso non si tratta solamente di atti finanziari speculativi ad alto rischio, bensì di sottrazione di risorse ai servizi pubblici primari.

    In una situazione di crisi finanziaria globale e nazionale ciò si traduce anche in un peggioramento della capacità produttiva, in una perdita di produzione e di lavoro delle nostre PMI e in un generale impoverimento di ampie fasce sociali.

    Il Comune di Roma nel 2009 pagherà 200 milioni di euro in più di spese per ammortamento (con maggiori interessi passivi) dell’attuale debito a lungo termine che è stato sottoposto a complesse operazioni di ristrutturazione finanziaria, passando da 420 a 620 milioni di euro. Non solo. Roma infatti dovrebbe continuare a pagare altissimi interessi per questi contratti derivati capestro fino al 2048!

    La Procura di Milano indaga da tempo, anche con numerosi avvisi di garanzia, per chiarire contratti in derivati per 1 miliardo e 680 milioni di euro che, secondo varie stime, potrebbero comportare una perdita tra 200 e 300 milioni di euro per il Comune. La Guardia di Finanza di Firenze starebbe acquisendo documenti per un ‘indagine su "alte commissioni e abuso di tassi esageratamente alti" che coinvolge 8 banche e 11 comuni della provincia per derivati pari a 1 miliardo e 700 milioni di euro. Poi ci sono i derivati di Napoli, Torino, fino ai piccoli comuni, e delle principali regioni a cominciare dalla Lombardia.

    Naturalmente questi contratti in derivati determinano un grande trasferimento di risorse finanziarie dai bilanci degli enti locali verso le banche. Queste banche, nazionali e soprattutto internazionali, sono le stesse che sono in situazioni di grande crisi proprio per le bolle speculative create dai titoli tossici. Sono sempre le stesse banche che chiedono sostegni finanziari ai governi per salvarsi dalla bancarotta. Chiedono capitali pubblici garantiti dagli stati e quindi dalla collettività.

    Come si può quindi tollerare che la collettività paghi due volte? La prima per salvare le banche dalla crisi e la seconda per pagare i derivati sottoscritti con le stesse?

    A fronte di tale situazione servirebbe anzitutto bloccare immediatamente le eventuali ulteriori sottoscrizioni di derivati da parte degli enti locali. In seguito, quando le nuove auspicate regole dell’economia e della finanza verranno definite, si decideranno anche metodi e comportamenti che riguardano i vari strumenti finanziari e bancari utili alla stabilità del sistema.

    Il Governo dovrebbe individuare altre fonti e altre norme per il risanamento dei bilanci degli enti locali. Intanto lo Stato dovrebbe esigere che le banche, in cambio dell’aiuto pubblico, trasformino i derivati in essere in normali prestiti a medio e lungo termine con tassi di interesse chiari ed equi. Tecnicamente non sarebbe un problema: chi è stato capace di costruire un complicato e poco trasparente contratto derivato, è certamente capace di "decostruirlo".

    Si tratta di non essere succubi dei forti poteri delle banche! E’ una decisione di politica economica che il Parlamento e il Governo possono prendere in pochi giorni e in modo condiviso, liberando in tempi brevissimi notevoli risorse per interventi di sostegno sociale e di investimento locale.

 

3.03.2009

Epifani: "Bene Franceschini, governo dia risposte subito"

La Cgil saluta il nuovo corso del PD e incalza la destra priva di idee al governo del Paese
Roma, 28 febbraio - Il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani esprime "apprezzamento" per le proposte avanzate oggi dal leader del Pd Dario Franceschini. "Le proposte affrontano correttamente temi che riguardano le condizioni piu' drammatiche delle persone in questa fase della crisi - dice Epifani - Il governo dia ora risposte immediate, senza perdere ulteriore tempo e cambi le priorita' dei propri interventi. Pomigliano d'Arco ieri, Prato e Torino oggi - conclude il segretario della Cgil - indicano che il Paese chiede urgentemente una svolta nella politica economica e sociale".

Sul fronte della crisi, il barometro dei numeri segna maltempo. "Minor produzione, assieme a minori consumi, e ricadute drammatiche sull’occupazione", commenta il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni il dato diffuso oggi dall’Istat sul Lavoro e retribuzioni nelle grandi imprese. Dati da cui emerge, aggiunge il dirigente sindacale, "un ennesimo calo dell’occupazione nelle grandi imprese concentrato particolarmente nell’industria assieme all’esplosione della cassa integrazione".

