Economia / Riceviamo e volentieri  pubblichiamo
 Personalmente, sono sempre stato convinto che un  governo potesse legittimamente definirsi "tecnico" solo fino all'atto del  giuramento dei suoi componenti e che - a partire dal discorso programmatico del  premier - operasse esclusivamente opzioni di carattere "politico"! Le scelte  operate dall'esecutivo Monti hanno rafforzato questo  convincimento.
 di Renato Fioretti
 Il carattere tecnico del governo in carica ha  rappresentato - a mio avviso - nient'altro che un espediente retorico attraverso  il quale le forze politiche, nessuna esclusa, potessero continuare a esercitare  il proprio ruolo protette da una sorta di "cortina fumogena" entro la quale  operare senza preoccuparsi troppo della coerenza e del rispetto degli impegni  assunti nei confronti degli elettori. 
     Questo vale, in particolare, per il  maggior partito di opposizione.
     Per quel Pd che, solo fino a pochi  mesi or sono, affermava di assegnare al lavoro - e ai lavoratori, ovviamente -  la "centralità" della propria funzione politica!
     Quello stesso partito che rispetto ai  "colloqui" (non "negoziato", perché, in effetti, non si è trattato del classico  "confronto tra le parti") intercorsi tra Monti/Fornero e Cgil Cisl e Uil - sul  sostanziale superamento delle garanzie previste dall'art. 18 dello Statuto - si  era limitato a richiamare la Cgil a un maggiore senso di responsabilità.  
     Che solo dopo la "gaffe" di Monti di  ritenere scaduto il tempo a disposizione delle parti sociali e la "dichiarazione  di guerra" della Camusso, si è reso conto di non avere, in sostanza, frapposto  alcuna posizione politica "di parte" al plateale "decisionismo" del  Premier.  
     Troppo importante, evidentemente,  risultava (per il Pd) lo scongiurare una traumatica - e, questa volta, forse  definitiva - spaccatura tra coloro che ancora non hanno completamente rinnegato  le (ormai lontane) origini di sinistra e quanti, invece, condividono  perfettamente le scelte (politiche, non tecniche) operate da Monti.  
     A partire dai provvedimenti di natura  previdenziale che, tra l'altro, oltre che peggiorare le condizioni di centinaia  di migliaia di lavoratori già prossimi al pensionamento, hanno - oggettivamente  - posto le premesse per vanificare qualunque provvedimento volto a favorire  l'aumento dell'occupazione giovanile.
     A meno che l'auspicata "soluzione  finale" non risulti essere rappresentata proprio dalle inevitabili conseguenze  del superamento dei vincoli ai licenziamenti senza "giusta causa"!
     In estrema e brutale sintesi: alla  maggiore facilità di licenziamento dei lavoratori anziani e/o, per tanti versi,  "scomodi" - portatori di handicap, sindacalizzati (Cgil), soggetti con ridotte  capacità lavorative, donne in gravidanza, ecc - corrisponderà, prevedibilmente,  un aumento considerevole dell'occupazione giovanile; sia pure caratterizzata da  un invariato - o, addirittura, maggiore - livello di precarietà.
     Questo, naturalmente, non avverrà  immediatamente perché - salvo variazioni sempre possibili - i licenziamenti  individuali "plurimi", per motivi economici, non potranno interessare più di  quattro lavoratori nell'arco i 120 giorni. Infatti, qualora il provvedimento  dovesse coinvolgere almeno cinque lavoratori - nello stesso arco di tempo - si  tratterebbe di licenziamenti di tipo collettivo per i quali, nelle aziende con  un organico superiore alle quindici unità, è, inevitabilmente, previsto un  confronto sindacale di merito; sin dall'inizio della procedura.
     Ciò nonostante, resto  (pessimisticamente) convinto che si correrà il concreto rischio di assistere a  una lenta, costante e inesauribile diaspora di lavoratori anziani. 
     A vantaggio(?) di giovani - o, anche,  meno giovani - che avranno il grande pregio di garantire (almeno) due condizioni  d'ineguagliabile valore: una consistente riduzione del costo del lavoro e,  contemporaneamente - come amano, molto efficacemente, rappresentare la  situazione coloro che vivono all'ombra del Vesuvio - lavorare "con due piedi in  una scarpa"! A meno che i datori di lavoro non preferiscano continuare ad  attingere da quel grande "supermarket delle tipologie contrattuali"  rappresentato - nonostante il previsto "maquillage" - dal decreto legislativo  276/03 e ricorrere a una delle tante forme di lavoro atipico ancora  disponibili.
