5.27.2015

Grecia senza soldi

Da Avanti! online

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Non può rimborsare l’Fmi

 

La Grecia non ha più soldi. Ha già raschiato il fondo del barile. In sostanza senza un accordo con i suoi creditori, non sarà più in grado di effettuare il pagamento da 1,5 miliardi di dollari al Fmi, sul debito in scadenza il prossimo 5 giugno. È quanto ha detto il portavoce del governo in Parlamento, Nikos Filis: “Adesso i negoziati devono arrivare al punto – dice il portavoce – Questo è il momento della verità, il 5 giugno. Se non si arriverà a un accordo – aggiunge – avremo un problema di finanziamento, non ci saranno più soldi per i pagamenti”.

    Il rimborso al Fmi di 750 milioni di dollari della settimana scorsa è stato possibile solo utilizzando i fondi di riserve Sdr (diritti speciali di prelievo) detenute presso lo stesso istituto di Washington. “Non riceviamo finanziamenti da un anno – dice ancora Filis – e adesso abbiamo finito i soldi per il pagamenti ai creditori esteri”. Il governo di Atene, spiega il portavoce, intende tenersi i soldi per pagare le pensioni e gli stipendi al pubblico impiego, prima di rimborsare il Fmi”

    Un altro allarme arriva da Moody’s che prospetta un outlook “negativo” per le banche greche e ritiene nel prossimi 12-18 mesi le “tensioni non si allenteranno”, anzi “molto probabilmente” verrà imposto un “controllo sui capitali e un congelamento dei depositi”. Infatti secondo Moody’s le banche greche “resteranno fortemente dipendenti dai finanziamenti della banca centrale” e avranno “molto probabilmente bisogno di capitali aggiuntivi”. L’outlook negativo è legato ad un forte “deterioramento dei finanziamenti e della liquidità delle banche”. A rincarare la dose di incertezza ci si mette anche il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble che in un’intervista al Wall Street Journal e a Les Echos afferma: “Non posso ripetere quanto dissi nel 2012, cioè che la Grecia non sarebbe mai andata in default”.

    Intanto i negoziati per arrivare alla revisione del programma di aiuti entro la scadenza di fine giugno continuano, e in particolare sono stati fatti dei progressi sui punti controversi che riguardano la riforma dell’Iva, quella delle pensioni e del mercato del lavoro. Almeno è questo quanto si apprende da Bruxelles. Le proposte su questi tre temi presentate da Atene, e in particolare l’ipotesi di una semplificazione del sistema dell’Iva, sarebbero “utili per la discussione e molto concrete”.

    Il cosiddetto “gruppo di Bruxelles”, formato dai rappresentanti del governo greco, e da quelli delle istituzioni coinvolte (Ue, Bce, Fmi e fondo salvastati Efsf) ricominciano a trattare e andranno avanti fino a sabato con una serie di conferenze telefoniche. E’ difficile che ci si possa aspettare qualcosa di decisivo dal vertice dei leader europei del 21 e 22 maggio a Riga. Mentre, invece, per la prossima settimana è già da tempo previsto un G7 dei ministri delle Finanze a Dresda, in Germania, per ora non è in programma la convocazione di nessuna nuova riunione dell’Eurogruppo.

    Del vertice di Riga intende approfittare il premier greco, Alexis Tsipras per sottoporre un piano di ristrutturazione del debito greco. All’ordine del giorno del vertice infatti non c’è il caso greco ma il partenariato con l’est europeo e quindi la crisi ucraina. La manovra di Tsipras sarebbe dunque un modo per aggirare l’aggiustamento tecnico dell’attuale programma di aiuti con il Gruppo di Bruxelles e l’Eurogruppo. Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroem Dijsselbloem ha già detto che la questione della ristrutturazione del debito e quindi l’eventuale allungamento delle scadenze potrà essere discussa solo dopo che sarà raggiunto un’intesa sull’attuale programma di aiuti.

 

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Le “too big to fail”

 di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

La Deutsche Bank ha concordato con l'autorità americana di controllo finanziario e con quella inglese, il pagamento di una multa di 2,5 miliardi di dollari per le manipolazioni del tasso Libor. In cambio verrà prosciolta da ogni altra accusa ed il procedimento penale verrà chiuso.

    Lo stesso era avvenuto lo scorso novembre con le 6 banche "too big to fail" – la JP Morgan, la Citigroup, la Bank of America, la Royal Bank of Scotland, la HSBC e l'UBS – che, per lo stesso reato, pagarono complessivamente una penale di 4,3 miliardi.