Mentre anche Confindustria, continua Fammoni, "oggi diffonde un dato sulla produzione industriale di gennaio febbraio gravemente negativo e che avrà inevitabili e pesanti ripercussioni sulle future rilevazione dell’occupazione. Quanti altri dati negativi - conclude - sono necessari per avere da parte del governo una politica all’altezza di questi problemi?".

È evidente che in questo clima economico e sociale, gli strappi del governo sulla contrattazione prima e sul diritto di sciopero ora, non possono che produrre effetti negativi.

In particolare sul diritto di sciopero Epifani ha ammonito severamente l'esecutivo di destra: "perché in materia di libertà del diritto di sciopero costituzionalmente garantito bisogna procedere con molta attenzione". E sempre rivolgendosi al goiverno il segretario generale della Cgil in merito alla riforma ha aggiunto: "Se c’è qualcosa da aggiustare rispetto a una normativa già rigida eventualmente lo si può vedere. Ma se si vogliono introdurre forzature che limitano poteri e prerogative è altra questione".

Il segretario generale della Cgil attende, infatti, di vedere cosa il governo deciderà effettivamente. ''Se intende, partendo dal problema del rispetto dei diritti degli utenti, ridurre una libertà fondamentale, la Cgil si opporrà ora e dopo").

Il numero uno della Cgil fa notare che il sindacato confederale "è sempre stato attento a conciliare il diritto di sciopero con quello degli utenti in alcuni settori particolari come i trasporti". Secondo Epifani, "tutto dipende da ciò che il governo decide e dalle questioni che porrà". Quindi, entra nel merito delle questioni: "Non si può decidere con il 51% uno sciopero perchè così l'altro 49% non può mai scioperare - spiega Epifani - lo sciopero virtuale non può essere mai sostitutivo ma aggiuntivo. Il fatto poi di dichiarare prima individualmente la propria adesione può essere un modo di rendere inutile lo sciopero. Attorno ai questi nodi - insiste - ruoterà il confronto se il governo intende aprirlo che su questo terreno deve stare molto attento".

La stampa vicina a Berlusconi è subito insorta proiettando ombre minacciose nel legittimo monito del leader sindacale. Alcuni commentatori si sono prodotti in editoriali dai toni violentemente anti-sindacali. Insomma, si va avanti lungo quella linea di spaccatura del Paese cui sembra ormai improntarsi ogni gesto dell'attuale establishment.

Ronde anti-stranieri, demagogia anti-sindacale, neo-clericalismo etico: la destra italiana appare convinta di poter giungere al redde rationem grazie alla copertura vaticana, a una sinistra politicamente umiliata nonché un mondo del lavoro frammentato tra un sindacato "rosso", un sindacato "giallo" e financo un sindacato "nero". Insomma, come dicevano gli antichi, anche le vespe fanno i favi.

2.16.2009

Tempesta in arrivo


Megale (Cgil) sul Pil in calo: "Nei prossimi mesi ci troveremo di fronte ad una vera e propria tempesta".
 
 
"Se a fine 2008 siamo a un - 2,6% vuol dire che nei prossimi mesi ci troveremo di fronte ad una vera e propria tempesta". È il commento del segretario confederale della Cgil, Agostino Megale, ai dati sul Pil diffusi oggi dall'Istat. "D'altro canto - continua - la media del 2008 segna quasi un - 1% che fino ad ottobre scorso nessuno immaginava: il Fmi allora stimava - 0,1%, l'Ocse - 0,4%, la stessa Confindustria a dicembre - 0,5% . Purtroppo, come si vede, previsioni che peggiorano di settimana in settimana".
 
    A questo punto, rileva il sindacalista, "è più che probabile che il dato già negativo di un -2% per il 2009 sarà invece molto più vicino a un -3% con tutte le conseguenze relative al calo della produzione industriale che, dopo il dato calo del 14,3 di dicembre, vedrà a febbraio un ulteriore peggioramento". Ma, denuncia Megale, "la gravità della caduta recessiva continua a registrare la totale assenza di una vera e propria terapia d'urto da parte del governo. Nel panorama europeo, misurando le risorse stanziate e i provvedimenti assunti in termini di politica economica, l'Italia si colloca all'ultimo posto: sia per quantità di risorse stanziate che per capacità di intercettare i bisogni relativi al sostegno all'occupazione, alla riduzione delle tasse sul lavoro e sulle pensioni".
 