     Tra l'altro, rispetto alle possibili  modifiche che la Fornero si appresterebbe ad apportare al contratto a termine e  al lavoro a progetto, ritengo opportuno esprimere una serie di  perplessità.
     Prima di tutto, però, è doveroso  evidenziare che la titolare del dicastero che fu di Gino Giugni(!) ha anche  affermato di aver evitato di "disboscare" le (troppe) forme di avviamento al  lavoro preferendo ricorrere - per alcune di esse - a una più puntuale  regolamentazione, "Al fine di evitarne gli abusi"!
    Evidentemente Ella spera (il mio timore è  che ci creda davvero) che sia sufficiente prevedere la stesura di un progetto  non più coincidente con l'oggetto sociale delle imprese per evitare qualsiasi  tipo di abuso.
     Per quanto attiene le "partite Iva",  credo sia pura illusione immaginare di porre un freno alla loro ingiustificata  proliferazione (semplicemente) attraverso meccanismi di durata e di ordine  economico. Qualunque operatore, di qualsiasi "Ufficio vertenze sindacali", anche  di Cisl e Uil, sarebbe in grado di indicare alla Fornero almeno un paio di  soluzioni per eludere misure di quel genere; senza neanche la necessità di  ricorrere ai più classici e collaudati "escamotage".
     Anche la soluzione dell'aumento  dell'aliquota contributiva per gli iscritti alla gestione separata dell'Inps  (fino a raggiungere, nel 2018, quella attualmente applicata ai lavoratori  subordinati), così come quella del maggiore costo del lavoro a termine, che  dovrebbero fungere da "deterrente" nei confronti di quei datori di lavoro che -  secondo la Fornero - ricorrono al lavoro atipico perché meno costoso,  dimostrano, purtroppo, una sconcertante semplificazione e sottovalutazione dei  problemi reali. E', invece, sin troppo evidente che, fino a quando si  considererà il ricorso alle tipologie contrattuali "atipiche" un mezzo teso  esclusivamente a risparmiare sul costo del lavoro, piuttosto che uno strumento -  del tutto legale, peraltro - per non garantire ferie, malattia, maternità,  diritti sindacali, garanzie occupazionali e quanto altro, non ci si porrà  concretamente nella condizione ottimale per contrastare la dilagante  precarietà.
     Così come, a mio parere, Ella  s'illude che allungare l'intervallo tra la stesura di un contratto a termine e  l'altro (con lo stesso soggetto) sia sufficiente a evitare che centinaia di  migliaia di lavoratori - non solo giovani - continuino a essere "tra color che  son sospesi". Evidentemente, alla Fornero sfugge che la vigente normativa  consente ai datori di lavoro di reiterare il ricorso al tempo determinato - non  necessariamente con gli stessi soggetti - grazie a "causali" di tipo  general-generiche. 
     All'uopo, è paradossale che la c.d.  "riforma" abbia previsto che, per la stesura del primo contratto a termine, non  sarà più obbligatoria l'indicazione di alcuna "causale". Si tratta di  un'evidente forzatura, che manifesta, per altro, la volontà del definitivo  superamento di quella che dovrebbe essere considerata una "condicio sine qua  non" per la stesura di un contratto a tempo determinato.
     Tra l'altro, per quanto attiene  l'aumento del costo del lavoro a termine, delle due, l'una: o la Fornero ritiene  opportuno contrastare e limitare gli abusi nel ricorso a tale tipologia  contrattuale - pur operato nel rispetto della vigente normativa - oppure, da  "riformista", eviti (demagogicamente) di penalizzare inutilmente le  aziende.
     Sono, infatti, convinto che il lavoro  a termine, oggettivamente motivato da esigenze aziendali a carattere temporaneo  e/o straordinario e non semplicemente dettato dalla volontà datoriale di  mantenere i lavoratori in un'ingiustificata condizione di "surplasse", debba  essere consentito; evitando le possibili degenerazioni e senza imporre alcun  aggravio di carattere economico.
     Purtroppo, quando Monti: "Eviteremo  gli abusi nella gestione dei licenziamenti per motivi economici" e la Fornero:  "Modificare l'art. 18 non ci sembra sia calpestare i diritti", dimostrano di  avere seri problemi di "connessione" con la realtà del mercato del lavoro  italiano, è lecito nutrire i più pessimistici dubbi.
