3.28.2019

Siamo il primo paese del G7 a sottomettersi alla Cina

FONDAZIONE NENNI

http://fondazionenenni.wordpress.com/

 

 

Sul memorandum Italia-Cina occorre ricordare un punto cardine del diritto europeo, cioè che la politica commerciale è materia UE e che quindi ogni genere di atto che contraddica il diritto comunitario è da considerarsi nullo. Quindi, almeno in linea teorica, non ci dovrebbero essere pericoli di penetrazione eccessiva degli interessi cinesi in Italia (ringraziando l’UE). Il vero dramma di questa negoziazione è che l’Italia stia ponendo le basi per una sottomissione totale al colosso cinese, così come hanno già fatto Grecia e Ungheria.

 

di Federico Marcangeli

 

La strategia di Xi Jinping è molto chiara e punta a tagliare le distanze tra i suoi prodotti ed il secondo mercato mondiale: l’Europa. Nel 2016 questa strategia aveva portato all’acquisizione cinese del porto del Pireo (il più grande porto greco), da usare come grimaldello per l’ingresso in UE e per puntare sempre di più verso la sua egemonia globale. Non a caso la Grecia pose il veto sulla risoluzione ONU del Giugno 2017, che condannava la Cina per le innumerevoli violazioni dei diritti umani.

    Fatto questo primo passo, la necessità era quella di portare le merci nel cuore dell’Europa e l’Italia ha pensato bene di stendere un tappeto rosso, grazie a Ferrovie dello Stato ed alle autorità portuali di Genova e Trieste. I soggetti appena citati rientrano infatti nell’accordo quadro raggiunto e dovrebbero contribuire a portare più rapidamente le merci cinesi in Italia.

    Questa è solo una piccola parte del memorandum, perché sono 21 gli accordi in negoziazione con la Cina e, come è immaginabile, il coltello dalla parte del manico non è certo dell’Italia. Tali negoziati si inseriscono nella cosiddetta “Via della Seta”, progetto iniziato nel 2013 con 1000 miliardi di dollari cinesi investiti per migliorare i collegamenti del paese con il resto del mondo. Secondo Di Maio: “La Via della Seta si firmerà. È un memorandum che permetterà alle nostre imprese di esportare più Made in Italy nel mondo e quindi anche in Cina. E questa è una buona occasione per la nostra economia e le nostre aziende”.

    Peccato che la realtà dei fatti sia “un pò” diversa. La bilancia commerciale Italia-Cina pende infatti verso la seconda per circa 12 miliardi di dollari, nonostante i dazi presenti, che comunque hanno contribuito a ridurre il saldo negli ultimi anni. Con questo quadro, è difficile comprendere come l’ingresso nel progetto egemonico cinese possa giovare sul lungo periodo all’Italia.

    Ancor di più se consideriamo l’opacità dell’accordo che, secondo il Sottosegretario agli esteri Guglielmo Picchi, prevede “intercomunicabilità, energia e telecomunicazioni”, dei campi oggettivamente vaghi e dai confini non delineati. Questo aspetto di non trasparenza è stato già appurato per l’intero progetto “Via della seta”, grazie ad un memorandum firmato nell’aprile del 2018 da 27 dei 28 ambasciatori europei in Cina (poi ratificato dal parlamento europeo, anche con il voto dei 5Stelle), che denunciavano alcuni aspetti chiave:

 

·                 Indebitamento degli stati europei (e non solo) verso la banca di stato cinese, grazie a prestiti a tassi convenienti ma poco trasparenti.

·                 Quasi tutti gli appalti per le infrastrutture sono assegnati a società cinesi.

·                 Scalate da parte di imprese cinesi (controllate ovviamente dallo stato) di numerose società del settore bancario ed energetico.

·                 Ostacolo del libero scambio con stati non aderenti. Lascio a voi ulteriori valutazioni.

 


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3.03.2019

La crescita dello  “shadow banking”

 Le banche stanno per andare in soffitta? Non è una battuta. 

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

 