    Come abbiamo in passato già riportato, il London Interbank Offer Rate, sulla base di informazioni fornite da una ventina di grandi banche internazionali, viene deciso giornalmente alla City dalla British Bankers Association. Diventa il punto di riferimento per tutti gli altri tassi di interesse in un sistema globale che registra contratti finanziari per un volume di 360 trilioni di dollari. Se le suddette banche fanno cartello e violano l'antitrust possono "ritoccare" il tasso a loro vantaggio con profitti stratosferici. Così hanno fatto!

    Allo stesso tempo, in cambio della totale impunità, 5 grandi banche – questa volta si tratta di JP Morgan, Citigroup, Royal Bank of Scotland, Barclays e UBS – si stanno mettendo d'accordo con le autorità americane per pagare una multa miliardaria per le manipolazioni dei mercati Forex, dove si definiscono i valori delle valute.

    In verità l'indagine coinvolge almeno 15 banche internazionali "too big to fail" e la multa finale potrebbe arrivare fino a qualche decina di miliardi di dollari.

    Il meccanismo legale Usa è molto semplice. Se la truffa viene scoperta il tribunale istruisce il caso. Ad un certo punto la banca indagata, se colpevole, ammette la colpa (plea guilty) e accetta il cosiddetto Accordo di Sospensione del Procedimento. Con il Deferred Prosecution Agreement la colpa e l'accusa vengono rimosse, solitamente in cambio del pagamento di una multa. Così le banche mantengono anche lo status di "creditori privilegiati" che permette loro di raccogliere capitali in modo agevolato. Nessuno viene accusato di un qualsiasi atto criminale e nessuno finisce in galera!

    L'ammissione di colpa è come un esercizio di arte scenica. La multa di fatto è un "singhiozzo passeggero". Del resto come si può tollerare che simili scandalosi comportamenti vengano considerati piccoli incidenti di percorso e puniti soltanto con sanzioni pecuniarie? E' provato che alcune di queste banche hanno venduto titoli tossici, che hanno provocato la crisi finanziaria, hanno falsificato documenti, hanno partecipato ad operazioni di lavaggio dei soldi sporchi, di evasione fiscale e di piramidi finanziarie speculative.

    Mentre erano sotto indagine per la truffa del Libor le stesse banche hanno continuato con le manipolazioni del Forex. Evidentemente tanta spregiudicatezza deriva dal fatto che il dipartimento di Giustizia americano e le altre istituzione di controllo sostengono che per loro "la banca non è una operazione criminale". Di conseguenza anche i top manager non possono che essere onesti. Altrimenti la giustizia americana avrebbe dovuto applicare il corpus legislativo RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act), che sancisce che, quando più persone concorrono in un atto criminale, scatta l'accusa di "conspiracy". Esso viene applicato anche per smantellare le bande della mafia e del crimine organizzato.

    Le istituzioni governative americane, ma anche quelle europee, preferiscono, invece, il pagamento delle multe. Il che significa chiedere una sorta di "tangente" al contrario. Solitamente il corruttore paga prima per un affare fuori dalla legalità, qui, invece, salda dopo per garantirsi l'immunità.

    Un tale comportamento da parte delle istituzioni pubbliche dà un messaggio devastante, in particolare ai giovani. Si fa intendere che in economia, e non solo, prevalga la legge del più forte. Secondo noi ciò è ancor più grave anche rispetto ai soldi arraffati con le varie truffe.

    Il cerchio poi si chiude quando si apprende il "via vai" di alti dirigenti tra le banche e le varie agenzie di controllo e viceversa. Negli Usa è normale, se si considera che l'ex governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ora agisce per conto dell'hedge fund Citadel LLC di Chicago e di Pimco, un gigante nella gestione di fondi comuni, e prima lo stesso ministro del Tesoro, Timothy Geithner, offriva i suoi servizi all'impresa di private equity Warburg Pincus. Tutto legittimo naturalmente, ma non aiuta a creare uno spirito di fiducia nelle istituzioni.

    Questa è l'America, di cui qualcuno vorrebbe imporre il modello. Noi siamo per l'Europa: con tutti i limiti e le inefficienze, le sue regole ci sembrano meno scandalose.

 

5.18.2015

La crisi del settore energetico

Un nuovo rischio sistemico?

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Uno degli effetti dei Quantitative easing (Qe) delle banche centrali è stato quello di provocare un certa volatilità sui prezzi delle commodity. Il solo annuncio del Qe europeo da parte della Bce, come è noto, determinò in quel periodo variazioni quotidiane fino al 9% del prezzo del petrolio.