    Per Megale "bisogna rilanciare la domanda interna e per questo abbiamo proposto che il governo investa un punto di Pil, pari a 16 miliardi, capaci di recuperare il fiscal drag del 2008, investendo 7/8 miliardi per ridurre di almeno 50 euro al mese le tasse sul lavoro a lavoratori e pensionati. Anche per questo - conclude - abbiamo avanzato la proposta di attivare un tavolo anti crisi per affrontare insieme occupazione, tutela dei redditi, e rilancio degli investimenti".

2.04.2009

SU ETICA ED ECONOMIA

Un grande filosofo italiano riflette sul disastro del liberismo selavaggio
di Fulvio Papi *)
Sulla “crisi finanziaria” ormai sono visibili alcune letture possibili che cercherò di riassumere nell’essenziale. Da un punto di vista rigorosamente teorico essa ha mostrato contemporaneamente il volto anarchico (nel senso che non ha una legge esterna alla propria riproduzione) e spontaneamente paranoide (nel senso che non riesce a vedere altro comportamento al di fuori della propria riproduzione) del capitalismo.

Il tema attuale delle “regole” scopre proprio questo problema. La crisi finanziaria sotto questo profilo non è un isolato episodio di “colpa” ma appartiene a uno stile generalizzato che non è detto sia impossibile addomesticare, ma che è stato vincente nella nostra congiuntura. Le distruzioni ambientali prodotte dall'insediamento nel mondo di numerose multinazionali, dal punto di vista dei danni procurati, non sono di certo trascurabili, anche se questi danni sono meno visibili poiché non hanno l’effetto mondiale immediato di una crisi finanziaria. Prima di esaminare le letture possibili e prevalenti della crisi, desidererei aggiungere due considerazioni.

Occorre domandarsi seriamente il perché sia dovuta proprio capitare una (prevedibilissima) crisi per mettere in una luce pubblica i guasti materiali e simbolici di un assolutismo liberista, al di là del delirio finanziario, quando da almeno mezzo secolo era chiaro che il calcolo della “ricchezza” secondo il famoso PIL è un calcolo monetario che ha poco a che vedere con le concrete condizioni di vita dell'”ambiente”, in un significato lato che comprende la natura e gli uomini socialmente esistenti. Secondo: i titoli che alla fine del loro tragitto finanziario rappresentano una ricchezza virtuale, all'origine derivano da un comportamento finanziario che, con il sistema del credito, mostrava possibile la realizzazione di un'idea sociale di felicità: la “propria casa” che è un desiderio di identità, di sicurezza, di difesa, di promozione sociale che, in altra epoca, sarebbe declinato nella dimensione del risparmio e dell’insieme delle virtù sociali che vi sono connesse.

Alla “crisi finanziaria” è quindi non solo presente, ma scatenante una immagine sociale di felicità che è la traduzione economica del desiderio come fondamentale in un ambiente sociale di capitalismo sfrenato. Andare a fondo nell'analisi della crisi significa prendere in considerazione il rapporto reale che si sottende a “questa traduzione economica del desiderio” che è, tra le varie cose, la manipolazione immaginaria della povertà.

Dicevo delle differenti letture della crisi:
1) Una tesi molto forte, soprattutto perché corrisponde a poteri reali, si pone il problema di trovare alcune regole generali, a livello finanziario, al fine di evitare la ripetizione di crisi di questo tipo. In sostanza, nell'immediato, salvare con un intervento pubblico la catastrofe e poi dare una regolamentazione ai criteri del credito, ritenendo in generale che il sistema possa riprendere a funzionare con “regole” considerate comunque buone e tali da provocare i migliori effetti possibili a livello sociale. Queste regole globali tuttavia non le sta elaborando nessuno che conti. Quanto agli interventi immediati non ho la competenza per entrare nel discorso, tuttavia non trascurerei l’ipotesi di chi teme che essi, non selezionati, possano essere nella medesima direzione della crisi.

2) La crisi finanziaria mostra gli effetti sbagliati del capitalismo contemporaneo in due direzioni tra loro connesse. Una: l'offerta di consumi spesso superflui, futili ad alto indice di spreco nelle aree ricche con effetti di ingiustizia nei confronti di larghe parti del mondo e, contemporaneamente, l'insostenibilità planetaria di uno sviluppo di questo genere. E da questo punto di vista si aprono due problemi che hanno una loro connessione, anche se non meccanica. L'uno è la trasformazione, all'interno del mercato, della produzione e dei consumi. L'altro è l'intervento di una dimensione etica nel processo economico.