     In questo contesto, se le  rassicurazioni Monti/Fornero appaiono infondate, oltre che inconsistenti e quasi  patetiche, tanto più inopportune e irrituali risultano le "esternazioni" di  Napolitano - " Non credo che stiamo aprendo le porte a una valanga di  licenziamenti facili sulla base dell'art. 18" - quando opera una palese  forzatura nei confronti del Pd e della Cgil. 
     La (sgradevole) sensazione è di  ritrovarsi "al di fuori della realtà"!
     Con interlocutori di un Paese nel  quale non esistano - in forme degenerative - né evasione fiscale né  contributiva, senza lavoratori "a nero" o "grigi", ove sia assolutamente  sconosciuta la famigerata pratica delle c.d. "dimissioni in bianco", nel quale  la busta paga di un lavoratore rappresenti sempre quanto realmente percepito e,  soprattutto, una società nella quale - a partire dai politici - siano  scoraggiati e adeguatamente perseguiti tutti quei comportamenti tesi a  "evadere", "eludere" o, più semplicemente, a operare da "furbetti"!   
     Invece, per quanto riguarda  l'apprendistato, è appena il caso di evidenziare che i c. d. "tecnici",  nell'esaltarne le (future) proprietà - quale canale privilegiato di avviamento  al lavoro - dimenticano un particolare non irrilevante: che si tratta di uno  strumento riservato a coloro che hanno un'età massima di 29 anni.
     Considerate le classi di età nelle  quali rientrano i lavoratori "precari": il 30,3 per cento ha tra i 25 e i 34  anni, il 27,2 tra i 35 e i 44 e il restante 24,9 per cento è rappresentato dagli  ultra quarantaquattrenni, è sin troppo evidente che assegnare alla riforma in  oggetto anche il compito di combattere e ridurre la precarietà, appare  velleitario e, direi, demagogico!
     Inoltre, per tornare all'art. 18,  rispetto al paventato rischio che la possibilità di "monetizzare" la risoluzione  del rapporto di lavoro - senza più preoccuparsi della sussistenza di una "giusta  causa" - finisca per realizzare una vera e propria "macelleria sociale", è  opportuno rilevare che lo stesso governo ne appare indirettamente consapevole.  Non a caso, è stata prevista l'istituzione di un "Fondo per lavoratori anziani"  che avrebbe il compito di fornire un sussidio su base assicurativa.
     A questo riguardo, ritengo che,  purtroppo, saranno sufficienti appena pochi mesi per prendere atto dell'enorme e  dirompente impatto che la liberalizzazione del licenziamento di tipo economico  produrrà nei confronti di centinaia di migliaia di lavoratori che, già  penalizzati in termini d'innalzamento dell'età pensionabile, oggi sono in cassa  integrazione ordinaria, straordinaria o in deroga.  
     Eppure, nonostante le perplessità che  dovrebbero (sempre e legittimamente) accompagnare provvedimenti di questa  natura, sono stupefacenti la superficialità e il pressapochismo con i quali  taluni commentatori hanno inteso sbilanciarsi nel tessere le lodi del "Monti e  Fornero pensiero".
     In questo senso, Maurizio Ferrera -  attraverso le pagine di un noto quotidiano nazionale - plaudeva alla riscrittura  dell'art. 18 perché "I giovani si meritano, finalmente, una riforma che apra  loro prospettive di buona occupazione, in condizioni di uguale trattamento e  pari opportunità".
     Personalmente sono sicuro che di una  cosa il Ferrera potrà - da qui a pochi mesi - realisticamente rallegrarsi: ai  giovani che vinceranno la lotteria di un'occupazione - in ossequio alle  condizioni di eguale trattamento e pari opportunità - sarà, prima o poi,  riservato lo stesso trattamento cui saranno presto sottoposti centinaia di  migliaia di lavoratori anziani. Il loro rapporto di lavoro potrà essere risolto,  in qualsiasi momento, per non meglio precisati "motivi economici", anche se non  in presenza di una "giusta causa".
     Indubbiamente, un gran bel  successo!
     Al riguardo, mi piace anche riportare  il contenuto di una "Lettera al Direttore" - dello stesso quotidiano - scritta  da due ex ministri del lavoro del centrodestra.
     Nella missiva, Sacconi e Maroni, dopo  aver ancora una volta colto l'occasione per (impunemente) accusare la Cgil di  aver organizzato, nel 2002, una "mobilitazione di piazza" - si trattò,  piuttosto, di uno sciopero generale (cui aderirono circa tre milioni di  cittadini italiani) che sarebbe stato impossibile revocare dopo tre giorni dal  criminale episodio - "anche successivamente all'assassinio di Marco Biagi",  tornano a decantare le taumaturgiche virtù di un altro provvedimento di riforma  del mercato del lavoro. 