Pochi crederebbero che nel mondo della finanza le banche non siano più i "number one". Eppure lo conferma il rapporto Global Shadow Banking Monitoring Report 2017 del "Financial Stability Board" (Fsb, il Consiglio per la stabilità finanziaria). Si ricordi che è l'organismo internazionale con il compito di monitorare il sistema finanziario mondiale per ridurre il rischio sistemico. In passato è stato presieduto anche da Mario Draghi.  
    Secondo tale rapporto, alla fine del 2016 gli attivi finanziari globali totali ammontavano a 360.000 miliardi di dollari. Cinque volte e mezzo il Pil mondiale. Essi sono così suddivisi: 160.000 miliardi gestiti dagli organismi finanziari non bancari, 138.000 dalle banche, 26.000 dalle banche centrali e il resto da istituti finanziari pubblici. 
    Gli organismi finanziari non bancari, cioè "gli enti e le attività dell'intermediazione del credito che operano fuori dal sistema bancario regolare", sono dallo Fsb considerati e chiamati shadow banking, "sistema bancario ombra", definizione intesa dal Consiglio senza connotazioni spregiative. 
    Sta di fatto che i soggetti dello shadow banking manovrano cifre spaventose, se si confrontano con quelle del Pil mondiale. Per evidenziare tutta la fragilità e i rischi del sistema finanziario, è, inoltre, doveroso rilevare che non sono inclusi i noti derivati finanziari otc e altri prodotti speculativi, di cui più volte abbiamo denunciato la pericolosità. 
    I soggetti non bancari comprendono le assicurazioni con 29.000 miliardi di dollari di attivi concentrati negli Usa e in Europa, i fondi pensione con 31.000 miliardi, il 60% dei quali in mano americana, e ben 100.000 miliardi dei cosiddetti Other Financial Intermediaries (OFI) che includono vari tipi di fondi d'investimento, hedge fund, holding finanziarie e altri organismi finanziari, spesso "molto fantasiosi" e speculativi. 
    Circa la creazione del credito, però, le banche mantengono ancora il primato con 69.000 miliardi, pari al 77% del totale, lasciando molto indietro il settore dei citati OFI. Il che significa che questi ultimi sono attratti soprattutto da settori molto distanti da quelli concernenti l'economia reale.
    Nel frattempo gli OFI hanno registrato un grande aumento in Europa. Ad esempio, rappresentano il 92% di tutti gli attivi finanziari del Lussemburgo, il 76% dell'Irlanda e il 58% dell'Olanda. L'area euro conta detti attivi per 32.000 miliardi di dollari, superando gli Usa, dove queste voci, in realtà, stanno diminuendo, e superando di molto la Cina, dove, al contrario, è in atto una crescita straordinaria. 
    All'interno degli OFI vi è un settore in continuo aumento che rappresenta ben 45.000 miliardi di attivi considerati molto rischiosi anche dallo Fsb, che li chiama "narrow measure of shadow banking", un nome senza senso anche in inglese e impossibile da tradurre in italiano in modo comprensibile. Non è la prima volta che prodotti finanziari molto rischiosi vengono chiamati, volutamente, in modo stravagante e fuorviante. 
    Secondo il Consiglio per la stabilità finanziaria, le operazioni "narrow measure" sono molto più rischiose in quanto utilizzano massicciamente la leva finanziaria, operando cioè con grandi numeri ma pochi capitali propri. 
    Di conseguenza sono vulnerabili ai rischi di rinnovo delle posizioni e di estensione della scadenza (rollover risk) e a quelli di eventuali massicci ritiri di fondi per timore di insolvenza (run), in particolare quando si rendono dipendenti da finanziamenti di breve periodo. 
    Queste sono esattamente le situazioni che si erano create alla vigilia della Grande Crisi del 2008 e che hanno provocato il crollo del sistema.
    Circa le citate operazioni "narrow measure" gli Usa sono ancora i primi con il 31%, seguiti dall'Europa con il 22% e dalla Cina con il 16%. È molto rilevante il fatto che le Isole Cayman, il "paradiso fiscale" per eccellenza, con 4.700 miliardi di attivi, rappresentano il 10% del totale!
    Nei passati cinque anni la quota del settore bancario si è andata riducendo di anno in anno, rimpiazzata da una crescente e sempre più ingombrante presenza dello shadow banking. La tendenza è stata ancor più forte in Europa. Comunque, resta sempre molto elevata l'interconnessione tra tutti i vari settori, bancari e non. Perciò permane il rischio di crisi sistemiche. 
    Gli studi fatti dal "Financial stability board" sono encomiabili e di grande aiuto. Però, la velocità e le dimensioni degli attuali processi finanziari appaiono davvero straordinarie e ci impongono una domanda. Le autorità di controllo sono veramente capaci di governare questi processi, oppure tentano di inseguire evoluzioni finanziarie che, di fatto, finiscono col dettare i movimenti e le regole di comportamento dei mercati e dei loro principali attori? È un dubbio inquietante che lascia sconcertati.


Produttività zero e recessione

Recessione tecnica, recessione economica, 
crisi economica. Troppe definizioni e poche decisioni…

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista

 

