Un grande filosofo italiano riflette sul disastro del liberismo selavaggio
di Fulvio Papi *)
Sulla “crisi finanziaria” ormai sono visibili alcune letture possibili che cercherò di riassumere nell’essenziale. Da un punto di vista rigorosamente teorico essa ha mostrato contemporaneamente il volto anarchico (nel senso che non ha una legge esterna alla propria riproduzione) e spontaneamente paranoide (nel senso che non riesce a vedere altro comportamento al di fuori della propria riproduzione) del capitalismo.
Il tema attuale delle “regole” scopre proprio questo problema. La crisi finanziaria sotto questo profilo non è un isolato episodio di “colpa” ma appartiene a uno stile generalizzato che non è detto sia impossibile addomesticare, ma che è stato vincente nella nostra congiuntura. Le distruzioni ambientali prodotte dall'insediamento nel mondo di numerose multinazionali, dal punto di vista dei danni procurati, non sono di certo trascurabili, anche se questi danni sono meno visibili poiché non hanno l’effetto mondiale immediato di una crisi finanziaria. Prima di esaminare le letture possibili e prevalenti della crisi, desidererei aggiungere due considerazioni.
Occorre domandarsi seriamente il perché sia dovuta proprio capitare una (prevedibilissima) crisi per mettere in una luce pubblica i guasti materiali e simbolici di un assolutismo liberista, al di là del delirio finanziario, quando da almeno mezzo secolo era chiaro che il calcolo della “ricchezza” secondo il famoso PIL è un calcolo monetario che ha poco a che vedere con le concrete condizioni di vita dell'”ambiente”, in un significato lato che comprende la natura e gli uomini socialmente esistenti. Secondo: i titoli che alla fine del loro tragitto finanziario rappresentano una ricchezza virtuale, all'origine derivano da un comportamento finanziario che, con il sistema del credito, mostrava possibile la realizzazione di un'idea sociale di felicità: la “propria casa” che è un desiderio di identità, di sicurezza, di difesa, di promozione sociale che, in altra epoca, sarebbe declinato nella dimensione del risparmio e dell’insieme delle virtù sociali che vi sono connesse.
Alla “crisi finanziaria” è quindi non solo presente, ma scatenante una immagine sociale di felicità che è la traduzione economica del desiderio come fondamentale in un ambiente sociale di capitalismo sfrenato. Andare a fondo nell'analisi della crisi significa prendere in considerazione il rapporto reale che si sottende a “questa traduzione economica del desiderio” che è, tra le varie cose, la manipolazione immaginaria della povertà.
Dicevo delle differenti letture della crisi:
1) Una tesi molto forte, soprattutto perché corrisponde a poteri reali, si pone il problema di trovare alcune regole generali, a livello finanziario, al fine di evitare la ripetizione di crisi di questo tipo. In sostanza, nell'immediato, salvare con un intervento pubblico la catastrofe e poi dare una regolamentazione ai criteri del credito, ritenendo in generale che il sistema possa riprendere a funzionare con “regole” considerate comunque buone e tali da provocare i migliori effetti possibili a livello sociale. Queste regole globali tuttavia non le sta elaborando nessuno che conti. Quanto agli interventi immediati non ho la competenza per entrare nel discorso, tuttavia non trascurerei l’ipotesi di chi teme che essi, non selezionati, possano essere nella medesima direzione della crisi.
2) La crisi finanziaria mostra gli effetti sbagliati del capitalismo contemporaneo in due direzioni tra loro connesse. Una: l'offerta di consumi spesso superflui, futili ad alto indice di spreco nelle aree ricche con effetti di ingiustizia nei confronti di larghe parti del mondo e, contemporaneamente, l'insostenibilità planetaria di uno sviluppo di questo genere. E da questo punto di vista si aprono due problemi che hanno una loro connessione, anche se non meccanica. L'uno è la trasformazione, all'interno del mercato, della produzione e dei consumi. L'altro è l'intervento di una dimensione etica nel processo economico.
3) Per quanto riguarda il primo punto è possibile immaginare che si possa sviluppare una dinamica conflittuale anche all'interno della dimensione economica capitalistica tra (per semplificare) “novatori” e “rendite di posizione”. E’ ovvio che dal punto di vista pubblico si dovrebbe immaginare il massimo appoggio ai “novatori”. Il che comporterebbe tutta una serie di modificazioni rilevanti, per esempio nel campo delle priorità urbanistiche, energetiche, ambientali, di comportamento culturale. In una prospettiva del genere vi è una dimensione etica - la precauzione - che è in grado di mostrare la sua competitività nel mercato e che ovviamente dovrebbe essere sostenuta dall'intervento pubblico.