     Quel decreto legislativo 276/03,  ancora considerato "Il padre di tutti i decreti" dei governi Berlusconi.   
     Ebbene, nonostante gli anni  trascorsi, contando - evidentemente - sui "vuoti di memoria" degli italiani,  entrambi gli ex ministri sostengono che "Da allora e fino ai tempi della grande  crisi si generarono oltre un milione e mezzo di posti di lavoro".
     Niente di più falso e  mistificatorio!
     E', infatti, opportuno rilevare che  l'ormai fantomatico e famigerato "milione e mezzo di occupati in più", generato  dall'inizio della "Nuova era" berlusconiana (2001) e dall'applicazione del  decreto 276/03 - che il centrodestra ha sempre (erroneamente e strumentalmente)  richiamato quale "Legge Biagi" - già rappresentava, negli ultimi mesi del 2005,  una palese opera di "millantato credito".  
     All'uopo, è sufficiente evidenziare  che, secondo le "Rilevazioni sulle forze di lavoro" dell'Istat, all'atto del  sostanziale avvio del Berlusconi II - terzo trimestre del 2001 - gli occupati in  Italia erano pari a 21 milioni e 798 mila. Mentre all'epoca del terzo trimestre  del 2005 - all'apice della perseverante e sistematica opera di "pubblicità  ingannevole" - gli stessi erano pari a 22 milioni e 542 mila.   
     Si era, quindi, realizzata una  crescita degli occupati pari a 744 mila unità; altro che un milione e  mezzo!
     Senza contare che, secondo i dati  ufficiali dell'Istituto nazionale di statistica, "Con la legge 189/02, per  l'emersione del lavoro irregolare prestato da cittadini extracomunitari presso  le famiglie, è stata sanata la posizione di 316 mila 489 immigrati; mentre con  la legge 222/02 le imprese hanno ufficializzato la presenza di 330 mila 340  immigrati che lavoravano a nero"!
     Ho richiamato quello che, all'epoca,  definii "Il grande bluff sull'occupazione", perché anche nella discussione sul  superamento - altro che "manutenzione" - dell'art. 18 si sono sprecate le  enfatizzazioni nel sostenere che tutte le energie del duo Monti/Fornero si  sarebbero concentrate verso un unico e irrinunciabile obiettivo: abbattere la  condizione di "apartheid" vissuta dai giovani nei confronti dei lavoratori  "garantiti"!
     Ci si ritrova, in sostanza, nella  stessa condizione del 2003, post legge 30 che, al pari dell'attuale riforma  avrebbe dovuto rappresentare il toccasana di tutti i mali che affliggevano - e  continuano a caratterizzare - l'asfittico mercato del lavoro  italiano.
     Il tempo, come rilevato, ha  smascherato il fallimento di quel tipo di politica fondata sull'equazione  flessibilità/precarietà = aumento dell'occupazione. Ebbene, ciò nonostante,  Monti/Ferrero esprimono ora il convincimento secondo il quale i problemi del  lavoro e della mancata competitività del sistema produttivo italiano siano  dettati dalla mancanza di "flessibilità in uscita".  
     Ma, come sinteticamente e  brillantemente illustrato da Chiara Saraceno, attraverso un articolo pubblicato  dal maggiore quotidiano nazionale: "I modelli danesi e tedesco" - spesso citati  dalla ministra che (sicuramente) ricorderemo in virtù dell'infelice battuta  sulla "paccata di miliardi" - sono dinamici "perché sono dinamiche le aziende.  Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro sia  diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa  competitività italiana, da cui deriva anche l'alto tasso di disoccupazione, ha a  che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa  capacità d'innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e  in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in  Italia, non è certo per timore dell'articolo 18, ma perché temono la  macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di  proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa  stessa"!
     Anche un "grande saggio" del  sindacalismo confederale italiano, un personaggio, che per essere stato il  massimo responsabile nazionale della Cisl - all'epoca di Lama e Benvenuto - non  può certamente essere considerato un pericoloso "bolscevico", ha ritenuto  opportuno evidenziare che l'intervento Monti /Fornero sull'art. 18 rappresentava  esclusivamente una mossa politica per rassicurare i partner europei; soprattutto  perché ostacolata dalla sola Cgil!