3) Per quanto riguarda il primo punto è possibile immaginare che si possa sviluppare una dinamica conflittuale anche all'interno della dimensione economica capitalistica tra (per semplificare) “novatori” e “rendite di posizione”. E’ ovvio che dal punto di vista pubblico si dovrebbe immaginare il massimo appoggio ai “novatori”. Il che comporterebbe tutta una serie di modificazioni rilevanti, per esempio nel campo delle priorità urbanistiche, energetiche, ambientali, di comportamento culturale. In una prospettiva del genere vi è una dimensione etica - la precauzione - che è in grado di mostrare la sua competitività nel mercato e che ovviamente dovrebbe essere sostenuta dall'intervento pubblico.

4) Se invece si assume la dimensione dell'etica come “fondamento” il problema è molto più complesso. Può essere esemplificato così: nel sistema capitalistico da sempre esiste una forma di razionalità calcolatoria e previsionale relativa alla redditività del capitale impiegato. Ebbene, una concezione etica che non crede affatto alla riproduzione capitalistica come al migliore dei mondi possibili dovrebbe misurare gli effetti dell’investimento non solo relativamente al calcolo previsionale della redditività, ma in relazione al calcolo degli effetti sociali complessivi della produzione, sia in quanto oggetto della produzione, sia in quanto impatto sociale sulle popolazioni, sui consumi, sul territorio eccetera. La riproduzione del capitale impiegato dovrebbe calcolare la positività dei suoi effetti già nel disegno produttivo (in Italia non conosco che il caso Olivetti ).

Ma per stare a questo livello occorre pensare con chiarezza ad alcuni elementi fondamentali: il soggetto etico, anzi il modo di essere un soggetto etico, cioè l’assiomatica morale cui ci si riferisce nella propria azione. (Il “soggetto” è qui ovviamente collettivo).

a) Questo “soggetto” può essere obbligato a seguire un disegno etico in uno stato di natura totalitaria. Ma questo è “platonismo da quattro soldi” poiché nella nostra storia recente gli stati totalitari hanno mostrato e mostrano (come la Cina, sfruttamento del territorio e degli uomini) tutt'altro.

b) Oppure il paradigma etico può derivare da un comando religioso, e in questo caso la critica alla autoregolazione dell'economia deriva da una vera e propria “concezione del mondo” che investe tuttavia ogni sfera della vita. Quivi il fine dell'uomo - superiore al fine immanente alla economia che domina la scena mondiale - è letto in un sapere religioso dell'essere “secondo la legge di Dio”, e tramite una pedagogia pastorale o autoritaria, secondo la prospettiva in cui si colloca il giudizio. Basti pensare ai temi della bioetica, della famiglia, della procreazione, sui quali esistono prospettive etiche profondamente divergenti. La visione del mondo, “pastorale o autoritaria” come mostra tutta la storia moderna, non è condivisibile, nel suo insieme, da un’etica laica dove gli assiomi etici sono differenti (anche se vi sono validi motivi di convergenza nella dimensione di un “umanesimo della giustizia”). La secolarizzazione ha portato alla diffusione di un'etica laica, fondata sulla libera autodeterminazione dell'uomo in un contesto di valori egualitari, quindi in una prospettiva - desiderata - di universalità. E tuttavia è ormai comune riconoscere che, a latere, è invece proliferato un ethos che ha perduto qualsiasi dimensione universale e, nello spirito del capitalismo sfrenato e dei suoi effetti immaginari, è declinato in direzione di una libertà individualistica senza tempo, progetto, alterità, che nella sua possessività ripone la propria identificazione e la propria idea di felicità, e probabilmente è priva, all'origine, di elementi culturali di contrasto.

Ed è proprio per queste ragioni che, al di là delle strategie del sottosistema politico, mi pare fondamentale tentare di riportare nel discorso comune, si intende nei termini del mondo attuale, alcuni elementi fondamentali che sono propri dell'etica socialista. Quivi può coesistere la elaborazione concettuale dalla critica economico-sociale alla dimensione del senso della vita.

*) Fulvio Papi (Trieste, 1930), direttore dell'Avanti! nei primi ammi Sessanta, professore emerito di filosofia teoretica dell’Università di Pavia, è uno tra i maggiori filosofi italiani contemporanei. Erede della scuola di Milano, ne ha elaborato i criteri in modo originale e proprio. Ha pubblicato autorevoli testi di storia della filosofia, filosofia morale, estetica e politica: circa venticinque volumi, tra i quali Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno (Firenze, 1968), Utilità, oggetto e scrittura in Marx (Milano, 1983), Lezioni sulla Scienza della logica di Hegel (Milano, 1998). Attualmente ha in corso un’opera dal titolo Il lusso e la catastrofe. Nel 2000 è stato insignito dell'Ambrogino d'oro quale cittadino benemerito della Città di Milano.