    In passato molta nuova liquidità ha generato l’aumento della produzione energetica, soprattutto di petrolio e di gas, anche con l’accensione di nuovi debiti.

    Molti analisti, anche la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), consapevoli e preoccupati delle eventuali conseguenze sistemiche sul settore e sull’intera economia e finanzia mondiali, pur sorvolando sulle ragioni profonde di geopolitica, si stanno interrogando sulle altre ragioni dell’anomalo quanto rilevante crollo del prezzo del petrolio. 

    Oggi il debito totale del settore del petrolio e del gas è di circa 2,5 trilioni di dollari. Rispetto ai livelli del 2006 è cresciuto due volte e mezzo. Attualmente sono in circolazione obbligazioni legate al settore per 1,4 trilioni di dollari. Dal 2006 vi è stato un aumento annuo del 15%. Il debito residuo è con le banche.

    Negli Usa i debiti del settore energetico sono cresciuti a ritmi più alti di quelli degli altri settori industriali. Essi rappresentano il 15% dei principali indici di debito, sia investment grade (ritenuto affidabile dagli investitori istituzionali) che ad alto rendimento, mentre erano il 10% soltanto 5 anni prima. Recentemente le compagnie petrolifere americane hanno preso a prestito “alla grande” tanto che incidono per il 40% sul totale dei nuovi prestiti sindacati, quelli erogati da un consorzio di banche, e delle nuove obbligazioni in circolazione.

    La maggior parte di questi crediti è andata alle imprese minori, quelle impegnate nell’esplorazione e nella produzione del gas da scisti bituminosi. Infatti, mentre per le cosiddette “Seven sisters” il rapporto debiti/attività è rimasto costante, per le altre è quasi raddoppiato.

    Com'è noto, il prezzo del petrolio è anche il riflesso del valore degli attivi sottostanti che reggono le montagne di debiti. Perciò il suo recente calo sta causando difficoltà finanziarie al settore. Se si cercasse di rispondere con l’aumento della produzione, il prezzo inevitabilmente tenderebbe a scendere ulteriormente. Il che manterrebbe lo squilibrio tra domanda e offerta.

    I bassi prezzi del petrolio ovviamente tendono a ridurre il profitto, aumentano il rischio di default e generano costi finanziari più alti per le compagnie. Contemporaneamente si riducono i flussi di cassa relativi alla produzione con meno liquidità per far fronte al pagamento degli interessi sul debito.

    Il settore energetico ha un comportamento non dissimile dalla dinamica di un asset market (mercato di attività) che riflette non soltanto i cambiamenti attesi nei valori economici fondamentali, ma anche quelli legati alle situazioni finanziarie che alla fine determinano le decisioni delle imprese. Il settore immobiliare è l’esempio più eclatante, non solo negli Usa. Quando le attività sottostanti di un settore altamente indebitato scendono di valore, lo “stress” provocato dal calo dei prezzi induce a vendere una quantità maggiore degli asset su cui si basano i debiti.

    Di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie, il settore energetico può essere anche indotto a diminuire le spese d'investimento, che in gran parte finora sono state finanziate attraverso il debito. Negli Usa molte imprese hanno annunciato tagli fino al 50% delle spese in conto capitale. Quelle altamente indebitate potrebbero essere costrette a vendere attività e impianti o piuttosto a spingersi sui pericolosi mercati dei derivati nella speranza di garantirsi contro le oscillazioni del prezzo.

    Sono quindi molti gli effetti che il drastico calo dei prezzi del petrolio e del gas hanno provocato. A seguito del calo di valore delle attività da portare a garanzia, ora le banche americane tendono a ridurre i crediti a breve per le imprese petrolifere di minori dimensioni, in particolare quelle impegnate nell’estrazione del gas da scisti. Questa è una delle ragioni per cui anche gli investitori di lungo periodo sono meno attratti da questo settore in difficoltà.

    In altre parole, come in passato, la crisi del settore energetico riverbera sull’intera economia i suoi effetti destabilizzanti e aumenta il rischio di conseguenze sistemiche sulla finanza globale.

 

5.13.2015

Pasteggiare con il cianuro no! I derivati e il fallimento del metodo economico

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Negli anni passati i governi italiani hanno sottoscritto con 17 banche internazionali e 2 banche italiane vari tipi di derivati finanziari che a dicembre 2014 avevano un valore nozionale di 163 miliardi di euro. Oggi essi hanno una valutazione di mercato (mark to market) negativa per oltre 42 miliardi. Questa è la somma che si dovrebbe sborsare se dovessero essere conclusi adesso. Non lo si deve fare subito. Ma ciò dimostra la pericolosità dei derivati e l’irresponsabilità di chi li ha negoziati.