4) Se invece si assume la dimensione dell'etica come “fondamento” il problema è molto più complesso. Può essere esemplificato così: nel sistema capitalistico da sempre esiste una forma di razionalità calcolatoria e previsionale relativa alla redditività del capitale impiegato. Ebbene, una concezione etica che non crede affatto alla riproduzione capitalistica come al migliore dei mondi possibili dovrebbe misurare gli effetti dell’investimento non solo relativamente al calcolo previsionale della redditività, ma in relazione al calcolo degli effetti sociali complessivi della produzione, sia in quanto oggetto della produzione, sia in quanto impatto sociale sulle popolazioni, sui consumi, sul territorio eccetera. La riproduzione del capitale impiegato dovrebbe calcolare la positività dei suoi effetti già nel disegno produttivo (in Italia non conosco che il caso Olivetti ).
Ma per stare a questo livello occorre pensare con chiarezza ad alcuni elementi fondamentali: il soggetto etico, anzi il modo di essere un soggetto etico, cioè l’assiomatica morale cui ci si riferisce nella propria azione. (Il “soggetto” è qui ovviamente collettivo).
a) Questo “soggetto” può essere obbligato a seguire un disegno etico in uno stato di natura totalitaria. Ma questo è “platonismo da quattro soldi” poiché nella nostra storia recente gli stati totalitari hanno mostrato e mostrano (come la Cina, sfruttamento del territorio e degli uomini) tutt'altro.
b) Oppure il paradigma etico può derivare da un comando religioso, e in questo caso la critica alla autoregolazione dell'economia deriva da una vera e propria “concezione del mondo” che investe tuttavia ogni sfera della vita. Quivi il fine dell'uomo - superiore al fine immanente alla economia che domina la scena mondiale - è letto in un sapere religioso dell'essere “secondo la legge di Dio”, e tramite una pedagogia pastorale o autoritaria, secondo la prospettiva in cui si colloca il giudizio. Basti pensare ai temi della bioetica, della famiglia, della procreazione, sui quali esistono prospettive etiche profondamente divergenti. La visione del mondo, “pastorale o autoritaria” come mostra tutta la storia moderna, non è condivisibile, nel suo insieme, da un’etica laica dove gli assiomi etici sono differenti (anche se vi sono validi motivi di convergenza nella dimensione di un “umanesimo della giustizia”). La secolarizzazione ha portato alla diffusione di un'etica laica, fondata sulla libera autodeterminazione dell'uomo in un contesto di valori egualitari, quindi in una prospettiva - desiderata - di universalità. E tuttavia è ormai comune riconoscere che, a latere, è invece proliferato un ethos che ha perduto qualsiasi dimensione universale e, nello spirito del capitalismo sfrenato e dei suoi effetti immaginari, è declinato in direzione di una libertà individualistica senza tempo, progetto, alterità, che nella sua possessività ripone la propria identificazione e la propria idea di felicità, e probabilmente è priva, all'origine, di elementi culturali di contrasto.
Ed è proprio per queste ragioni che, al di là delle strategie del sottosistema politico, mi pare fondamentale tentare di riportare nel discorso comune, si intende nei termini del mondo attuale, alcuni elementi fondamentali che sono propri dell'etica socialista. Quivi può coesistere la elaborazione concettuale dalla critica economico-sociale alla dimensione del senso della vita.
*) Fulvio Papi (Trieste, 1930), direttore dell'Avanti! nei primi ammi Sessanta, professore emerito di filosofia teoretica dell’Università di Pavia, è uno tra i maggiori filosofi italiani contemporanei. Erede della scuola di Milano, ne ha elaborato i criteri in modo originale e proprio. Ha pubblicato autorevoli testi di storia della filosofia, filosofia morale, estetica e politica: circa venticinque volumi, tra i quali Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno (Firenze, 1968), Utilità, oggetto e scrittura in Marx (Milano, 1983), Lezioni sulla Scienza della logica di Hegel (Milano, 1998). Attualmente ha in corso un’opera dal titolo Il lusso e la catastrofe. Nel 2000 è stato insignito dell'Ambrogino d'oro quale cittadino benemerito della Città di Milano.