11.22.2016

ECONOMIA CIRCOLARE

Il nuovo termine “economia circolare” che si affaccia nelle agende politiche è preciso, ma non dà conto del cambiamento di civiltà che esso implica. Perché, nell’era del consumismo terminale, l’antico precetto della cura e della conserva­zione della natura e dei manufatti diventerebbe sovversione del “disordine costituito”.

di Marco Morosini

In questa era di consumismo terminale ormai si ricorre ai robot non solo per produrre un paio di blue-jeans, ma anche per consumarli, già prima di venderli.

    Ecco, una “economia circolare” è il contrario di tutto questo. Essa mira infatti a prolungare la vita dei manufatti e dei materiali, a farli “circolare” più a lungo nell’economia, e a ridurne così la produzione e l’impatto ambientale.

    Secondo l’architetto Walter Stahel, uno dei padri dell’economia circolare, si tratta di sostituire l’attuale “paradigma del fiume” con un “paradigma del lago”: il sistema economico continua a essere concepito come un fiume, del quale dovremmo continuare a raddoppiare la portata (pro capite) ogni dieci o vent’anni, a prescindere dalle quantità di nutrienti o di veleni che esso contiene. Il PIL fu concepito proprio per misurare la portata del “fiume dell’economia”.  I fautori di un’economia circolare invece concepiscono il sistema economico come un lago. Per loro il compito della politica e dei cittadini è di preservare e migliorare la qualità e l’accessibilità per tutti di questo lago, ma senza aumentare la portata del fiume affluente ed effluente più dello strettamente necessario. Per misurare il successo sociale secondo questo nuovo paradigma l’OCSE ha concepito il Better Life Index (BLI) e l’ISTAT, in Italia, l’indice di Benessere Equo e Sostenibile (BES).

    In un’economia circolare il prelievo di materiali dalla natura è ridot­to al minimo indispensabile. Ciò avviene grazie all’aumento della du­ra­ta, del riuso, dell’ammodernamento, della riparabilità, e del riciclo dei manufatti e dei materiali. Essi 'circolano' così nell’economia molto più a lungo, invece di attraversarla come merci effimere per uscirne presto come spazzatura e inquinamento. Secondo molti studiosi le tec­nologie attuali potrebbero già darci sufficiente benessere pur usando un decimo delle materie prime e un terzo dell’energia rispetto ad oggi. Ri­duzioni così rilevanti dei consumi materiali sono perseguite per esem­pio dalla strategia energetica elvetica per una “società da 2000 watt” (2000 watt pro capite, invece degli attuali 6000) dall’Institut de la du­rée di Ginevra, dal  Factor 10 club, dal think-tank francese  Negawatt.

    Allora, perché questa 'economia del buon senso' non prende piede? Le vie dell’oro ci aiutano a capirlo. Una parte dell’oro mondiale lavo­rato circola da millenni, fuso e rifuso in innumerevoli manufatti: poco materiale genera nel tempo molto valore d’uso. Un’altra parte dell’oro mondiale invece è estratta da sottoterra con molti danni ambientali e con molta energia, per poi tornare subito sottoterra nei caveau delle banche: molti materiali ed energia non producono alcun valore d’uso. Un’altra parte dell’oro estratto torna presto sottoterra nelle discariche in cui si buttano i telefonini, o i loro resti, e altri dispositivi che ne con­tengono piccole quantità: molti materiali ed energia generano un breve e modesto valore d’uso. La prima via dell’oro è il prototipo dell’economia circolare, la seconda lo è dell’economia lineare.

    Le nostre tecnologie già ci permetterebbero di por fine all’abuso e alla dissipazione dell’oro e di ridurne di molto i relativi danni ambien­tali. Sono però le nostre idee e ideologie che ci impediscono di farlo: da una parte ci ostiniamo in convenzioni finanziarie che danno all’oro un valore di scambio svincolato dal suo valore d’uso; dall’altra parte, oggi in certi casi  “conviene” più buttar via l’oro che non conservarlo a causa di un sistema fiscale che punisce i “beni” e che premia i “mali”: la manodopera (di cui abbondiamo e in parte non sappiamo cosa fare) è resa più costosa da alti prelievi fiscali e previdenziali, che inducono a sostituirla con sempre più macchine, più materiali, più energia. Invece i materiali e l’energia (relativamente scarsi, quindi da risparmiare) sono poco tassati, o addirittura sono sovvenzionati, il che ne stimola l’uso e lo spreco. Per esempio, le sovvenzioni mondiali di denaro pubblico per favorire l’uso dei combustibili fossili, sono stimate a più di 500 milia­rdi di dollari l’anno. Secondo molti studiosi urge quindi una riforma fiscale ecologica che inverta il peso delle tassazioni: meno tasse sul lavoro, più tasse su energia e materiali. «Disoccupati diventerebbero così i chilowatt e le tonnellate, non le persone», dice Ernst Ulrich von Weiszaecker, fondatore del Wuppertal Institut.

    Nel 1976 Walter Stahel e Genevieve Reday pubblicarono un rapporto per la Commissione Europea il cui titolo può sembrare un errore di stampa: Il potenziale per sostituire l’energia con la manodopera. Ma come? Da millenni 'progresso' non vuol dire far lavorare le macchine invece degli uomini?

    E’ vero. Ma due secoli di fulminante successo della civiltà delle macchine hanno creato un problema di scala: la popolazione umana e le sue attività materiali hanno raggiunto tali dimensioni da trasformare in boomerang quello che per miliardi d’individui fu reale progresso. Oggi troppo uso e troppo spreco di troppi materiali e di troppa energia compromettono equilibri planetari millenari, e connotano ormai una nuova era che gli scienziati della Terra chiamano “Antropocene”.

    «Sostituire l’energia con la manodopera» (Walter Stahel) non vuol dire «rinunciare alla lavatrice», né al progresso tecnico. Vuol dire invece dare una direzione al progresso, usando il genio e la manodopera per prolungare la vita delle cose, non per abbreviarla.

    “Institut de la durée” e “Product-life Institute” si chiama, con pertinenza, l’organismo creato nel 1982 a Ginevra da Walter Stahel e da Orio Giarini, professori universitari e consulenti di aziende, governi e istituzioni internazionali su come ridisegnare per una maggior durata i manufatti, le infrastrutture, i servizi e i cicli di materiali. 

    Forse però il contributo di Giarini e Stahel nell’economia politica è ancora più importante di quello nell’eco-progettazione. In libri come Dialogue on wealth and welfare e The performance economy, essi ridefiniscono infatti il concetto di valore economico: il valore è nella prestazione realmente resa dalle cose, non nella loro produzione e nel loro commercio.

    Questa idea semplice, fu formulata chiaramente da Aristotele, nella sua distinzione tra oiconomia (cura della casa) e crematistica (cura del denaro), ma fu abbandonata da tanti economisti moderni quando l’economia politica sembrò ridursi a econometria: siccome è difficile o impossibile misurare direttamente l’utilità d’uso delle cose, misuriamo, al suo posto, la frequenza e la quantità della loro produzione, della loro compravendita, della loro distruzione.

Socrates Plato Aristotle (da una T-Shirt studentesca USA)

    Ne è così scaturita un’economia (e una politica, al suo servizio) che mira al continuo raddoppio della produzione e della distruzione delle cose, invece che al loro uso e alla loro cura. Abbandonare questa concezione dell’economia sarebbe una vera contro-rivoluzione: nell’era del consumismo terminale, l’antico precetto della cura e della conservazione della natura e dei manufatti diventerebbe sovversione del disordine costituito.