     In questo contesto, a mio avviso, il  convincimento espresso da Napolitano: " Non credo che stiamo aprendo le porte ad  una valanga di licenziamenti facili sulla base dell'art. 18", rappresenta una  forzatura nei confronti della Cgil e, in particolare, del Partito democratico.  Il che, eufemisticamente parlando appare per lo meno azzardato e, purtroppo,  come già avvenuto in altre occasioni, inopportuno!
     Una menzione a parte meritano Bonanni  e Angeletti.
     Personalmente, ho trovato patetico il  loro "dietrofront" rispetto ai contenuti dell'operazione Monti/Fornero; anche se  comprendo quanto imbarazzo abbiano prodotto loro il ripensamento - inatteso e  tardivo - del Pd e, soprattutto, la posizione assunta dai vertici della chiesa  cattolica.
     In effetti, tanto il segretario della  Cisl, quanto quello della Uil, in un primo momento avevano sostenuto che  l'accordo sull'art. 18 era da considerare praticamente fatto. Solo  successivamente alle vibrate proteste della Cgil e al "ripensamento" del Pd - o,  almeno, della maggioranza dello stesso - hanno dovuto prendere atto che il  sostanziale "placet" di Bersani era venuto meno e sono stati costretti a  un'involontaria ma repentina e clamorosa "retromarcia". Tanto che oggi - anche  sulla scorta delle immediate proteste di tantissimi dei loro iscritti -  concordano sul fatto che la norma concernente i licenziamenti economici debba  essere modificata.
     Si tratta, evidentemente, della più  classica delle incoerenze, nella quale, oggettivamente, è molto difficile  riuscire a individuare i caratteri di un sindacalismo serio, autonomo e a  carattere confederale!
     In sintesi, a dimostrazione del fatto  che su questa vicenda avremmo potuto risparmiarci: a) il pianto "ex ante" della  Fornero, b) le insulse dichiarazioni di molti "tecnici" e "esperti", c) le  "inopportune" pressioni del Capo dello Stato, d) le "pirolette" di Bonanni e  Angeletti, e) le titubanze del Pd e le inverosimili rassicurazioni del Premier,  è sufficiente riportare quanto dichiarato dal neopresidente di Confindustria,  Squinzi.
     "In linea generale non credo sia  l'art. 18 a bloccare lo sviluppo del Paese". Il che, detto dal massimo  rappresentate degli industriali, dovrebbe (almeno) far arrossire e invitare al  silenzio quanti continuano ad addebitare all'art. 18 dello Statuto anche il  "nanismo" delle imprese italiane!
     Resta, però, un dubbio. Quello di  essere rimasti tutti coinvolti in una grandiosa e abile rappresentazione  teatrale, nella quale le comparse sono costrette a recitare "a soggetto" -  rispetto all'uno o l'altro capitolo - senza rendersi conto che intanto i  protagonisti - modestamente acconciatisi sotto vesti da "tecnici" - sono  impegnati ancora a tessere la vera trama!
     Dico questo perché ho la sensazione  di avere, come un po' tutti, guardato "più al dito che non alla luna". Nel senso  che la "riforma" del lavoro annunciata da Monti ha finito per coinvolgere tutti  in una (pur giusta) discussione rispetto al valore, simbolico e pratico,  dell'art. 18 dello Statuto.
     La conseguenza, però, è che si sono  colpevolmente sottovalutati altri aspetti del provvedimento che rivestono,  invece, notevole importanza.
     Giusto per elencare qualche capitolo  cui, a mio avviso, avremmo dovuto rivolgere maggiori attenzioni, mi limito a  segnalare che Monti/Fornero hanno assestato alcuni micidiali "uppercut" a una  serie di altre norme in materia di lavoro.
     Prime tra tutte, a quelle che,  attraverso la legge 223/91, regolano la durata dell'indennità di mobilità,  l'ammontare dell'assegno complessivamente corrisposto ai lavoratori e la (non  trascurabile) condizione di favore prevista per i lavoratori  meridionali.
     Contemporaneamente e contrariamente a  quanto sostenuto dalla Fornero, nelle prime (lacrimevoli) interviste da  ministra, nulla è stato fatto né per "bonificare" o, almeno, drasticamente  ridurre le tante (troppe) tipologie contrattuali "atipiche" attualmente  disponibili, né per favorire il reale allargamento della platea dei soggetti cui  riconoscere un adeguato sostegno al reddito in caso d'inoccupazione  temporanea.


4/04/2012
Avvenire dei Lavoratori