1.19.2009

DONNE IN PENSIONE A 65 ANNI PRIVILEGIO O DISCRIMINAZIONE?

Un gruppo di studio dell'Associazione Italiana Analisti Finanziari, composto da Laura Vitale, Alfonso Scarano e Tiziana Tafaro, ha stimato che con le leggi attuali la pensione delle lavoratrici risulta, a parita' di stipendio,  piu' bassa di quella dei lavoratori di circa il 30%. E frattanto il governo, debitore di una risposta alla Corte di Giustizia sulla pensione a 65 anni anche le donne, ha preso una posizione interlocutoria, nel senso che l'eta pensionabile verrebbe pian piano equiparata tra i due sessi. Ma verranno pian piano promosse anche le pari opportunità? In caso contrario, la disparità che penalizza le donne si acuirebbe ulteriormente.

 
di M. Sironi

Gli antefatti sono noti: in seguito ad un ricorso della Commissione Europea contro l'Italia, accusata di discriminazione verso le donne, la Corte di Giustizia ha  emesso una sentenza per la quale anche le  lavoratrici italiane dovranno andare in pensione di vecchiaia non piu' a 60 anni, ma a 65 come gli uomini. Martedi' prossimo, 13 gennaio, e' la data entro la quale il governo dovra' comunicare alla Corte di Giustizia che cosa intende fare, ma finora i ministri interessati (Maurizio Sacconi per il welfare e Mara Carfagna per le pari opportunità) non si sono ancora espressi.  Si è espresso  invece il ministro Brunetta, favorevole all'innalzamento dell'età in forma volontaria, suscitando un vivace dibattito.  Essendo le donne gravate dalle incombenze domestiche, hanno replicato varie sindacaliste e parlamentari dell'opposizione,  sarebbe meglio fare piu' asili nido, anziche' obbligarle a lavorare 5 anni in piu'.  Secondo questa impostazione la pensione a 60 anni, anziché un'ingiustizia, rappresenta piuttosto un meritato riposo per chi ha fatto anni e anni di doppio lavoro, in casa e fuori.

 

    I  dati statistici, raccolti dagli analisti, raccontano però una storia diversa. Le donne si presentano sul mercato del  lavoro alla stessa eta' dei maschi, ma tra i 30 e i 35 anni la percentuale di abbandoni diventa assai piu' forte tra le lavoratrici, mentre i rientri dopo i 45 anni (a figli gia' cresciuti) sono scarsissimi. Anzi, lo stillicidio continua salvo fermarsi dopo i 55 anni e raggiungere valori perecentuali analoghi tra i due sessi. Secondo Giuliano Cazzola, vice presidente della Commissione Lavoro della Camera, ''il fatto che le donne non vedano l'ora di andare in pensione e' un luogo comune''. E se alcune vogliono rimanere solo perche'  innamorate del loro lavoro, moltissime vorrebbero andare avanti per puro calcolo economico, perchè  è difficile campare con i quattro soldi della pensione che hanno maturato. Dati alla mano, un'età pensionistica inferiore di 5 anni si traduce in una pensione piu' bassa del 12-15%, che per di piu' va ad abbattersi su una popolazione femminile già  comunque penalizzata negli stipendi e nella carriera rispetto ai colleghi maschi.

   

Ma non e' tutto.  Anche le nuove regole in materia di TFR, che dal 2007 viene destinato  alla nascente previdenza integrativa, risultano penalizzanti per le donne . Infatti il coefficiente che viene utilizzato per calcolare la rendita del capitale accumulato (la pensione integrativa, appunto) è tale e quale quello delle assicurazioni private.  Le quali usano tavole attuariali diverse per gli uomini e per le donne, ben sapendo che queste ultime sono piu' longeve e quindi hanno ''una maggiore vita residua''.  Cosi', spiegano gli analisti, a parita' di eta' pensionistica e di capitale accumulato alle donne verra' data una pensione integrativa piu' bassa del 12-18%. Fatte le debite somme,  allo stato attuale chi ha la sfortuna di nascere donna e di lavorare in Italia sa già che  le tocchera' una pensione piu' bassa del 25-35% rispetto al collega maschio. Basterebbe questo per aver voglia di emigrare.