Recessione tecnica, recessione economica, crisi economica. Troppe definizioni e poche decisioni, quando, invece, in Italia necessiterebbe un programma concreto di rilancio dell'economia, fatto d'investimenti, di lavori pubblici, d'incentivi per la modernizzazione e l'occupazione. In situazioni di emergenza, sarebbe necessario un accordo bipartisan per lo sviluppo, come ha saputo fare, anche con molte difficoltà, la Germania. In casa nostra, purtroppo, ieri come oggi, si preferisce "gufare", "tifare" per il fallimento dell'altro, facendo perdere tutti, soprattutto il Paese.  
    L'ultima cosa di cui si ha bisogno sono le pagelle delle agenzie private di rating e del poco affidabile Fondo Monetario Internazionale.  
    Gli analisti e la stampa internazionale, come al solito, puntano il dito sul nostro alto debito pubblico e sui ritardi delle cosiddette riforme strutturali dell'economia italiana. Temono che una successiva contrazione economica possa avere delle conseguenze sull'intero sistema.
    Secondo noi, una delle debolezze più preoccupanti, da correggere con urgenza, è la bassa produttività dell'economia italiana. 
    Dal 2000 il nostro sistema non ha registrato alcun aumento della produttività! 
    Si ha tale aumento quando, attraverso nuove tecnologie e innovazioni, si produce di più con la stessa mano d'opera. La crescita della produttività è il motore della competitività di ogni sistema. 
    Occorre dire, in verità, che le nostre imprese sono state comunque capaci di mantenere un elevato grado di competitività, sfruttando l'innata creatività scientifica e imprenditoriale e mantenendo, nonostante tutto, la bilancia commerciale positiva, sostenuta da un export che dal 2009 è cresciuto del 25%. Nel medio periodo, però, la scarsità dell'innovazione e della modernizzazione non regge il confronto con gli altri paesi che investono, e molto, nelle nuove tecnologie.
    La mancata crescita della produttività non è, comunque, imputabile solo all'alto indebitamento pubblico. Il Giappone, per esempio, ha un gigantesco rapporto debito/pil del 237% ma è il primo paese al mondo, prima degli Usa e della Germania, per la crescita della produttività.
    Non si può, quindi, imputare l'entrata in "recessione tecnica" soltanto all'effetto di fattori esterni, quali la contrazione economica cinese e tedesca.   Nemmeno a certi retaggi del passato, come i disastri della grande crisi finanziaria ed economica del 2008. 
    Ciò detto, ovviamente la nostra economia soffre più degli altri quando le citate "locomotive" frenano.
    Nel 2017 l''export di soli beni, senza i servizi, dell'Italia verso gli altri paesi europei è stato di 250 miliardi di euro, pari al 55% di tutte le nostre esportazioni. La Germania ha, invece, esportato in Europa beni per 750 miliardi: detiene il 22,4% di tutto il commercio infra Ue, mentre la quota italiana è appena del 7,4%.  L'Italia mantiene la quinta posizione, dietro anche all'Olanda, alla Francia e al Belgio. 
    Il più grande surplus nel commercio interno all'Ue (export meno import) è detenuto dall'Olanda con ben 200 miliardi di euro. Mentre l'Italia nel 2017 ha avuto un surplus di oltre 8 miliardi, la Francia e la Gran Bretagna, invece, hanno registrato un deficit nel commercio di beni con gli altri paesi europei rispettivamente di 107 e 110 miliardi di euro. Sono dati, questi ultimi, per certi versi sorprendenti.
    L'Eurostat prevede una momentanea contrazione dell'economia europea. Senz'altro la causa principale è legata all'altalenante guerra dei dazi che Trump ha lanciato contro la Cina e l'Ue. La Germania, in particolare, soffre degli scandali, originati negli Usa, contro le emissioni di gas e dei dazi americani sull'import di auto tedesche. 
    Negli anni passati, l'Europa, in primis la Germania, ha beneficiato della politica cinese di modernizzazione. La Cina è il più grande mercato di macchinari tedeschi di vario tipo. La flessione della crescita cinese in corso va, quindi, a impattare l'export tedesco e comunitario. 
    Non possiamo, quindi, negare i rischi di crescenti difficoltà per la nostra economia. Anche perché si deve tener presente che l'Italia, a differenza di altri paesi europei, non ha ancora recuperato la perdita di pil provocata dalla grande crisi globale del 2008. È ancora di circa il 4% sotto il livello pre crisi. Anche gli investimenti, pubblici e privati, sono sotto del 19,2%. In dieci anni, poi, gli investimenti pubblici sono scesi dal 3% all'1,9% del pil. I consumi delle famiglie e il loro reddito disponibile sono inferiori rispettivamente dell'1,9% e dell'8,8% rispetto a dieci anni fa.
    L'ingresso dell'Italia in una fase di recessione ha già fatto sentire il suo segno negativo anche sulla borsa, in particolare sui titoli bancari. Si teme che la decrescita possa generare nel sistema bancario nuovi crediti deteriorati e rallentare lo smaltimento dello stock in sofferenza. A fine 2017 i suddetti crediti deteriorati ammontavano ancora a 264 miliardi di euro, pari al 17,6% del totale. E ciò avviene mentre la Bce sta riducendo il quantitative easing, cioè l'acquisto di titoli di Stato, che finora ha aiutato a sostenere i debiti pubblici sul mercato. 
    Con la recessione il governo, a corto di munizioni, potrebbe essere tentato di aumentare il debito, sempre più caro e meno gestibile, o di aumentare la pressione fiscale. Occorre evitare di rincorrere la spirale negativa e, invece, è importante mettere in campo azioni anticicliche di sostegno agli investimenti, all'innovazione e al lavoro. Bisognerebbe far ripartire, senza perdere ulteriore tempo, tutti i cantieri e gli investimenti, anche privati, già decisi e finanziati. Sostenere i consumi è importante ma non sufficiente a rimettere in moto un'economia in recessione.