    In ogni caso dal 2001 al 2004, in 4 anni lo Stato ha già pagato ben 13 miliardi di euro a causa di derivati andati male. Questi soldi sono usciti “quatti quatti” dal bilancio pubblico per arrivare sui conti delle solite banche “too big to fail”. Contemporaneamente – lo si ricordi - ci si strappava i capelli per trovare qualche centinaia di milioni per i lavoratori, per i disoccupati, per i precari, per i pensionati e per le Pmi. Forse era una messa in scena perché i riflettori non venissero puntati sui miliardi che silenziosamente fluivano verso le banche internazionali.

     “L’esperienza pregressa faceva presumere che …”. Con queste parole inizia sempre la giustificazione per le incompetenti, e a volte fraudolenti, operazioni fatte con i derivati. Più che una insostenibile scusa, esse rivelano il fallimentare pensiero che ha dominato la politica economica in Italia e anche nel resto del cosiddetto mondo avanzato.

    I dati statistici sono molto utili per le analisi economiche. Lo studio delle passate esperienze è senz’altro importante per evitare di ripetere certi errori. Ma le decisioni di politica economica per il presente e per il futuro non possono basarsi sui precedenti, sul passato. L’economia esige una capacità di analisi vera delle sue leggi e degli andamenti per compiere scelte, decisioni e azioni corrette.

    Come funziona l’economia reale? Qual è il ruolo del credito? Quali devono essere i limiti della finanza? Sono alcune delle domande alle quali non si può rispondere con la statistica. Occorre essere in grado di formulare delle politiche giuste, anche nell’ipotesi di una totale mancanza di dati statistici. Politiche misurabili durante il loro percorso attuativo.

    Nella finanza, voler invece perseguire col metodo di un continuo ed identico “passo dopo passo”, soltanto perché fino a quel momento è andato tutto bene, può portare alla catastrofe sistemica. Infatti all’inizio tutte le speculazioni e le bolle finanziarie eccitano la fantasia, stimolano maggior avidità e ingenerano quasi un senso di onnipotenza. Il comportamento truffaldino della speculazione illude e nasconde la verità. Però quando poi si cade, impreparati e illusi, ci si fa veramente male.

    Eppure la crescita progressiva ed esponenziale dei derivati più pericolosi, come quelli Over the counter (otc), stipulati fuori dei mercati regolamentati e non riportati nei bilanci, avrebbe dovuto suonare l’allarme per tutti gli economisti ed in particolare per i governi. Questa bolla era iniziata nel 1998 dopo l’eliminazione del Glass-Steagall Act, la legge voluta nel 1933 dal presidente F. D. Roosevelt dopo la Grande Depressione. Proibendo alle banche commerciali di giocare con i depositi dei risparmiatori ai casinò della speculazione, tale legge aveva avuto effetti positivi sia negli Usa che nel resto del mondo occidentale

    I derivati otc, sotto gli occhi di tutti, negli anni sono cresciuti a dismisura con la complicità più o meno consapevole degli organi preposti ai controlli bancari e finanziari. Nel 1998 ammontavano a 30 trilioni di dollari. Poi vi è stata una continua crescita:140 trilioni nel 2002, 250 nel 2004, 420 nel 2006, 600 nel 2007. A giugno del 2008, alla vigilia del crac della Lehman Brothers e della crisi globale, erano pari a 683 trilioni. Attualmente gli Otc si mantengono intorno ai 700 trilioni di dollari.

    E’ a dir poco sconcertante il fatto che non si sia compresa la gravità di tale abnorme andamento. E’ sorprendente che qualcuno possa ancora ritenere che i derivati siano una specie di “polizza di assicurazione”? Perché i contratti in derivati sono mantenuti nel segreto per paura di destabilizzazioni finanziarie? Si sa che essi sono gestiti, quasi tutti, da una ristretta “loggia” di una dozzina di banche too big to fail.

    Si mettano da parte le definizioni accademiche del derivato e si affronti, nelle competenti sedi governative europee ed internazionali, la dura realtà speculativa dei derivati e delle loro bolle. Non farlo sarebbe esiziale per l’economia mondiale. E’ ben noto che in piccolissime dosi anche i veleni possono essere utili. Pasteggiare con il cianuro no!